1976-1985: i sindaci rossi
Le elezioni comunali del novembre 1976 segnano un vero e proprio sconquasso politico a Roma. Il Partito Comunista Italiano, con il 35.48% dei voti, trionfa ovunque, in centro come in periferia, ottenendo 30 seggi e la maggioranza relativa del consiglio capitolino. Tre seggi in più della Democrazia Cristiana, che vede così terminare il suo trentennale predominio in città. Si apre una nuova fase, che durerà un decennio: quella dei sindaci di sinistra della capitale.
Giulio Carlo Argan
Sorpresa nella sorpresa, il Partito Comunista romano, uscito inaspettatamente vincente dalle elezioni, nel fare la sua scelta per la poltrona di primo cittadino, decide di nominare sindaco un indipendente, uno che oggi si definirebbe un tecnico, cioè non un politico di professione, bensì un intellettuale, uno storico dell’arte di fama internazionale: Giulio Carlo Argan. Generazioni di studenti italiani ne conoscevano benissimo il nome, che avevano imparato a menadito grazie ai suoi manuali, adottati da anni come libri di testo in quasi tutti i licei della penisola. Ciò che di lui non si conoscevano erano le capacità politiche, visto che Argan, nonostante i suoi quasi settant’anni di vita, mai fino ad allora si era gettato in quell’agone.
È forse per questo che, una volta diventato sindaco, Argan si appresta ad esercitare il nuovo ruolo senza rinnegare il suo passato d’intellettuale. In una città da decenni devastata dalla speculazione edilizia e dalla corruzione, il suo primo obiettivo dichiarato è quello di tentare di innalzare il livello culturale di Roma e dei suoi abitanti. “Nel mio pensiero la città è cultura, niente altro che cultura”, dice in un’intervista. A tale scopo avvia una strenua campagna in difesa dell’ambiente e per la riqualificazione storica e urbanistica della città, operando anche per permettere la pedonalizzazione dei Fori imperiali.
“Nel mio pensiero la città è cultura, niente altro che cultura”: se si pensa a questa frase di Argan si capisce bene perché la sua giunta venga oggi ricordata soprattutto per la presenza di un giovane assessore, l’allora poco noto Renato Nicolini. Architetto, drammaturgo, Nicolini, che sarà assessore alla cultura sia nella giunta Argan che nelle successive giunte Petroselli e Vetere, è l’ideatore di quella che venne subito definita la “politica dell’effimero”, cioè una politica fatta di grandi eventi, di spettacoli, di mostre, di manifestazioni pubbliche. Oltre tutto in anni in cui Roma è flagellata dalla logica degli opposti estremismi, dagli attentati politici, dai crimini della banda della Magliana, dalla paura ad uscire di casa.
Le operazioni avviate da Nicolini, i suoi festival, i suoi reading poetici, le sue proiezioni cinematografiche alla Basilica di Massenzio, sono certamente iniziative effimere, che non lasciano in apparenza traccia all’interno della città e che per questo vengono subito criticate come un inutile sperpero di soldi pubblici. E invece, per paradosso, sarà proprio quel nome Estate romana (oggi lo definiremmo un brand), che Nicolini conierà, raggruppando in un unico contenitore le varie effimere manifestazioni culturali organizzate dal Comune, che resterà uno dei principali lasciti alla città rimasti intatti nei decenni, facendo riapprezzare ai romani la gioia di uscire all’aperto, sopravvivendo alle epoche, ai cambi di colore politico delle varie giunte, arrivando indenne e glorioso fin quasi ai giorni nostri (sarà solo nel 2020 che la giunta Raggi deciderà di abolire, fra mille polemiche, la dizione ufficiale di Estate Romana).
“Nel mio pensiero la città è cultura, niente altro che cultura”. Per “cultura” Giulio Carlo Argan non intendeva però soltanto la salvaguardia dei monumenti, o la realizzazione di spettacoli ed eventi. Cultura fu anche il tentativo di soluzione del problema casa, per i molti romani che vivevano ancora nelle borgate, con lo sviluppo di quel programma di edilizia popolare già avviato dal suo predecessore Clelio Darida. E, ovviamente, cultura fu la scelta di dotare Roma di una nuova Università, quella di Tor Vergata, da lui progettata come un centro di ricerca scientifica avanzata.
Giulio Carlo Argan è stato anche il sindaco di quello strano anno 1978, l’anno che a Roma fu quello dei tre papi (Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II), papi che egli saluterà tutti in fascia tricolore, così come dovrà drammaticamente salutare, nella sua veste di sindaco, la salma di Aldo Moro, rapito e poi ucciso in quell’anno nelle vie della capitale.
Nel 1979, Argan decide, inaspettatamente, di rassegnare le proprie dimissioni. Ufficialmente lo fa per ragioni di salute, dato l’avanzare degli anni (vivrà comunque per altri tredici anni). Concretamente non si sa con certezza il vero motivo della sua scelta, a meno di non dare spazio a certa dietrologia, che vuole il Partito Comunista dietro le quinte di quella decisione inattesa, ritenendosi un partito ormai maturo per mettere alla guida della città un proprio diretto esponente politico.
Luigi Petroselli
Per uno di quegli strani scherzi del destino, a un sindaco che si dimette per motivi di salute, succede un sindaco che, due anni dopo, finirà per morire prematuramente a causa di un infarto fulminante, mentre è ancora in carica: Luigi Petroselli. La sua scomparsa improvvisa, unita alla sua attività politica, hanno creato attorno alla figura di Petroselli una sorta di mito, facendone quasi un’icona laica, a cui, non per caso, la città ha dedicato fin da subito un’importante via del centro, a pochi passi dal Campidoglio.
Se Argan era stato il sindaco della cultura, Petroselli, a buona ragione, può essere considerato il sindaco delle periferie, alle quali dedica una particolare attenzione durante i suoi due anni di mandato. In questa ottica egli prosegue una politica di sviluppo dell’edilizia popolare, firmando anche un protocollo d’intesa con le principali imprese edili, per mantenere un criterio regolato nell’espansione della città. Un protocollo che, purtroppo, resterà in larga parte lettera morta.
La periferia, almeno quella sud-est, viene ulteriormente avvicinata anche grazie all’inaugurazione della metro A, che nel 1980 vede la luce, consentendo finalmente di raggiungere in pochi minuti il centro città, anche partendo da zone periferiche come Subaugusta o Anagnina. È un successo personale per Petroselli, ritenuto l’eroe capace di portare a compimento un’opera fondamentale, dopo gli anni interminabili dei ritardi nei lavori (iniziati già nel 1963) e dell’aumento esorbitante dei costi. Un successo a cui si aggiunge anche quello per la pedonalizzazione dell’area intorno al Colosseo, liberando uno dei luoghi più belli del mondo “dalla sua degradante funzione di paracarro monumentale”, come dichiarerà in un’intervista.
È soprattutto il suo stile semplice e diretto, molto diverso da quello dei politici del proprio tempo, a farne rapidamente un punto di riferimento e un vero idolo per le classi lavoratrici romane, tanto che, alle elezioni comunali del 1981, accompagnate da una campagna elettorale che punta molto su queste qualità umane, prima ancora che politiche, del sindaco (illuminante, in questo senso, lo spot elettorale realizzato dal PCI in quella occasione e che vede come protagonisti, a fianco del candidato, Ninetto Davoli, Franco Citti e Antonello Venditti), i comunisti ottengono un successo ancora maggiore rispetto a quello di cinque anni prima, con il 36% dell’elettorato, 31 seggi in consiglio (uno in più di quanti ne avevano ottenuti nel ’76) e oltre 130 mila voti di preferenza per Petroselli. È il 17 settembre 1981. Poche settimane dopo, il 7 ottobre, l’infarto e la morte, durante un’assemblea del PCI, stroncheranno i propositi elaborati da Petroselli, in vista del suo secondo mandato.
Ugo Vetere
A raccogliere l’impegnativa eredità di Petroselli è il nuovo sindaco Ugo Vetere. Ex partigiano ed ex sindacalista, trasferitosi a Roma in gioventù dalla natia Reggio Calabria, Vetere era stato dirigente locale prima e deputato poi per il Partito Comunista Italiano. Assessore al bilancio, sia con la giunta Argan che con Petroselli, una volta eletto sindaco, Vetere non riesce ad ottenere dai romani la stessa simpatia umana ricevuta dal suo predecessore. Vuoi forse per il suo marcato accento calabrese, che lo rende non totalmente affine a un verace spirito “de noantri”, vuoi forse per il fatto di essere comunque “il sostituto” del precedente sindaco scomparso, vuoi anche per la sfortuna di essere stato il sindaco che dovette consolare i cittadini radunati all’Olimpico e al Circo Massimo per assistere alla sfortunata finale Roma-Liverpool di coppa campioni, persa dalla Roma, Vetere non entrerà mai completamente nel core de Roma e dei suoi abitanti.
Eppure è Vetere, non fosse altro che per la durata del suo mandato, che porta davvero a compimento i progetti avviati da Argan e da Petroselli. È con lui che l’Estate romana comincia ad essere unanimemente apprezzata e diventa un’istituzione insostituibile per la città. È con lui che molti quartieri di edilizia popolare vengono ultimati, che prosegue la pedonalizzazione del centro, che l’Università di Tor Vergata viene inaugurata, con l’inizio dell’attività didattica nelle facoltà di ingegneria, giurisprudenza, medicina, scienze e lettere.
Vetere può essere anche considerato il sindaco del “verde”. Durante il suo mandato si acquisiscono infatti numerose aree, che portano alla realizzazione di 33 parchi urbani, si attivano le battaglie per il parco della Caffarella e si apre al pubblico Villa Torlonia. Diventano parchi pubblici anche realtà periferiche o poco note, quali Villa Lazzaroni, Villa Bonelli e Villa Carpegna. Vengono inoltre creati più di 40 nuovi centri sociali per gli anziani, oltre a parchi giochi per i più piccoli e circa 300 biblioteche di quartiere.
Nel 1984 Vetere è anche uno dei principali protagonisti di un episodio di cronaca, che sconvolge per qualche ora l’Intera città: il sequestro di una scolaresca all’interno dell’istituto Ignazio Silone, a Montesacro, da parte di un uomo armato. Sarà proprio Vetere a condurre personalmente le trattative col sequestratore, in accordo con il questore e il comandante dei Carabinieri, riuscendo alla fine a convincerlo ad arrendersi e a liberare i bambini.
Nonostante i suoi successi politici e personali e l’aura da “eroe” ottenuta grazie a quella vicenda, Vetere continuerà però a non fare breccia fino in fondo nell’animo dei romani. Alle elezioni del 1985 il Partito Comunista Italiano finirà per perdere, chiudendo così il suo decennio alla guida del Campidoglio. La maggioranza relativa tornerà nelle mani della Democrazia Cristiana e del cosiddetto pentapartito, l’alleanza politica che guiderà la città nei successivi nove anni, fino agli sconvolgimenti che, con l’inchiesta di mani pulite, ne decreteranno la fine.
Ma questo sarà l’argomento del prossimo capitolo della nostra storia.
Storie di Campidoglio
GLI ARTICOLI DELLA SERIE:
01 – Tutti i sindaci del Re
02 – I sindaci umbertini
03 – Nathan, “er mejo sindaco”
04 – I governatori del Ventennio
05 – Il regno di Rebecchini
06 – I sindaci della Roma Olimpica
07 – Clelio Darida, l’ultimo DC
08 – 1976-1985: i sindaci rossi
09 – 1985-1993, gli anni del Pentapartito
10 – Il sindaco del Giubileo
11 – La Roma di Veltroni
12 – La destra in Campidoglio
13 – Marino: il sindaco interrotto