Roma in 100 film
La presa di Roma
Sono centinaia le pellicole che raccontano Roma. Da “La dolce Vita” di Fellini, a “La grande bellezza” di Sorrentino, passando per “Vacanze romane”, la storia del cinema italiano e internazionale è legata a doppio filo con la nostra città. Così fu fin da prima della nascita degli studi di Cinecittà, quel “tempio della cinematografia” in cui sarebbero state girate migliaia di pellicole. Non a caso, infatti, il primo film italiano della storia, realizzato nel 1905 da un pioniere della “settima arte”, il regista Filoteo Alberini, ha la Capitale fin dal suo titolo, oltre che nel suo soggetto e nella sua sceneggiatura. Parliamo di “La presa di Roma”, noto anche come “Bandiera bianca”, o come “La breccia di Porta Pia”, la prima pellicola mai proiettata in pubblico in Italia.
Emulo dei Fratelli Lumière, Alberini può essere considerato il primo grande regista italiano. Nato a Orte nel 1865, ma trasferitosi ben presto a Roma, Alberini era affascinato dalla nuova invenzione e perciò, nel 1904, insieme all’amico Dante Santoni, nel quartiere di San Giovanni, fondò la ditta “Primo Stabilimento Italiano di Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni”, che nel 1906 cambierà nome in “Cines”. Nel 1904, sempre a Roma, a piazza Esedra, aprì il cinema “Moderno”, prima sala di proiezione della capitale. L’anno dopo iniziò a girare i suoi primi film.
La prima proiezione pubblica ufficiale di “La presa di Roma”, ebbe luogo il 20 settembre del 1905, in occasione del trentacinquesimo anniversario degli eventi narrati sullo schermo. L’opera, originariamente della durata di circa dieci minuti (di cui attualmente ne restano visibili solo quattro), racconta, in diversi quadri, i fatti che portarono alla conquista dell’Urbe da parte dell’esercito italiano, dopo i vani tentativi di mediazione con le truppe papaline, Le scene in esterno vennero tutte girate dal vero, a conferire maggiore autenticità alla narrazione. Nel 2005, anno del suo centenario, grazie al Centro Sperimentale di Cinematografia, il film ha subito un efficace restauro.
Mi chiamo Francesco Totti
Il docufilm del 2020, diretto da Alex Infascelli, non è semplicemente il racconto della vita e della carriera di un calciatore che per oltre un ventennio è stato la bandiera della squadra che di Roma porta il nome. “Mi chiamo Francesco Totti” è una sorta di inno alla romanità, espresso attraverso la vicenda personale di un romano famoso ed esemplare, che riesce a colpire anche chi non è mai stato tifoso romanista, o non ha mai amato il calcio.
Si parte dai filmati amatoriali d’epoca, di quando un Totti bambino prendeva a calci, sulla spiaggia di Torvaianica, un pallone che pareva più grande di lui. Si passa poi attraverso le immagini di tutta una lunga carriera, percorsa sempre con la stessa maglia, come accadeva solo ai calciatori di altre epoche e oggi non accade più, dimostrando in questo che Totti, proprio come il più autentico spirito dei romani, viene da un passato antico, eroico e immortale, anche se vissuto nella semplice quotidianità del presente.
Per chi è tifoso, o semplice appassionato di calcio, si rivedono le immagini dei festeggiamenti al Circo Massimo per lo scudetto del 2001, oltre a quelle del famoso rigore a “cucchiaio” in Italia-Olanda del 2000, o dei mondiali di Berlino 2006. Per tutti gli altri, che tifosi non sono, si gode della simpatia spontanea e a tratti ruvida e grezza di quell’ex calciatore, della sua umanità, della sua vulnerabilità, di un uomo che si racconta in prima persona e, con se stesso, racconta Roma e la romanità.
Ma il documentario è anche un film e, come accade nei film, per ogni eroe buono – e Totti a suo modo lo è – c’è anche sempre un antagonista, impersonato in questa pellicola da Luciano Spalletti, il suo ultimo allenatore, nell’involontario ruolo del cattivo. Ma soprattutto c’è Roma, con il quartiere d’infanzia, gli amici, i tifosi, la famiglia, lo Stadio Olimpico, il Colosseo, in un gioco di rimandi fra vita pubblico e privata, fra contemporaneità e romanità arcaica, che finisce per colpire il cuore dello spettatore.
Acqua e sapone
Quarto film di Carlo Verdone, datato 1983, di cui egli firma la regia e la sceneggiatura, oltre a esserne l’attore protagonista. È anche il secondo film, dopo “Bianco, Rosso e Verdone”, in cui, a vestire i panni della nonna di Verdone, è una donna che ha incarnato il prototipo dello spirito romanesco più verace, la quintessenza della Roma più autentica e popolare: quell’Elena Fabrizi, meglio nota come la Sora Lella, sorella del grande Aldo.
La storia raccontata è quella di un trentenne laureato col massimo dei voti, Rolando Ferrazza, costretto però a fare il bidello e ad arrotondare lo stipendio tenendo delle ripetizioni d’italiano per stranieri, che, per alcune coincidenze fortuite, si trova a fingersi il noto teologo padre Michael Spinetti e a divenire l’insegnante personale di una giovanissima modella americana, Sandy Walsh, interpretata da Natasha Hovey, giunta a Roma per una serie di sfilate. Fra i due nascerà un affetto sempre più intimo, mentre passeranno ore a girare liberi per la città, dimenticando di doversi applicare nello studio. Alla fine, però, l’inganno verrà scoperto e i due finiranno per separarsi.
Roma è presentata, in questa pellicola, non solo attraverso la verace romanità della Sora Lella, ma anche dalle immagini che fanno da sfondo e da cornice. C’è Testaccio, il quartiere in cui Verdone e sua nonna abitano, in un appartamento che, curiosamente, è davvero all’indirizzo detto in una delle scene. La villa in cui vive Sandy è invece in una zona più periferica, per la precisione in via di Grottarossa, non distante dalla Cassia, dove sono girate diverse scene della pellicola, come quella in cui Verdone si trova ad aspettare un bus in piena campagna. Una scena è poi ambientata nel vecchio Drive In di Casalpalocco, oggi chiuso, mentre un’altra è girata accanto alle piste dell’Aeroporto di Fiumicino.
Avanti c’è posto
Grazie a questo film del 1942, diretto da Mario Bonnard, il protagonista Aldo Fabrizi, all’epoca esordiente sul grande schermo, comincerà una carriera cinematografica che lo renderà famoso in tutto il mondo e non più solo nei teatri di rivista della Capitale. Come suggerito dal titolo, è il racconto delle vicende di un bigliettaio del trasporto pubblico romano, di quell’azienda allora chiamata ATAG (Azienda Tranvie e Autobus del Governatorato), destinata due anni più tardi a trasformarsi in ATAC (Azienda Tranvie e Autobus del Comune), il nome che mantiene a tutt’oggi.
Cesare (Aldo Fabrizi) si troverà ad assistere la giovane Rosetta, vittima su un filobus del furto di alcuni soldi da lei tenuti nella borsetta. I padroni della casa in cui Rosetta lavora come cameriera, saputo del furto e non ritenendola più affidabile, la cacciano via. Sarà allora proprio il bigliettaio ad aiutarla a trovare una nuova sistemazione. Cesare si è infatti innamorato della bella Rosetta, un amore che lei ricambia con un affetto quasi filiale, data la differenza d’età. Ben presto, però, il bigliettaio scoprirà che Rosetta è in realtà innamorata del suo più giovane e prestante collega Bruno. Perciò, pur con la morte nel cuore, Cesare deciderà di aiutare i due ragazzi a coronare il proprio amore. Nel finale del film Bruno verrà comunque richiamato al fronte, un evento questo che fa entrare nella vicenda la feroce guerra allora in corso, fino a quel momento poco presente nella storia.
La sceneggiatura di questa pellicola è scritta, oltre che dallo stesso Fabrizi, anche da una firma del calibro di Cesare Zavattini e da un misterioso Federico, che, pur non essendo ufficialmente accreditato, stranamente appare nei titoli del film, ma senza il suo cognome, un cognome destinato a divenire molto famoso: Fellini.
È anche attraverso il percorso dei filobus su cui Fabrizi lavora, che con questo lavoro cinematografico si conosce meglio la Roma di quegli anni. Si va dalla Montesacro in cui è collocato uno dei capolinea, nei pressi di Ponte Nomentano, a via della Conciliazione, allora in fase di costruzione, a piazza Risorgimento, un luogo di Roma che ancora oggi fa da capolinea per alcuni tram e bus dell’azienda di trasporto pubblico. La scena della sfilata delle truppe in partenza per il fronte, è invece girata in via Palestro, non distante dalla Stazione Termini.
Immaturi
È una sorta di “Notte prima degli esami” vent’anni dopo, quella che racconta Paolo Genovese nel suo film del 2011 “Immaturi”, opera che ha meritato sia un sequel (“Immaturi – il viaggio”) sia un’omonima serie televisiva. Lo spunto di partenza è un errore burocratico, per il quale un gruppo di quarantenni, ex compagni di scuola del Liceo Giulio Cesare di Roma (liceo realmente frequentato dal regista), si ritrova a dover nuovamente affrontare l’esame di maturità, essendo nullo quello fatto più di vent’anni prima.
Con un cast che comprende, tra gli altri, Raoul Bova, Barbora Bobuľová, Ambra Angiolini, Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Ricky Memphis – nei panni dei diversi ex compagni di classe, ciascuno con la sua vita, i suoi problemi, le sue paranoie, sviluppatesi nel corso dei successivi decenni e ai quali l’inattesa necessità di tornare sui banchi di scuola, permetterà di rinsaldare l’antica amicizia – il film è una sorta di altalena fra presente e ricordi di un ormai lontano passato da liceali, rinverdito dai racconti e dalle confessioni che via via vengono scambiate fra i protagonisti.
Girato fra Roma e Sabaudia, dove è la villa in cui il gruppo va a ritirarsi per concentrarsi meglio sullo studio, nei giorni precedenti l’esame, è soprattutto una Roma molto centrale quella che appare nel film, compresa fra Trastevere e il rione Monti. Il ristorante in cui lavora Ambra Angiolini è un vero ristorante romano, sito in Piazza Forlanini, zona in cui nella pellicola, all’interno dell’ospedale Forlanini, lavora come psichiatra Raoul Bova. La scuola frequentata dalla figlia della Bobuľová è invece nel quartiere Della Vittoria, poco distante dalla sede della Rai. A proposito di scuola, la grande curiosità è che le scene all’interno del liceo, quello in cui i protagonisti ripetono il famigerato esame, non sono girate al Giulio Cesare, come si potrebbe pensare, ma in un altro liceo romano, forse altrettanto famoso: il Mamiani di viale delle Milizie.
La terrazza
Più di trent’anni prima de “La grande bellezza” di Sorrentino, c’è un’altra grande terrazza romana, frequentata dall’agiata intellighenzia di sinistra, che viene rappresentata al cinema. Parliamo di un film del 1980, diretto da Ettore Scola, intitolato appunto “La terrazza”, interpretato, tra gli altri, da Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli.
Su una terrazza romana si incontrano periodicamente alcuni vecchi amici e colleghi. Il film presenta uno di questi incontri e racconta i fatti in cinque diversi episodi, narrati ciascuno secondo i cinque punti di vista differenti dei vari protagonisti. Il primo episodio presenta le vicende di uno scrittore cinematografico in crisi creativa (Jean-Louis Trintignant). Il secondo è quello di un giornalista, ormai vecchio stile, che cerca di riconquistare la propria moglie (Marcello Mastroianni). Il terzo è quello di un funzionario della Rai in forte crisi depressiva (Serge Reggiani). Il quarto narra di un produttore cinematografico alle prese con i capricci della consorte (Ugo Tognazzi). L’ultimo parla di un deputato del Partito Comunista Italiano (Vittorio Gassman), che ha una relazione extraconiugale con il personaggio interpretato da Stefania Sandrelli, con cui però ama pubblicamente battibeccare (e qui il legame col Jep Gambardella de “La grande bellezza”, che in quel film massacra verbalmente Stefania su una terrazza romana, per poi chiederle a quattr’occhi di fare l’amore, sembra innegabile).
“È pronto! Venite”. Questo è il tormentone che apre il film ed è anche la frase che risuona ogni qualvolta si apre un nuovo episodio. Oltre agli interni, in cui si svolgono le cene, le immagini in esterno de “La terrazza” sono tutte girate a Roma: da piazzale delle Belle Arti, al Foro, a via Monte Zebio, oltre al quasi immancabile Gazometro (sfondo molto amato dai registi italiani) e a una villa di Casal Lumbroso, in cui nella pellicola viene collocata l’abitazione di Ugo Tognazzi.
Mission: Impossible III
Terzo film della saga, iniziata nel 1996 da Brian De Palma, è stato diretto nel 2006 da J. J. Adams e interpretato da Tom Cruise, nei panni di Etham Hunt, agente della IMF, la Impossible Mission Force, una sezione segreta della CIA incaricata di svolgere le missioni ritenute più delicate e pericolose. Gli anni sono però passati dalla sua prima missione e Hunt, in questo terzo film, sembra ormai fuori dal giro operativo, con l’unico incarico di addestrare nuove reclute.
Ovviamente gli eventi cambieranno questo schema e porteranno Hunt a partecipare a una nuova azione in Europa, per liberare Lindsey Farris, una sua ex allieva catturata a Berlino da un’organizzazione terroristica. Lindsey muore durante il tentativo di liberarla e Hunt comincia la caccia agli assassini, una caccia che lo porterà prima in Vaticano e poi a Shangai, dove i terroristi hanno anche rapito e portato la sua fidanzata, in una rincorsa in tutto il mondo per fermare il male, che fa di Etham Hunt una sorta di versione statunitense della più famosa spia al servizio di Sua Maestà: il britannico James Bond.
Proprio come accadrà per James Bond nove anni dopo – nel 2015, durante la produzione di “Spectre” -anche per le riprese di “Mission: Impossible III”, il centro di Roma fu per qualche settimana paralizzato per la realizzazione di questo film, sebbene solo una parte delle scene ambientate a Roma siano state realmente girate nella Capitale. Se il grande ingorgo che si vede a un certo punto della pellicola è davvero ripreso nei pressi di San Pietro, in viale del Vaticano, già l’ingresso alla città del Papa è ambientato in una strada che è sì al centro di Roma, però distante da San Pietro, come via della Pilotta, mentre gli interni delle stanze papali sono stati tutti girati nella Reggia di Caserta.
Una vita difficile
La storia d’Italia, dalla seconda guerra mondiale agli anni sessanta, vista attraverso gli occhi e le vicende di un italiano qualunque, che si ritrova, suo malgrado, protagonista a volte, altre volte spettatore dei grandi cambiamenti che avvengono in quegli anni. È questo il filo conduttore di “Una vita difficile”, film del 1961, diretto da Dino Risi e che ha fra i suoi interpreti Alberto Sordi, il protagonista, e Lea Massari, nel ruolo di sua moglie.
Silvio Magnozzi, questo il nome del personaggio interpretato da Sordi, è un sottufficiale dell’esercito regio, che si unisce ai partigiani dopo l’otto settembre. È in questo momento che conosce Elena (Lea Massari) che gli salva la vita, colpendo con un ferro da stiro un soldato tedesco che voleva ucciderlo. I due si innamorano e dopo la guerra si trasferiscono a Roma, dove Silvio lavora, sottopagato, come giornalista in un quotidiano vicino al Partito Comunista. Silvio è orgogliosamente convinto delle proprie idee politiche di sinistra e non pare disposto ad accettare nessun compromesso, ma questo lo porterà ad affrontare una vita di stenti e di difficoltà economiche, che provocherà anche numerose liti e la separazione con Silvia, mentre tutt’intorno il nascente boom, accettato in modo più malleabile da alcuni suoi ex compagni di lotta, trasforma la società.
Girato anche sul lago di Como e in Versilia, nella lunga parte ambientata a Roma, il film ci presenta sia la città più aristocratica – memorabile la scena della cena a casa di alcuni nobili monarchici, nel giorno del referendum fra monarchia e repubblica, realizzata in via della Tribuna dei Campitelli, in centro storico – sia quella più popolare, ma comunque centrale, dei primi anni del dopoguerra, con scene girate in via Tor di Nona, in piazza Campitelli, in vicolo degli Amatriciani, nel carcere minorile di San Michele a Ripa.
Tra le curiosità della pellicola, oltre ai cameo di Alessandro Blasetti, Silvana Mangano e Vittorio Gassman, che appaiono nel ruolo di loro stessi, quando Sordi tenta loro di proporre un suo soggetto per un film, c’è la particolarità del soldato tedesco colpito da Lea Massari: il suo vero nome è Borante Domizlaff e durante la seconda guerra mondiale fu realmente un militare tedesco, che partecipò anche all’eccidio delle Fosse Ardeatine, venendo per questo processato dopo la guerra, in un giudizio che si concluse però con la sua assoluzione.
Amore tossico
Film cult del 1983, diretto da Claudio Caligari, il cui titolo è divenuto quasi un’espressione idiomatica per indicare il mondo delle tossicodipendenze. Racconta la quotidianità di un gruppo di ragazzi romani che vivono le proprie esistenze, quasi ai margini della società, tra Ostia e il quartiere di Centocelle, tra emozioni e spaccio, litigate, rapine e furti per procurarsi il denaro e le dosi, complicità e sentimenti, consumo di stupefacenti, problemi con la polizia, in una sorta di cupa routine, in cui la speranza e il desiderio di disintossicarsi, per cambiare vita, è una luce fioca e quasi impercettibile.
Riprendendo uno degli schemi principali della più classica tradizione neorealista, Caligari sceglie come interpreti della pellicola esclusivamente dei ragazzi che hanno realmente avuto problemi di tossicodipendenza, oltre a proporre un tipo di narrazione quasi documentaristica, piuttosto innovativa e spiazzante per l’epoca, che oggi verrebbe definita quasi da “docufilm”. Questa scelta ha però creato alcuni problemi logistici alla realizzazione del lavoro: a volte alcuni degli interpreti non erano reperibili il giorno delle riprese, o perché arrestati per reati derivanti dalla loro situazione, o perché colti da improvvise crisi di astinenza, o da altre problematiche legate alla loro tossicodipendenza. Come raccontò lo stesso Caligari in un’intervista, per questo, in alcune scene, la parte di Loredana fu necessario farla interpretare da un’attrice diversa.
Caratterizzato anche dall’uso di un linguaggio spontaneo e popolare, spesso volgare, ai limiti del blasfemo, che è stato poi oggetto di approfonditi studi linguistici, il film, bersagliato da alcune polemiche alla sua uscita, nel corso degli anni è diventato un oggetto di culto, spesso citato in altre opere artistiche, sia cinematografiche, sia musicali, sia letterarie. Pasoliniano nello stile, oltre che nelle esplicite citazioni (la scena finale è girata proprio davanti al monumento eretto a Pasolini all’Idroscalo, nel luogo della sua morte), è riuscito a fare di Ostia, che fa da sfondo alla maggior parte delle scene, la vera protagonista della vicenda. Per questo ancora oggi è un film molto amato, ma anche molto odiato dai lidensi, per via di quell’aura negativa e amara, “tossica” per l’appunto, che di riflesso e direi anche involontariamente, ha finito per gettare sull’immagine del quartiere.
Le ragazze di piazza di Spagna
Film di Luciano Emmer del 1952, che ha fornito anche la traccia per un’omonima serie televisiva andata in onda sulla Rai negli anni novanta. È la storia di tre belle ragazze che lavorano come sarte in un’importante casa di moda, interpretate da Lucia Bosè, Cosetta Greco e Liliana Bonfatti. Vengono tutte da famiglie piuttosto povere e sognano di sistemarsi con un matrimonio felice. Le loro vicende sono narrate da un professore, che lavora presso la biblioteca della casa-museo di John Keats e da lì le osserva dalla finestra.
Marisa (Lucia Bosè) è una ragazza alta, slanciata e davvero molto bella, perciò le viene proposto di fare la modella. Visto il parere contrario del padre e del fidanzato, che non vogliono che lei accetti quest’offerta, grazie alla complicità della madre, Marisa riesce a scappare di casa per non lasciarsi sfuggire l’opportunità. Elena (Cosetta Greco) è orfana di padre e quando la madre riceverà una proposta di matrimonio da un ferroviere, anch’egli vedovo, si troverà a discutere col fidanzato, un ragioniere ossessionato dall’onorabilità, che trova disdicevole quel matrimonio in età avanzata. Infine Lucia (Liliana Bonfatti) è alla spasmodica ricerca di un fidanzato molto alto.
Nelle loro vite entrerà poi anche un tassista, che le osserva da lontano e si innamora di una di loro, interpretato da Marcello Mastroianni. Fra le curiosità di questa pellicola, c’è da notare che la voce del tassista non è quella del suo interprete. A riguardare oggi il film, fa infatti un certo effetto vedere Mastroianni che parla con la voce di Nino Manfredi, che gli fa da doppiatore.
Nonostante il titolo, non c’è solo la Roma centrale di piazza di Spagna tra le location di questa pellicola. La casa dove abita Marisa è alla Garbatella e in quel quartiere vengono girate diverse scene del film. Lucia vive invece in una zona non distante da Ciampino, alle Capannelle, altro quartiere che appare spesso nelle immagini.
Habemus Papam
È la Roma segreta del Conclave e delle stanze Vaticane, quella raccontata in questo film di Nanni Moretti del 2011, un’opera definita da molti “profetica”, quando, due anni dopo, Joseph Ratzinger, ovvero Papa Benedetto XVI, deciderà nel 2013, con una mossa clamorosa e da secoli senza precedenti, di dimettersi dal proprio incarico, come il protagonista di questa pellicola.
La vicenda narra dell’elezione a Sommo Pontefice del cardinale Melville (Michel Piccoli), che però, prima di presentarsi alla folla radunata per acclamarlo in piazza San Pietro, ha un attacco di panico e fugge nello sconcerto generale. Per risolvere la delicatissima questione, il collegio cardinalizio chiama allora in Vaticano uno stimato psicanalista, il dottor Brezzi, interpretato dallo stesso Nanni Moretti, con il compito di comprendere le motivazioni che hanno portato il neo eletto Papa a tale destabilizzante comportamento. Dopo varie ipotesi, formulate anche con l’aiuto della moglie e collega di brezzi, interpretata da Margherita Buy, il cardinale Melville deciderà finalmente di presentarsi alla folla nella tradizionale veste bianca papale, ma poco dopo si dimetterà dall’incarico.
Nonostante la stessa Radio Vaticana abbia certificato che il film offre un’attenta e fedele ricostruzione del Conclave e degli ambienti in cui esso si svolge, c’è da dire che la pellicola non è stata girata realmente in Vaticano, ma in altri luoghi di Roma e dei dintorni della Capitale, che per architetture e atmosfere possono ricordarlo. Quelli che vengono presentati come i Giardini Vaticani, sono, ad esempio, i giardini di Villa Lante, a Bagnaia, in provincia di Viterbo. La scalinata che i cardinali percorrono per raggiungere la Cappella Sistina è la scala esterna di Palazzo Barberini, mentre i cortili in cui i cardinali si riuniscono sono quelli di Palazzo Farnese. Le mura Leonine che circondano il Vaticano sono poi quelle Aureliane, nei pressi di Porta Latina, infine le scene ambientate all’interno della Cappella Sistina, sono state ricostruite in studio.
Guardia, guardia scelta…
“Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo” – questo il titolo completo – presenta un “poker d’assi”, come lo definì la pubblicità dell’epoca, costituito da Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Gino Cervi e Peppino De Filippo, che indossò la divisa, per interpretare questo film del 1956, diretto da Mauro Bolognini. È la storia di quattro vigili urbani, la guardia, la guardia scelta, il brigadiere e il maresciallo del titolo, che a Roma si misurano con le difficoltà del proprio lavoro e con l’opinione, spesso negativa, dei romani, poco inclini alla benevolenza nei confronti della loro categoria.
A fare da scenografia per questa pellicola c’è soprattutto la Roma storica e centrale: piazza Barberini, via del Tritone, San Giovanni, via Panisperna, oltre al crocevia fra via del Corso, Piazza Venezia e via Nazionale, per decenni regno incontrastato dei pizzardoni romani.
La vicenda raccontata è piuttosto esile, ma è sostenuta dall’ottimo cast e da alcune gag rimaste memorabili, come quella in cui Alberto Sordi è costretto a sostenere un esame di francese e si arrampica sugli specchi, soprattutto quando deve tradurre la parola “zia”. Tra le curiosità del film c’è la presenza di un ancora giovane Mario Brega, in un piccolo ruolo di pugile che appare per qualche istante in alcune scene. In piccoli ruoli appaiono anche altri noti caratteristi del cinema italiano, come Memmo Carotenuto e Riccardo Garrone, oltre alla partecipazione, in un ruolo più centrale, di Nino Manfredi.
Scontro di civiltà…
“Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” è l’interminabile titolo completo, quasi alla Lina Wertmuller, per un poco noto film del 2010, diretto da Isotta Toso e tratto dall’omonimo romanzo di Amara Lakhous, uno scrittore algerino che ha vissuto per molti anni a Roma. La vicenda ha il sapore di un giallo: in un condominio di Piazza Vittorio viene ucciso un uomo soprannominato “il gladiatore”.
Tra i sospettati ci sono tutti gli abitanti di quel palazzo multietnico in cui viveva la vittima, un luogo popolato non solo da molti stranieri, ma in cui persino alcuni degli italiani presenti possono essere considerati “immigrati”: dalla portinaia napoletana, interpretata da Isa Danieli, a chi è arrivato dal nord e ha dovuto trasferirsi a Roma pur odiando la Capitale, come il personaggio i cui panni sono vestiti da Roberto Citan.
La vicenda è ovviamente lo spunto per raccontare, a metà fra dramma e ironia, la difficile convivenza fra diverse etnie, in quel quartiere Esquilino, che fa da cornice alla storia narrata nella pellicola e che da diverso tempo è divenuto il simbolo della nuova Roma cosmopolita. Profonde differenze culturali, religiose, di modi di intendere la vita, creano scontri quotidiani, dando vita a malintesi, violenze, provocazioni e diffidenze. In questo clima, le vite di personaggi molto diversi fra loro, finiscono per unirsi in un unico racconto. Il cast del film è di tutto rispetto e comprende attori come Kasia Smutniak, Daniele Liotti, Serra Yılmaz (la “musa” di molti film di Ferzan Okpetek), Milena Vukotic, Francesco Pannofino, Ninetto Davoli.
L’onorevole Angelina
La borgata di Pietralata, prima ancora di una splendida Anna Magnani, premiata quell’anno a Venezia come migliore attrice proprio per questa sua interpretazione, è la protagonista di questo film di Luigi Zampa, del 1947. È lì che vive Angelina Bianchi (interpretata dalla Magnani), insieme ad altre numerose famiglie, dentro minuscole case fatiscenti, costruite su un terreno a rischio idrogeologico. Per difendere e riscattare se stessa e chi vive nella sua stessa condizione, Angelina tirerà fuori il proprio spirito battagliero, proprio quasi di una sindacalista, di una politica, avviando lotte per migliorare le condizioni di vita del quartiere, di cui diverrà la paladina.
Improvvisamente tutti gli abitanti del quartiere si ritrovano senza casa per via di un’alluvione gli abitanti della borgata si ritrovano senza casa e Angelina, guida allora l’occupazione dei nuovi eleganti fabbricati che un certo Commendator Garrone sta facendo costruire nelle vicinanze. Dopo varie vicissitudini e avendo avuto rassicurazioni da Garrone che alla fine dei lavori saranno loro assegnati quegli appartamenti, Angelina mette fine all’occupazione. Ben presto si renderà conto di essere stata ingannata dal ricco imprenditore, che una volta scampato il pericolo, ha ben altre intenzioni. Sarà il figlio del Commendatore, interpretato da un giovane Franco Zeffirelli, a intercedere e a convincere il padre a rispettare i suoi impegni.
Del cast fa parte anche Ave Ninchi, che si trova spesso e in modo credibile, in quegli anni, a vestire i panni di popolane romane, nonostante le sue origini marchigiane. Le squallide casupole della borgata, quelle in cui negli anni quaranta erano finite a vivere molte persone allontanate da Borgo e dal centro storico di Roma, dopo gli sventramenti del ventennio, oggi non esistono più in quell’area di Pietralata, sostituite da palazzine più moderne. Esistono ancora, invece, le “nuove” case in costruzione occupate da Angelina e dai suoi: sono fra via Val Trompia e via dei Campi Flegrei, nella zona di Sacco Pastore, a pochi passi dalla via Nomentana. Ma nelle inquadrature da lontano del film, quegli stessi palazzi sono in realtà altri, in tutt’altra zona della città: a Roma sud, accanto a via Cristoforo Colombo, all’altezza di via Costantino, altra zona all’epoca in costruzione.
Er più
Er più, storia d’amore e de coltello”, titolo completo del film diretto nel 1971 da Sergio Corbucci e noto semplicemente come “Er più”, è la seconda di una serie di pellicole, preceduta nel ’68 da “Serafino” e seguita nel ’73 da “Rugantino”, che vedono Adriano Celentano vestire i panni d’improbabili personaggi romaneschi di una Roma sparita e popolare. Il suo accento romano stentato e inverosimile, negli anni varrà al molleggiato diverse parodie, fra cui quella forse più riuscita è opera dell’attore comico Max Tortora.
La storia raccontata nel film “Er più” prende liberamente spunto dal personaggio di Romeo Ottaviani, un bullo trasteverino realmente vissuto fra la fine dell’ottocento e i primi del novecento. Nel film “Er più”, il bullo si chiama Nino Patroni e non è trasteverino, ma è un pescivendolo di Borgo appena uscito di galera, fidanzato con la bellissima Rosa Turbine, detta Rosetta (Claudia Mori). Er più è in sfida perenne con un altro bullo, boss del quartiere di San Giovanni, Augustarello e anche con un altro ambiguo personaggio, segretamente innamorato di Rosetta, detto “Er cinese” e interpretato da Vittorio Caprioli. Tra rivalità, sbruffonate, gelosie e coltellate, la vicenda finirà per avere un finale tragico.
La curiosità di questo “romanissimo” film, è che, a parte gli interni e alcune immagini riprese nella zona di Trastevere a alla Villa dei Quintili, sull’Appia, quasi tutto il resto della pellicola è romano tanto quanto lo è l’Adriano Celentano che veste i panni del protagonista. La Roma primi novecento è infatti quasi interamente ricreata a Nepi, in provincia di Viterbo, dove è il grande acquedotto romano che fa da sfondo in numerose scene, il fontanone dove le popolane romane portano a lavare i panni, nonché il piazzale del duello finale.
Il successo
Nel 1963, un anno dopo “Il sorpasso” di Dino Risi, la coppia Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignan viene riproposta al cinema, per tentare di bissare il successo di quel film. E “Il successo” è per l’appunto il titolo della pellicola, la cui regia è firmata da Mauro Morassi, anche se buona parte delle riprese furono dirette proprio da Dino Risi, il cui nome però non appare accreditato nei titoli. Del cast fanno parte anche Anouk Aimée, nel ruolo di Laura, la moglie di Vittorio Gassman e Riccardo Garrone, nei panni di Giancarlo, ex fiamma di Laura.
Giulio Cerioni (Vittorio Gassman) è un intellettuale, amico di Sergio (Jean Louis Trintignan). Cerioni appare felicemente sposato con Laura (Anouk Aimée) ma è un uomo insoddisfatto, che cerca di realizzare una scalata sociale, provando a partecipare a una grossa speculazione edilizia in Sardegna. Non avendo il denaro necessario, Giulio chiede dei prestiti ad alcune vecchie conoscenze. Per farlo finirà però per perdere ogni dignità. Quando riuscirà ad ottenere il denaro che gli serviva, scoprirà di non avere più attorno né familiari né amici, quelli che avevano apprezzato e amato il vecchio intellettuale squattrinato e non il nuovo Giulio, benestante ma freddo.
Il film è quasi interamente girato a Roma e nei suoi dintorni, da Fiumicino, a Ostia, sullo stabilimento Kursaal, ad Anzio, dove è curiosamente collocato il nuraghe sardo oggetto della speculazione edilizia, che nella realtà è l’antica Torre delle Caldane. Nelle immagini non c’è tanto la Roma più centrale e turistica, quanto piuttosto i quartieri bene della Capitale di quegli anni, sia quelli di Roma sud, come l’Eur, dove Gassman ha il suo ufficio e dove avrà anche la sua villa, una volta ottenuto il successo economico, sia quelli di Roma nord, da Parioli al quartiere Africano e Trieste, fino al Polo Club di via dei Campi Sportivi, un circolo d’equitazione romano a tutt’oggi esistente.
La fontana dell’amore
“When in Rome”, titolo originale di quello che in Italia è stato conosciuto come “La fontana dell’amore”, è un film del 2010, diretto da Mark Steven Johnson e interpretato da Kristen Bell e Josh Duhamel. Riprende, aggiornandole ai tempi, le storie e lo stile delle commedie romantiche americane degli anni cinquanta, di ambientazione romana, quelle come “Vacanze romane” e soprattutto come “Tre soldi nella fontana”, di cui sembra quasi un remake.
Però stavolta Fontana di Trevi, che pure appare in diverse scene del film, non è la protagonista segreta, quella che fa scattare l’idillio d’amore fra i protagonisti. La fontana di cui si parla nel titolo è infatti una piccola fontana in stile neoclassico, totalmente di fantasia e collocata dagli scenografi in piazza della Fontanella Borghese, appositamente per le riprese. La leggenda narrata nel film vuole che, prendendo delle monete gettate in quella fontana, gli originari proprietari di quelle monete si innamoreranno di chi le ha raccolte.
È quanto accade a Beth, la protagonista, giunta a Roma da New York per partecipare al matrimonio della sorella e che, da quel momento, sarà importunata da una serie di improbabili corteggiatori, che avevano lanciato le proprie monete in quella fontana leggendaria. Fra i corteggiatori c’è anche Nick, di cui lei è innamorata, ma di cui Beth respingerà le avances, credendo che il suo interesse dipenda solo dal meccanismo magico della fontana. Ovviamente, nell’immancabile happy end, Beth scoprirà che Nick non ha mai lanciato nessuna moneta e che è davvero innamorato di lei. Il tutto, incorniciato dalle belle immagini di una Roma solare, romantica e turistica, coerente con l’atmosfera del film.
Notti magiche
Il film di Paolo Virzì, del 2018, è un mix d’invenzione e di ricordi autobiografici del regista livornese, giunto realmente a Roma dalla provincia, carico di speranze e di curiosità, come i tre protagonisti del racconto. Il tutto è mescolato ad una sorta di giallo che funge da leva narrativa. Siamo nell’estate del campionato del mondo di Italia ’90 e il 3 luglio, durante la semifinale fra Italia e Argentina, un noto produttore cinematografico, interpretato da Giancarlo Giannini, viene trovato morto nelle acque del Tevere. I principali sospettati dell’omicidio sono tre giovani aspiranti sceneggiatori, che, nel corso di quella notte in caserma, ripercorrono il loro viaggio di scoperta nel mondo del cinema italiano.
Sono gli anni in cui il grande cinema italiano del secondo dopoguerra, sebbene molti dei suoi protagonisti, da Fellini ad Antonioni, fossero ancora vivi, è in forte fase di declino. Ed è questo declino che Virzì ci narra, visto attraverso gli occhi di quei tre giovani cinefili, pieni di illusioni. Ne risulta una Roma grottesca e a tratti patetica, col suo mondo dello spettacolo che pare quasi la parodia di se stesso: “La realtà che osservai quando arrivai a vent’anni – ha dichiarato il regista in un’intervista – era molto più eccessiva di quella che racconto, tra sublime e volgarissimo, ma fu la cosa che mi fece dire: Roma voglio stare qui tutta la vita!”
Il tutto è narrato con sullo sfondo quell’incontro Italia-Argentina, perso dall’Italia ai rigori, che funge quasi da metafora della storia, riprendendo in questo, traducendola in chiave italiana, l’analoga scelta di usare i mondiali del ’90 quale simbolo, fatta alcuni anni prima dal film tedesco “Goodbye Lenin”. Molto curata la fotografia, che permette di dare un tocco davvero “magico”, parafrasando il titolo del film, alle immagini di una Roma che è sì da cartolina, ma non banale, resa con immagini dei suoi panorami, spesso colti al tramonto o all’alba, ricchi perciò di luci suggestive ed evocative, che aggiungono un tocco di poesia alla narrazione.
Romanzo di un giovane povero
Diretto nel 1995 da Ettore Scola, è il racconto dello strano rapporto di amicizia e complicità fra due uomini: Vincenzo Persico, interpretato da Rolando Ravello, un giovane disoccupato laureato in lettere, frustrato e insoddisfatto, a causa del carattere apprensivo e opprimente della madre con cui lui continua a vivere, e l’anziano signor Bartoloni, interpretato da Alberto Sordi, a sua volta oppresso, ma dalla moglie, che un tempo era una bellissima soubrette dal nome d’arte di Karline Ananas, ma è ora invecchiata e, divenuta obesa e alcolizzata, nutre una patologica gelosia.
I due amici vivono nello stesso grande condominio romano, cominciano a frequentarsi sempre più spesso, con sempre maggiore intimità e, un po’ sul serio e un po’ per gioco, cominciano anche a chiedersi se non sia il caso di collaborare per uccidere le donne che causano le reciproche infelicità. Perciò, quando Karline verrà davvero trovata morta, poiché Bartoloni ha un alibi piuttosto solido, Persico verrà arrestato con l’accusa di omicidio, Nonostante molti indizi lascerebbero supporre la sua innocenza, il giovane non fa nulla per essere rilasciato, preferendo accettare la vita in carcere piuttosto che tornare a quella con sua madre.
Con la partecipazione di Isabella Ferrari, nel ruolo della fidanzata di Persico, con Mario Carotenuto, nella sua ultima apparizione cinematografica prima della scomparsa, con i cameo di Nathalie Caldonazzo, nel ruolo della giovane Karline, e di Barbara D’Urso, il film è quasi interamente girato all’interno del Palazzo Federici, l’enorme complesso romano di viale XXI Aprile, in cui Scola ha ambientato anche “Una giornata particolare”.
Favolacce
“Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”. In questa frase del film “Favolacce” è già contenuto il suo spirito: quello di un racconto cupo e ambivalente, dall’apparenza piana e tranquilla ma dallo sviluppo tragico e inquietante, come tragico e inquietante, sotto un apparente velo di normalità, appare il destino delle famiglie della piccola borghesia romana protagoniste della storia.
Realizzato nel 2020 dai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, con Elio Germano tra gli attori protagonisti, grazie al meccanismo narrativo della scoperta di un diario segreto, letto da una voce fuori campo, il film incrocia le storie di alcuni nuclei familiari, in un’apparente quotidianità banale e serena, dietro cui si nasconde l’insoddisfazione, il risentimento, con relazioni spesso anaffettive, con rabbie e tensioni che viaggiano sottotraccia, pronte ad esplodere in modo drammatico. In questo clima, le nuove generazioni di adolescenti e di bambini, simbolo del futuro, che provano ad adottare diverse tattiche per proteggersi dall’angoscia di quelle dinamiche relazionali, finiscono però per esserne agganciati e per fungere da detonatore all’esplosione del dramma.
A fare da cornice di quelle vicende è una Roma periferica, fotogenica nelle sue villette a schiera, se non anche nei suoi palazzoni, eppure profondamente priva di speranza. Il quartiere in cui vivono i protagonisti è quella Spinaceto, già citata al cinema da Nanni Moretti, in una famosa sequenza di “Caro Diario”, in cui Moretti smentiva la leggenda negativa, quella che voleva il nome di Spinaceto usato spesso, da molti romani, come sinonimo di quartiere brutto e deprimente. I D’Innocenzo, ribaltando Moretti, ne fanno nuovamente il quartiere asfissiante della leggenda, il palcoscenico di una storia nera, un luogo in cui la speranza, i rari sprazzi di bellezza, sono solo patina di superficie, che nasconde un buio profondo.
Girolimoni, il mostro di Roma
Nonostante sia passato ormai quasi un secolo dai fatti, ancora oggi a Roma il nome Girolimoni è sinonimo di pedofilo. Eppure Gino Girolimoni è la vittima di un clamoroso errore giudiziario, un errore presto riconosciuto da chi era incaricato delle indagini, a partire dal commissario Umberto Dosi, uno dei pochi a voler anche partecipare ai funerali dell’ex sospettato, nonostante il nome Girolimoni fosse a quel punto divenuto un marchio d’infamia. Più che di errore giudiziario, sarebbe però corretto dire che Girolimoni fu una delle prime vittime di un’aggressione mediatica, coi giornali dell’epoca che diedero ampio risalto al suo arresto, ma non scrissero una riga sulla sua successiva scarcerazione, quando venne dimostrata la sua estraneità ai fatti.
Sulla vicenda umana e giudiziaria di Girolimoni, Damiano Damiani girò un film nel 1972, chiamando Nino Manfredi a impersonare il protagonista. Fotografo e mediatore, Girolimoni venne arrestato con l’accusa di essere l’autore di cinque omicidi dii minorenni, avvenuti a Roma tra il 1924 e il 1927. Ebbe la sfortuna di capitare in un momento politico delicato, in cui il neonato regime fascista aveva bisogno di darsi l’immagine di rigido e infallibile garante dell’ordine. Perciò la stampa fu invitata a dare ampio risalto a quell’arresto e fu altrettanto caldamente invitata a tacere sulla scarcerazione, che avrebbe evidenziato come la giustizia mussoliniana non fosse in realtà sempre infallibile. Lo stesso commissario Dosi, convinto dell’innocenza di Girolimoni e intenzionato a smascherare il vero colpevole, fece le spese di quel clima, finendo internato in un manicomio. Solo dopo la caduta del fascismo venne reintegrato nella polizia, facendo una rapida carriera che lo portò anche a capo dell’Interpol.
Nel film di Damiani si ripercorre l’intero iter giudiziario e anche il velleitario tentativo di Girolimoni, prima di ottenere dai giornali una rettifica dopo la sua scarcerazione, poi di trovare il vero colpevole, infine di rifarsi una vita, cambiando anche il proprio nome, in una Roma che però lo considerò sempre il mostro, inchiodandolo fino alla morte, avvenuta in miseria nel 1961, a quell’ingiusto marchio d’infamia. Una Roma che nel film è raccontata attraverso le riprese dei veri luoghi che videro lo svolgimento dei fatti, da piazza Navona, a Palazzo Venezia; attraverso le immagini di alcuni luoghi romani capaci di ricreare le atmosfere della Capitale anni venti, come il Palazzo delle Esposizioni o l’Istituto Marymount di via Nomentana; infine attraverso gli scorci del centro storico di Albano Laziale, che nel film fungono spesso da vicoli della Roma di cent’anni or sono.
La banda degli onesti
Tre napoletani a Roma: Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia, improvvisati falsari un po’ cialtroni, che si ritrovano furtivamente in una tipografia capitolina per stampare banconote. Diretto da Camillo Mastrocinque nel 1956, è il film che rinsalda il binomio Totò e Peppino, destinato a riscuotere ancora numerosi successi cinematografici.
Tutto ha inizio quando il portiere condominiale Antonio Bonocore (Totò), raccoglie la confessione di un anziano in punto di morte, ex impiegato del Poligrafico dello Stato, che confessa di avere sottratto alla zecca i cliché autentici e la carta filogranata per stampare banconote da diecimila lire. Bonocore, entrato in possesso di quel materiale, sapendo di essere sul punto di venire licenziato dal suo lavoro, decide allora di rivolgersi ad altri due condomini, che ritiene più esperti nel settore: il tipografo Lo Turco (Peppino) e Cardone, un pittore di vetrine (Giacomo Furia). Con loro mette in piedi una banda per stampare e cercare di spacciare banconote false, banda che risulterà però talmente maldestra da finire ben presto smascherata.
Il film venne girato interamente a Roma, per la maggior parte in esterni. Il condominio in cui Totò è portiere, è un grande stabile di viale delle Milizie, in zona Prati-Trionfale. La tipografia di Lo Turco è invece in piazza degli Zingari, al Rione Monti. Altre scene sono girate nell’allora nuovissima stazione Cavour della metropolitana; in un bar di piazza della Suburra, sempre a Monti; al Quartiere Trieste; al Ponte dell’Industria; alla tabaccheria di via di Monte Savello, in centro, dove la banda prova a spacciare la prima banconota; in viale XXI Aprile, dov’è il comando della Guardia di Finanza in cui Totò va a costituirsi; a Villa Gordiani; lungo l’Appia Antica.
The Eternal City
Esattamente sessant’anni prima di Giulio Andreotti – che interpretò se stesso nel film “Il Tassinaro” di Alberto Sordi – ci fu un altro primo ministro italiano ad apparire, nei propri panni, tra i protagonisti di una pellicola cinematografica. Si tratta del cavaliere Benito Mussolini, all’epoca abbastanza fresco di nomina, a nemmeno un anno dalla marcia su Roma che lo aveva portato al potere. Il film è la versione del 1923 di “The Eternal City”, remake e riadattamento di una precedente pellicola del 1915, a sua volta tratta da un’omonima opera teatrale di Hall Caine.
Il film del ’23 venne prodotto da Samuel Goldwyn, nome d’arte di Schmuel Gelbfisz, un ebreo polacco che, insieme alla sua troupe americana, diretta dal regista George Fitzmaurice e di cui faceva parte la bella attrice Barbara La Marr (una sorta di Marylin Monroe degli anni venti), venne accolto a braccia aperte dal futuro Duce: “Mussolini era così entusiasta del progetto che teneva il suo ufficio aperto per noi a qualsiasi ora”, disse in seguito Il cineoperatore Arthur Miller, ricordando come Mussolini offrì agli americani tutto ciò di cui avevano bisogno, dalle autorizzazioni per girare in esterni, anche in monumenti storici come il Colosseo, all’aiuto nel fornire attrezzature e comparse.
Le vicende narrate sono quelle di David Rossi e di una donna dal nome simbolicamente evocativo di Roma. I due si giurano amore, ma la vita li separa. David va a combattere nella Grande Guerra, Roma, invece, diventa una scultrice, grazie anche all’aiuto di un potente barone. Alla fine del conflitto, David si unisce ai fascisti e diventa amico di Mussolini. Tornato nella Capitale, scopre l’ambiguo rapporto tra Roma e il barone e, geloso, uccide quest’ultimo. Roma allora si accusa del delitto, per salvare David, dimostrando così di averlo sempre amato. David a quel punto decide di confessare la propria colpevolezza a Mussolini, che gli concederà la grazia, permettendogli così di coronare il suo sogno d’amore con Roma.
Pare che Mussolini abbia contribuito direttamente alla stesura finale della sceneggiatura, inserendo di suo pugno la propria parte, al posto di quella che nella storia originaria era assegnata al Papa, che nel film del 1915 risultava essere anche il padre segreto di David. L’ipotesi dell’intervento diretto mussoliniano è piuttosto verosimile, considerando sia la buona penna da giornalista di Mussolini, sia l’afflato filofascista che si avverte in tutta la pellicola, con le camicie nere paragonate a quelle rosse garibaldine, nel ruolo di salvatori della Patria.
Campo de’ Fiori
Diretto nel 1943 da Mario Bonnard, con la coppia Aldo Fabrizi e Anna Magnani, che nello stesso anno saranno i protagonisti anche del film “L’ultima carrozzella”, un’altra opera che, come “Campo de’ Fiori”, farà un uso, per l’epoca quasi rivoluzionario, di scene girate, anziché in studio, nelle vere piazze e strade di Roma, oltre che di una recitazione spontanea, con forte accento dialettale e di personaggi che appartengono alle classi popolari. Tutti elementi che fanno già presagire la nascita dell’imminente cinema neorealista, che farà la sua comparsa poco più di un anno dopo con “Roma città aperta”, altra pellicola che avrà la stessa coppia di interpreti protagonisti.
La storia narrata è quella di Peppino (Aldo Fabrizi), un pescivendolo di Campo de’ Fiori, che si dà arie da rubacuori, amico di Elide (Anna Magnani), fruttivendola vicina di banco. Peppino è però innamorato di una bella donna della buona borghesia romana, che dopo averlo illuso, gli rivelerà di essere sposata, deludendolo, ma facendogli finalmente capire che il suo mondo è quello autentico e verace, incarnato proprio da Elide.
Con la partecipazione di Peppino De Filippo nelle vesti di un barbiere, anche in questo film, come nelle altre commedie cinematografiche girate quell’anno, la guerra pare essere del tutto assente, nonostante Roma e l’Italia stiano per entrare nel loro periodo più drammatico, con l’imminente sbarco in Sicilia degli alleati e la caduta del fascismo, a seguito del bombardamento di San Lorenzo, che è solo di poche settimane successivo alla fine delle riprese.
La vera protagonista del film, come si comprende già dal titolo, è dunque piazza di Campo de’ Fiori, non ancora diventata luogo della movida notturna capitolina, ma che, col suo vivace mercato, le grida dei venditori, le litigate coi clienti, le piccole furberie per raggranellare qualche lira in più, l’animo bonario mascherato da apparente menefreghismo, rappresenta appieno lo spirito popolare romanesco.
Adua e le compagne
Gli effetti della legge Merlin su quattro prostitute romane, sfrattate dalle case di tolleranza e decise a riprendere il lavoro clandestinamente, sotto la copertura di un’apparentemente innocua trattoria, che vogliono prendere in gestione, ristrutturando un casale nella periferia romana. Diretto nel 1960 da Antonio Pietrangeli, con un cast internazionale che comprende Simone Signoret (Adua), Sandra Milo, Emanuelle Riva, Gina Rovere, Claudio Gora e Marcello Mastroianni, il film ebbe alla sua uscita un buon successo di pubblico, nonostante il tema per l’epoca scabroso.
Il progetto delle quattro donne incontra numerosi ostacoli. A causa del loro passato sono state infatti schedate come prostitute e il comune nega loro la licenza per l’apertura della trattoria. Adua decide allora di rivolgersi a un certo Ercoli (Claudio Gora), che fiuta l’affare e intercede per loro. L’accordo è che, nei primi mesi, le donne dovranno mantenere un comportamento irreprensibile, per non dare nell’occhio, per poi riprendere la vecchia attività e corrispondere a Ercoli, che avrebbe continuato a coprirle, la somma (per l’epoca stratosferica) di un milione di lire al mese. Le donne però, cominciano a poco a poco ad apprezzare la possibilità di uscire dal giro della prostituzione e di dedicarsi definitivamente alla vita “onesta” della trattoria, scatenando così le ire di Ercoli, che causeranno nuovi cambiamenti e nuovi problemi.
Dalla centralissima Salita del Grillo, dove è ubicata nel film l’originaria casa di tolleranza delle donne, la Roma descritta da Pietrangeli è anche quella un po’ più periferica. Il casale da trasformare in trattoria è sull’Appia Pignatelli, non distante dal Mausoleo di Cecilia Metella. La casa in cui abita Mastroianni, che farà amicizia con Adua, è in via Marco Polo, in zona Ostiense. Altre scene sono girate al Pinciano, a via Meropia, nei pressi delle Fosse Ardeatine, all’ex Cinodromo di Ponte Marconi, oltre che nelle più centrali piazza del Popolo, via Veneto, piazza di Trevi, via del Porto di Ripa Grande.
Spectre
Ventiquattresimo film dell’intramontabile saga di 007, realizzato nel 2015 da Sam Mendes, con Daniel Craig nel ruolo di James Bond, la spia inventata dalla penna di Ian Fleming e portata al primo successo cinematografico da Sean Connery, “Spectre” catapulta l’agente segreto più famoso del mondo nella Città Eterna. L’arrivo a Roma è giustificato dalla volontà di presenziare ai funerali di Marco Sciarra, un capo criminale che lui stesso aveva inseguito a Città del Messico per ucciderlo e con la vedova del quale, interpretata da Monica Bellucci, egli avrà un inevitabile flirt.
Dopo complesse peripezie, che porteranno Bond in giro per il mondo, da Londra, a Città del Capo, a Tangeri, al deserto africano, a un rifugio tra le nevi delle Alpi, il bene come sempre riuscirà a trionfare e il male verrà sconfitto – anche se non del tutto, per poter lasciare spazio agli ulteriori film della saga – con l’ovvio happy end, che porterà l’agente segreto a festeggiare con l’immancabile “Bond girl” d’ordinanza, che in questo film ha il volto della francese Léa Seydoux.
All’epoca della realizzazione del film, diverse arre di Roma rimasero interdette al transito per giorni, creando una sorta di effetto attesa tra i romani, per l’uscita sugli schermi di una pellicola che aveva sconvolto il traffico della città per intere settimane. Sono infatti numerosi i luoghi della Capitale che appaiono in “Spectre”, non solo all’interno del centro storico della città. C’è il Museo della Civiltà Romana, all’Eur, che nel film è presentato come cimitero. C’è la Villa di Fiorano, sull’Appia Antica, elegante dimora della vedova Sciarra. Ci sono poi i forsennati inseguimenti, che Bond effettua a bordo della sua Aston Martin, attraversando Trastevere, il Gianicolo, via Nomentana, il Lungotevere, piazza Navona, Ponte Milvio, la Fontana di Trevi, via della Conciliazione, in una sorta di adrenalinico giro turistico, ad oltre trecento chilometri orari.
Un eroe dei nostri tempi
Il curioso eroe di questa pellicola del 1955, diretta da Mario Monicelli, è Alberto Menichetti, ovvero Alberto Sordi, un uomo timido e complessato, che vive ancora in casa con le vecchie zie ed è ossessionato dal timore di mettersi nei pasticci, finendoci, paradossalmente, proprio a causa delle sue paure. Del cast fanno parte anche Franca Valeri, nella parte della vedova De Ritis, segretamente interessata ad Alberto, Giovanna Ralli, una bella parrucchiera a cui lui non ha il coraggio di fare la corte, Mario Carotenuto, Leopoldo Trieste.
Alberto, dunque, finirà per cacciarsi nei guai, proprio per il modo maldestro in cui cerca di evitarli. Ad esempio, quando vuole disfarsi di alcune polveri esplosive, tenute in cantina da uno zio anarchico e da lui ritenute compromettenti e pericolose, proprio nel momento in cui tenta di sbarazzarsene, viene fermato dalla polizia, che da quel momento lo terrà sott’occhio. Finirà così per essere accusato di un attentato al quale è del tutto estraneo, rivelando durante l’interrogatorio un animo meschino, che lo porta ad accusare ingiustamente i suoi conoscenti, pur di scagionarsi, inclusa la vedova De Ritis, che aveva testimoniato il falso per cercare di aiutarlo.
Tutta la vicenda si svolge in una Roma molto cinematografica, dove il termine non è da intendere nel senso di falsa, inautentica, ma sta a indicare la scarsa coerenza geografica nei luoghi frequentati dai protagonisti, spesso molto distanti l’uno dall’altro. È un elemento indifferente ai fini della narrazione, ma spiazzante agli occhi di un romano che dovesse riconoscerli. Perché se l’abitazione di Sordi è collocata in via Montevideo, in zona Parioli e il suo luogo di lavoro nei pressi del giardino zoologico, quindi relativamente vicino alla casa, è curioso che il bar dove il protagonista si ritrova spesso con i suoi colleghi, anche nella scena iniziale, dopo avere assistito con loro a un incidente in piazza Lituania, cioè sempre ai Parioli, sia il chiosco ancora oggi esistente in piazzale Appio, adiacente a via Sannio e all’attuale palazzo della Coin, cioè dall’altra parte della città. Come dall’altra parte della città è piazza San Cosimato, a Trastevere, dove lui si reca a ricercare un pacco.
Tre straniere a Roma
Nonostante il titolo, di straniere vere a proprie nel film non ce ne sono affatto. In questa commedia del 1958, diretta da Claudio Gora, le presunte straniere sono infatti tre giovani e bellissime ragazze milanesi, giunte in treno nella Capitale per trascorrere alcuni giorni di svago, durante le festività di Pasqua. Ottimo pretesto per dare vita a vicende romantiche, fatte di giochi degli equivoci, in un tour fra le bellezze di Roma, sperando così di ripetere il successo avuto pochi anni prima da film come “Vacanze romane” e “Tre soldi nella fontana”.
La vicenda è esile e ben collaudata: le tre belle meneghine si spacceranno per ciò che non sono, ovvero le tre straniere annunciate dal titolo, al fine di venire meglio corteggiate e scarrozzate gratuitamente per la città da tre intraprendenti pappagalli locali. Il gioco riuscirà perfettamente per un po’, salvo poi venire scoperto, scatenando la rabbia e la bonaria vendetta dei tre corteggiatori capitolini, prima di arrivare all’immancabile lieto fine.
A dirla tutta, però, il titolo del film non racconta una bugia: nella realtà le tre donne sono effettivamente tre straniere. Se non i loro personaggi, lo sono infatti le loro tre interpreti: la francese Yvonne Monlaur, Françoise Danell e Claudia Cardinale, che come molti sanno è nata a Tunisi.
Ovviamente il film presenta la classica Roma da cartolina, ripresa nelle sue bellezze del centro storico, dal Vaticano al Lungotevere, dall’Aventino a Trastevere, al Colosseo, con una puntata anche all’osservatorio astronomico di Monte Mario.
Il tassinaro
Film del 1983 di e con Alberto Sordi, narra le vicende di una città e dei suoi abitanti, famosi e meno famosi, visti attraverso gli occhi di “Zara 87”, alias il tassinaro Pietro Marchetti, il protagonista, che si trova a trasportare sconosciuti, finendo per entrare in contatto con le loro vicende umane e le loro storie. Lo schema di racconto scelto da Sordi non è nuovissimo ed è, in fondo, una sorta di aggiornamento agli anni ottanta di vecchi escamotages narrativi, se pensiamo ad esempio a pellicole come “L’ultima carrozzella”, film del 1943, un’opera in cui Aldo Fabrizi interpretava anche lui un vetturino, in quel caso di una carrozza a cavalli, in giro per Roma per trasportare avventori sconosciuti, professionisti e soubrettes, finendo coinvolto nelle loro vicende.
Oltre ai normali clienti, Pietro Marchetti si troverà a caricare sulla sua Fiat Ritmo anche diversi vip, in una Roma che si presenta come capitale del cinema e della politica nazionale. E’ il caso di Giulio Andreotti, che interpreta se stesso in una scena del film e sale su quel taxi, così come ci sale Silvana Pampanini, matura diva ormai fuori dalle scene, che il Marchetti-Sordi scambierà per Sylvia Koscina, facendola molto adirare. C’è poi Federico Fellini, che il tassista accompagna a Cinecittà, dove Fellini ha un appuntamento proprio con Alberto Sordi, in un incontro a cui Marchetti assisterà, con uno sdoppiamento del regista-attore, che a quel punto appare nel doppio ruolo di se stesso e del suo “sosia tassinaro”.
La Roma che dal film arriva allo spettatore è dunque filtrata, sia attraverso le vicende di quei suoi abitanti che fruiscono di “Zara 87”, sia attraverso i vetri della Ritmo del tassinaro, una macchina che apparentemente sfreccia nelle strade della Capitale, in scene che, nella realtà, furono tutte girate in studio col sistema della retroproiezione. Anche la casa in cui abita Marchetti, apparentemente collocata al centro di Roma, non è davvero al centro di Roma, bensì all’interno del borgo storico di Ostia Antica. Dunque, solo pochissime immagini furono davvero girate nella Città Eterna, come ad esempio quella in cui viene consegnato un neonato, realizzata a Subaugusta (quindi a due passi dagli studi di Cinecittà), o quella dell’hotel dell’emiro, girata al Cavalieri Hilton.
Una giornata particolare
Il toccante film del 1977 diretto da Ettore Scola, attraverso le vicende private di Antonietta, una casalinga interpretata da Sophia Loren e di Gabriele, ex radiocronista dell’Eiar in aspettativa, che nel film ha il volto di Marcello Matroianni, offre uno spaccato storico sulla Roma di fine anni trenta, quella del massimo consenso al regime fascista, ma anche quella che stava per entrare in una guerra devastante. La giornata particolare raccontata nella storia è il 6 maggio del 1938, giorno della visita di Adolf Hitler a Roma. Tutta la città è scesa nelle strade per salutare il Fuhrer, tranne poche persone. Fra queste poche c’è Antonietta, che deve sbrigare alcune faccende domestiche. Quando un uccellino scappa dalla finestra, per tentare di riprenderlo, Antonietta si accorge della presenza di Gabriele, rimasto anch’egli nel palazzo, e gli chiede aiuto.
Nasce così, quasi per caso, una forte intimità fra i due, che finiranno per raccontarsi l’un l’altra le proprie miserie e le proprie amarezze. Gabriele, che era sul punto di suicidarsi, per un attimo pare sollevato dalle sue angosce, dovute anche a una condanna al confino che pesa sulla sua testa, a causa della sua omosessualità, all’epoca considerata reato e che egli confessa anche ad Antonietta. Nonostante questo, il calore e la complicità che nasce fra l’uomo e la donna saranno talmente intensi da portarli comunque a fare l’amore insieme. Alla fine di quella strana giornata, però, ciascuno ritornerà alla propria vita precedente e al proprio destino.
Il film è interamente girato all’interno dei palazzi Federici, un enorme complesso di case popolari, costruito nel 1931 in viale XXI Aprile, poco distante da Piazza Bologna. Si tratta di un’enorme struttura in stile razionalista, ideata dall’architetto Mario De Renzi, che comprende 29 scale e circa 450 appartamenti: una vera città nella città. Fra le curiosità del film, c’è anche da sottolineare la presenza, nel ruolo di una delle figlie di Antonietta, di Alessandra Mussolini (di cui, nella vita reale, Sophia Loren è la zia), la nipote del Duce, che finisce così, sorprendentemente, per partecipare a un’opera in cui, al di là dell’intimismo della vicenda narrata, risulta piuttosto evidente la finalità critica nei confronti del regime fascista.
Parigi o cara
Qualcuno si starà chiedendo, dopo aver letto il titolo, cosa c’entri un film così in un elenco di pellicole dedicate a Roma. E’ presto detto: la Parigi idealizzata dalla protagonista e in cui lei si recherà a un certo punto della storia, è il sogno, la fantasia, l’illusione, ma dietro a quell’illusione c’è la realtà di Roma, di cui lei è figlia, in cui lei vive e lavora, con un mestiere antico, il più antico fra i mestieri del mondo, che le permette di elevarsi dalle sue radici popolari e trasteverine, verso un benessere e un’eleganza borghese, proprio quell’eleganza che Parigi, per l’appunto, incarna nell’immaginario dell’epoca.
Film del 1962, diretto da Vittorio Caprioli e interpretato da Franca Valeri, che ne ha scritto anche la sceneggiatura; unico nella quale l’attrice milanese risulti essere protagonista e non comprimaria. Attrice milanese, sì, eppure capace, nonostante l’antica differenza di spirito fra lombardi e capitolini, di cogliere l’animo della piccola borghesia di Roma, creando personaggi comici ma credibilissimi, come quella Sora Cecioni che somiglia molto alla protagonista di questo film. Personaggi che anche chi è nato a Roma apprezza, a differenza di quanto accadrà, anni dopo, a un altro meneghino che tenterà di fare il romano in diverse pellicole, risultando però piuttosto grottesco e impacciato nel suo finto romanesco: Adriano Celentano.
Delia, il personaggio interpretato dalla Valeri, è quella che oggi chiameremmo una escort, che si muove mirabilmente in una sorta di serena doppiezza, incarnata già dall’aspetto gradevole ma algido della Valeri, quasi da zitella, accostato al mestiere di prostituta. Delia è una prostituta snob, magister elegantiae, con modi così perbene da non denunciare affatto la sua professione. Delia è anche un unicum nella filmografia di quegli anni, in cui le prostitute sono quasi sempre presentate come donne psicologicamente sofferenti e bisognose di redenzione. Delia no, vive con tranquillità il suo status e anche il suo rapporto con l’illegalità, non solo in quanto passeggiatrice, ma anche come fondatrice di una banda di strozzini, al Testaccio. Delia ha anche un fratello che vive a Parigi (Fiorenzo Fiorentini) che lei raggiungerà per potersi trasferire a vivere nella città sognata. A Parigi però non riuscirà a integrarsi, decidendo alla fine di ritornare a Roma.
Se la Roma che appare e viene citata nel film è principalmente quella centrale, da Testaccio a piazza Vittorio, dalla stazione Termini a piazza San Silvestro, al Colosseo, all’Isola Tiberina, la curiosità è che l’abitazione in cui viene collocata la protagonista risulta essere in tutt’altra zona della città: quella di Conca d’Oro, quartiere all’epoca di recentissima costruzione. Anche altre scene sono girate in luoghi e zone di Roma più periferiche, ma che durante gli anni sessanta venivano frequentati soprattutto dalla Roma bene, come il bar sul laghetto dell’Eur, o il famoso ristorante Lo Zodiaco, sulla collina di Monte Mario.
Brutti, sporchi e cattivi
“Oh aho, ma ‘ndo vai? Oh! Ma ‘ndo vai, oh!? Ma ‘ndo vai, oh ahooo!? Vojo annà ‘ndo me pare, pensa pe’ te!” Sembra un canto tribale quello scritto da Armando Trovajoli, per fare da colonna sonora di “Brutti, sporchi e cattivi”, il film diretto da Ettore Scola nel 1976. Ed è in effetti una società tribale e violenta, senza morale, senza nessuno spiraglio di luce e senza bellezza, quella descritta nella pellicola. La periferia romana, il sottoproletariato che popola le baracche ai margini della città, non ha più nemmeno un briciolo di quella vena di poesia, di orgoglio e, in fondo, di speranza di riscatto, che appariva nei racconti e nelle opere cinematografiche realizzate da Pasolini del decennio precedente.
In questo film, quel sottoproletariato è ormai diventato la ridicola caricatura di se stesso: grottesco e goffo, rancoroso, disumano e violento, brutto, sporco e cattivo, per l’appunto. In una baraccopoli alle porte di Roma, la pellicola descrive la vita quotidiana di una sorta di famiglia promiscua ed enormemente allargata, fino a contare circa trenta persone, che campa di ruberie ed espedienti. A capo di quella tribù c’è Giacinto Mazzatella, interpretato da Nino Manfredi, un vecchio guercio e dispotico, ossessionato dal milione di lire che custodisce gelosamente, soldi ottenuti come risarcimento per l’occhio perso in un incidente di lavoro in un cantiere, tanto quanto tutti gli altri sono ossessionati dal poterglielo rubare.
A richiamare anche visivamente, oltre che idealmente, il declino e il degrado di quell’umanità che quindici anni prima era stata la protagonista di una sorta di epica sottoproletaria, narrata nelle opere pasoliniane, Scola chiama a interpretare delle parti nel film proprio alcuni fra gli attori resi celebri da Pasolini: da Ettore Garofolo, già figlio di Mamma Roma nell’omonima pellicola del 1962, a Franco Merli, protagonista de “Il fiore delle mille e una notte” e di “Salò”.
Il film è girato quasi interamente a Roma, nell’attuale parco di Monte Ciocci, tra la Balduina e l’Aurelia, una zona che all’epoca delle riprese era veramente occupata da baracche piene di operai, impiegati nei cantieri di Baldo degli Ubaldi e di Boccea, aree allora in costruzione. La scena in cui la nonna va a ritirare la pensione, è invece girata al Palazzo delle Poste di Adalberto Libera, in via Marmorata, ambientazione certo poco credibile per i romani un po’ pignoli, essendo via Marmorata in un quartiere di Roma decisamente distante dalla baraccopoli.
Angeli e demoni
Dopo il successo di tre anni prima con “Il codice Da Vinci”, il regista Ron Howard, nel 2009, torna a realizzare un film tratto da un romanzo di Dan Brown, chiamando nuovamente Tom Hanks a interpretare il ruolo del professor Robert Langdom, protagonista della saga semi-esoterica dei romanzi di Brown. Stavolta il professore deve vedersela con la setta degli Illuminati, che seminano terrore a Roma durante i giorni del conclave.
Com’è nello stile dei romanzi di Brown, in una sorta di caccia al tesoro per solutori più che abili, con importanti indizi disseminati tra i principali monumenti della città, il professor Langdom si trova a fare una sorta di inquietante giro turistico della Capitale, nel tentativo di sbrogliare l’intricata matassa d’intrighi e complotti segreti, che potrebbe portare persino a far esplodere l’intera città. Una città che viene ripresa nella sua elegante bellezza e nei suoi punti artisticamente e storicamente più noti e importanti, da piazza Navona, a San Pietro, da Lungotevere, a Castel Sant’Angelo.
Non tutte le scene sono però state girate dal vivo, nei reali luoghi descritti nel film. Tra la curiosità della pellicola, c’è infatti il diniego che il Vaticano e la Diocesi di Roma opposero alla richiesta della troupe di effettuare delle riprese all’interno delle chiese di Santa Maria del Popolo e Santa Maria della Vittoria, oltre che nella Biblioteca Vaticana e a Piazza San Pietro. Non si trattò di ragioni tecniche, bensì di ragioni ideologiche, filosofiche e religiose, vista la pessima figura, al limite del demoniaco, che la chiesa cattolica fa quasi sempre nei romanzi di Dan Brown. “Forniamo spesso le nostre chiese a produzioni che hanno finalità o compatibilità con il sentimento religioso, ma non quando il film agisce in una linea di fantasia che va a ledere il comune sentimento religioso, come è successo con Il codice Da Vinci. Nel caso di Angeli e demoni non c’erano neanche i presupposti per chiederci permessi” disse all’epoca don Marco Fabi, responsabile dell’Ufficio Stampa della Diocesi romana, a chiarimento dei motivi di quel no. La Biblioteca Vaticana fu perciò sostituita con riprese all’interno della Biblioteca Palatina della Reggia di Caserta, mentre piazza San Pietro venne interamente ricostruita a Los Angeles, grazie all’opera di alcuni ottimi scenografi.
Bellissima
Il cinema raccontato dal cinema. Questo film del 1951, diretto da Luchino Visconti, è uno squarcio sulle (poche) luci e le (tante) ombre di quella Cinecittà che ha reso grande Roma in quegli anni. Con un’intensa Anna Magnani nel ruolo di Maddalena Cecconi e un Walter Chiari, alias Alberto Annovazzi, all’epoca sex symbol del cinema non solo nazionale (chiedere ad Ava Gardner e a Lucia Bosè, due fra le sue tante affascinanti partner, per conferma), in quello di una sorta di diavolo tentatore, descrive la realtà dell’Italia del secondo dopoguerra, fatta di sogni e di illusioni, che proprio il mondo del cinema incarna ed esalta, nascondendo prima e palesando poi, l’altra faccia della medaglia, fatta di cinismo e di meschinità.
Tutto nasce da una trasmissione radiofonica, in cui si annuncia che il regista Alessandro Blasetti (che appare nella pellicola nel ruolo di se stesso) sta cercando una bambina per un film. Maddalena Cecconi, donna dall’esistenza misera, vissuta fra i palazzi del Pigneto, corre a portare la propria bambina a quei provini, sognando così di poter permettere alla figlia una carriera artistica e una conseguente scalata sociale, che a lei era mancata. Ad alimentare queste illusioni contribuirà anche un aitante assistente di Blasetti, Alberto Annovazzi, che millanterà di poter garantire quella parte alla bambina, in cambio di 50.000 lire. Non contento, Annovazzi inizierà anche una tresca con la donna, nonostante lei sia sposata. Il gossip dell’epoca parlò di una tresca continuata anche fuori dal set, che ha coinvolto non solo i personaggi cinematografici, ma anche i due interpreti: Chiari e la Magnani.
Non è solo la Roma di Cinecittà quella che appare nell’opera di Visconti. Roma è presente con le sue atmosfere quasi in ogni scena. Come detto, la casa della protagonista è nella zona popolare del Pigneto, all’epoca ancora non toccata dall’attuale “movida”, per la precisione in via Alberto da Giussano 4, come viene detto esplicitamente nella pellicola. Effettivamente, guardando le inquadrature dei palazzi e delle finestre della casa, si realizza che è proprio questo il reale indirizzo in cui vennero girate le scene ambientate a casa Cecconi. Non distante, in quella che un tempo era l’arena dell’ex cinema Preneste, sono avvenute invece le riprese della scena della proiezione all’aperto di un film. La lunga parte ambientata al ristorante, quella in cui i protagonisti pranzano insieme, è girata al “Biondo Tevere”, un locale storico, aperto fin dai primi del novecento sulla via Ostiense, non distante dalla Basilica di San Paolo e tutt’ora esistente. Ed è davvero dalla parte posteriore del ristorante che i due scendono sull’ansa del Tevere, come si può capire dalla visione del Gazometro che fa da sfondo alle immagini.
Roma a mano armata
Gli anni settanta sono un momento d’oro per il “poliziottesco”, un genere cinematografico che ha avuto, fra i suoi interpreti, due re incontrastati. Il primo è stato Maurizio Merli, il biondo dagli inconfondibili baffi, reso famoso dal suo eterno personaggio del poliziotto dai modi spicci, vendicatore solitario dei torti della società, uomo senza macchia e senza paura, a difesa del bene. Il secondo è stato Tomas Milian, a volte apparso anche lui nel ruolo di buono, del collaboratore di giustizia, volgare però dal cuore d’oro, ma altre volte capace di impersonare il cattivo della storia. Entrambi, in ogni circostanza, erano adorati dai loro numerosi fan. Così, nel 1977, il regista Umberto Lenzi decide di mettere insieme i due attori e di girare il film “Roma a mano armata”, pellicola che risulterà uno dei maggiori successi al botteghino di quell’anno.
La vicenda, in parte frammentata in varie sotto storie, narra di una serie di crimini, di rapine, di omicidi, di sequestri, che hanno luogo nella Capitale, presentata come una città in mano a bande di criminali, capaci di compiere sia piccoli furti, sia efferati delitti. Dietro a molti di questi c’è lo zampino degli uomini del Gobbo (Tomas Milian), un macellaio che lavora al mattatoio di Testaccio. Per cercare di smascherarlo, farlo confessare, sgominare la sua banda, mettendo così fine alla lunga scia di crimini che attraversa Roma, il commissario Tanzi, interpretato da Maurizio Merli, cercherà di fare di tutto, andando spesso oltre il limite consentito dalla legge. La cosa curiosa è che pare che Tomas Milian e Maurizio Merli si odiassero davvero, anche fuori dal set. La leggenda vuole, infatti, che durante una delle scene, quella in cui Milian e Merli hanno una colluttazione e Tomas Milian doveva fingere di prendere a calci un Maurizio Merli caduto provvisoriamente a terra, quei calci furono veri e ben assestati, al punto che il regista interruppe le riprese, per placare gli animi, riprendendole solo il giorno dopo.
È gran parte di Roma che viene coinvolta nelle scene del film, quasi a indicare che nessuna zona della città è esente dal pericolo criminale, né la Roma bene né quella più malfamata: si va dal Tiburtino a Parioli, dal Coppedè all’Acqua Acetosa, a Collina Fleming, alla Portuense. E poi ancora Garbatella, corso Francia, via del Governo Vecchio, con un rocambolesco inseguimento sui tetti del centro storico, via Palmiro Togliatti, Il Quadraro, il Parco degli Acquedotti, via Trionfale.
L’ultima carrozzella
Due anni prima dell’uscita nelle sale di “Roma città aperta”, nel 1943, la coppia Anna Magnani e Aldo Fabrizi si trovò già a lavorare insieme, in un film diretto da Mario Mattoli, alla cui sceneggiatura aveva partecipato, oltre allo stesso Fabrizi, anche un giovane Federico Fellini. La storia raccontata nella pellicola è quella di Antonio Urbani, detto Toto, un conducente di carrozzelle intrepretato da Aldo Fabrizi, perennemente in lotta con Roberto, tassista, per questo considerato un concorrente sleale che sta togliendo il lavoro a chi conduce carrozze a cavalli.
Un giorno Mary Dunchetti, una soubrette interpretata da Anna Magnani, dimenticherà sulla sua carrozza una valigia con dei gioielli, che Toto si preoccuperà successivamente di restituire. Ma dopo l’iniziale gioia della donna, lei lo accuserà ingiustamente di aver trafugato un gioiello, causandogli dei possibili guai giudiziari, che sarà proprio il tassista Roberto a scongiurare, ponendo così fine alla loro antica rivalità.
Sebbene il film risenta ancora di quel clima da “telefoni bianchi” che aveva caratterizzato la filmografia italiana da oltre un decennio, in questa pellicola si intravedono già alcuni elementi che porteranno poi alla nascita del neorealismo, con una recitazione decisamente più spontanea e meno ingessata rispetto ad altri film dello stesso periodo. Tra gli interpreti secondari del film, ci sono da ricordare Tino Scotti e il cabarettista romano Gustavo Cacini, all’epoca re dell’avanspettacolo capitolino.
Nel suo giro in carrozza, il vetturino Toto attraversa nel film varie zone del centro città: da via Bissolati, a Piazza Esedra, alla vecchia Stazione Termini (l’attuale sarà realizzata solo nel 1950), oltre a via Giulia e a vicolo dei Panieri, dove è collocata la stalla.
Habitacion en Roma
Questo film spagnolo del 2010, conosciuto anche col suo titolo internazionale in inglese “Room in Rome”, diretto da Julio Medem, è il racconto di una passione saffica nata fra due giovani donne, la spagnola Alba, interpretata da Elena Anaya e la russa Natasha, che ha il volto di Natasha Yarovenko. È una passione scoppiata durante un soggiorno a Roma e consumata in una camera d’albergo della Capitale, la notte prima della partenza.
Nonostante il buon successo internazionale avuto da una precedente opera dello stesso regista, quel “Lucia y el sexo” che lanciò la carriera di Paz Vega, nonostante l’ambientazione romana della vicenda e la presenza nel cast di Enrico Lo Verso, nel ruolo del cameriere Max, il nostro paese ha snobbato questa pellicola, che qui in Italia non ha riscosso grande consenso. In effetti, oltre alle belle immagini di via dei Coronari, all’affascinante panorama dei tetti di Roma visibile dal balcone dell’hotel, all’eleganza di alcuni ambienti dell’albergo, alla bellezza mozzafiato dei corpi delle due attrici, che appaiono nude quasi per l’intera durata della pellicola, il racconto appare un po’ esile, incapace di attirare fino in fondo l’attenzione dello spettatore, se non per ragioni voyeuristiche.
Quello che poi agli occhi di un italiano appare più grave, non è tanto l’immagine di una Roma molto da cartolina, che d’altro canto risulta coerente con il fatto che le protagoniste siano due turiste straniere, quanto la visione dell’italiano medio espressa dal film, che pare essere rimasta agli anni cinquanta, incarnata dal personaggio interpretato da Lo Verso. Al cameriere vengono infatti messe in bocca scialbe battute a doppio senso, a indicare la perenne indole da pappagalli dei nostri compatrioti, che, pur senza mandolino, non lesinano alle turiste il bel canto di famose arie d’opera, proprio come fa Max. Ne risulta una versione troppo stereotipata di questo personaggio, che finisce per togliere un po’ di qualità e di credibilità al film.
La terra dell’abbastanza
Nel 2018, i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo realizzano il loro primo film, al quale danno “un titolo democratico e ampio, che dà respiro al film e che permette allo spettatore di attribuire un proprio significato al termine abbastanza”, come diranno i due registi in alcune interviste. Girato a Ponte di Nona, a Roma Est, racconta le vicende di due ragazzi del quartiere, ma racconta soprattutto la periferia capitolina, tutta, quella in cui i mezzi per emergere sono pochi, ma al tempo stesso la voglia di elevarsi dalla massa e dall’abbrutimento rimane.
Mirko e Manolo sono due amici, due bravi ragazzi di quella periferia. Studiano, frequentano la scuola alberghiera, che stanno per ultimare. Una sera, guidando, investono un uomo e scappano senza soccorrerlo. Il padre di Manolo, Danilo, interpretato da Max Tortora, rivelerà loro che quell’uomo investito era un pentito del clan dei Pantano, i criminali della zona. Grazie a quell’evento, perciò, Mirko e Manolo si sono guadagnati il diritto di entrare in quel clan, al servizio del malavitoso Angelo, interpretato da Luca Zingaretti. Comincia così per loro una nuova vita, fatta di soldi, di piccolo potere, ma soprattutto di una spirale prima esaltante, poi sempre più soffocante.
Il film è dunque una lenta, inesorabile, discesa agli inferi, o un “abituarsi al male”, come detto dagli stessi registi e come anche sottolineato dall’uso delle inquadrature e dei colori, che vanno via deformandosi verso immagini quasi stagnanti, malate, senza che in questo risulti un giudizio morale del tutto negativo verso l’umanità descritta. Nel film, infatti, anche i personaggi più negativi vengono sempre presentati con un proprio fondo di umanità. Quella al male, però, è un’abitudine apparente, in realtà nessuno si abitua davvero, a partire dai due ragazzi, che proprio per questo, tenteranno, ciascuno a suo modo, di ribellarsi disperatamente all’ingranaggio in cui sono finiti.
Indagine su un cittadino…
Film premio Oscar, diretto da Elio Petri e uscito nelle sale nel 1970, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” è un racconto inquietante, complesso, pieno di rimandi culturali e di apparenti riferimenti alla cronaca di quegli anni; un’indagine poliziesca e al tempo stesso psicologica, che tiene fino alla fine col fiato sospeso, sebbene lo spettatore sappia da subito chi sia l’assassino: un alto dirigente di Pubblica Sicurezza, interpretato da Gian Maria Volonté, già capo della sezione omicidi, da poco promosso al comando dell’ufficio politico della Questura di Roma. Sarà proprio lui, dopo avere ucciso la propria amante, interpretata da Florinda Bolkan, ad alternare sapienti depistaggi e, con frequenti moti di pentimento autopunitivo, a fornire elementi utili per farsi scoprire.
Ad alimentare sapientemente l’inquietudine dello spettatore, di fronte alla vicenda, contribuiscono anche due elementi. Il primo è più evidente: l’efficacissima colonna sonora di Ennio Morricone, che sembra sottolineare perfettamente gli ambigui movimenti della psiche del protagonista. Il secondo è più sottile e forse non viene percepito, se non in modo inconscio, da gran parte del pubblico: il personaggio interpretato da Gian Maria Volonté, durante tutta la durata del film, non viene mai chiamato per nome. Ha dunque solo un ruolo sociale, ma non una completa identità, quasi a rappresentare un pirandelliano “uno, nessuno e centomila”, a dire che quell’uomo, al tempo stesso criminale e difensore della legge, potrebbe essere, in fondo, ciascuno di noi.
Il film ebbe un immediato successo di pubblico, oltre che di critica, complice la coincidenza della sua uscita con lo shock provocato in Italia dalla strage di piazza Fontana. Nel personaggio di Volonté, infatti, si volle, a torto, vedere anche un’analogia con il commissario Calabresi, l’uomo incaricato delle indagini sui sanguinosi fatti milanesi. A torto, poiché la bomba di piazza Fontana, che è del dicembre 1969, fu successiva alla fine delle riprese del film, girato qualche tempo prima. Solo per una coincidenza e per le tempistiche necessarie per il montaggio e la distribuzione, la pellicola uscì nelle sale alcuni mesi dopo, quindi nel bel mezzo delle polemiche per le indagini sulla strage, con la morte misteriosa dell’anarchico Pinelli, di cui parte della sinistra stava accusando Calabresi.
La Roma del film è una città cupa, quasi claustrofobica e al tempo stesso molto moderna. I palazzi in cui la vicenda si svolge, infatti, sono soprattutto quelli ultimati proprio in quegli anni. Anzi a dire il vero, la costruzione del modernissimo palazzo di lusso in cui Gian Maria Volonté abita, non era ancora stata terminata al momento delle riprese. Si tratta del Comprensorio Titanus di Roma, un elegante complesso di palazzine, in Via dei Colli della Farnesina. Anche il suo ufficio era per l’epoca recentissimo. La Questura viene infatti collocata dentro il Centro Direzionale del Caravaggio, in Via del Giorgione, una grande struttura in vetro e acciaio, che è stata anche sede di uffici della Regione Lazio. Solo la casa di Florinda Bolkan è posta in una Roma più classica e centrale: per la precisione in via del Tempio, di fronte alla Sinagoga. Alcune scene sono infine girate nell’ufficio postale realizzato dall’architetto Adalberto Libera, in via Marmorata.
Sacro GRA
Leone d’oro alla settantesima mostra del cinema di Venezia, il film del 2013, diretto da Gianfranco Rosi, è un racconto per immagini, prive di qualunque commento esterno, di alcune vicende di vita reale che si svolgono nelle vicinanze del Grande Raccordo Anulare. Può dunque essere definito un docufilm, ma con una parte documentaristica nettamente prevalente.
Le vicende di alcuni personaggi hanno maggiore spazio, rispetto ad altre, che hanno una funzione di contorno e di raccordo. È il caso, ad esempio, della storia di Roberto, barelliere del 118, che la macchina da presa segue, sia durante i suoi turni di lavoro, sia in alcuni momenti della sua vita privata. C’è poi Francesco, il botanico che vive quasi come una missione la lotta al punteruolo rosso che minaccia le palme di Roma. Cesare, invece, è un pescatore di anguille, che vive su una palafitta sul Tevere. Ben altro tenore di vita ha il principe Filippo Pellegrini, che abita nel suo ricco palazzo, nella zona di Boccea, utilizzato come bed and breakfast e come location per cerimonie. Paolo, anche lui nobile, ma decaduto, vive con la figlia in un piccolo appartamento, non distante dall’aeroporto di Ciampino, avendo come vicini di casa alcuni immigrati con un figlio deejay dilettante.
Accanto a queste storie, ne vengono brevemente presentate anche altre, come quella di alcune anziane prostitute che abitano dentro un camper, quella della coppia di giovani cubiste che balla sul bancone di un chiosco, quella del raduno di fedeli, accorsi per assistere ad un’apparizione della Vergine, quella della riesumazione di alcune salme, tumulate nel cimitero di Prima Porta.
Borotalco
Questo film del 1982, diretto e interpretato da Carlo Verdone, con la partecipazione di Eleonora Giorgi, Christian De Sica, Angelo Infanti, Mario Brega, è il più classico gioco degli equivoci. Sergio (Carlo Verdone), timido venditore di enciclopedie, si ritrova per una serie di casualità ad avere le chiavi di casa dell’attico del ricco architetto Manuel Fantoni (Angelo Infanti) e dunque fingerà di essere lui all’arrivo della bella Nadia (Eleonora Giorgi), millantando con lei una vita avventurosa e inesistenti conoscenze altolocate, fra le quali una stretta amicizia col cantante Lucio Dalla, di cui Nadia è una fan sfegatata. Il trucco andrà avanti per un po’, fin quando non verrà smascherato da Augusto (Mario Brega), padre della fidanzata di Sergio.
In questo film sono presenti alcune delle battute e delle scene rimaste memorabili nella filmografia di Carlo Verdone: dal famoso “M’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana”, che Sergio, nei panni di Manuel Fantoni, dice a Nadia per sedurla, durante i suoi iperbolici racconti sul suo immaginario passato; all’indimenticabile scena nel negozio di alimentari di Mario Brega, quintessenza della romanità più visceralmente popolare, quella in cui Verdone è costretto ad assaggiare le famosissime “olive greche”. Del film sono rimaste famose anche le musiche della colonna sonora, firmate dagli Stadio e, ovviamente, da Lucio Dalla, che nella pellicola è citato talmente spesso, da fungere quasi da ulteriore interprete-ombra.
Il film è interamente ambientato e girato a Roma. L’attico di Manuel Fantoni è nella zona di Villa Bonelli, anche se alcuni degli esterni sono stati girati alla Farnesina; mentre l’appartamento di Nadia è a Trastevere (per gli interni) e a Fonte Meravigliosa (per gli esterni), anche se nella finzione filmica viene collocato nella zona di Cinecittà. Alcune scene sono poi girate a Ostia, alla Galleria Colonna, alla Stazione Termini, a Colli Aniene, a piazza Mancini, a Ponte Mazzini. Il negozio di alimentari di Augusto è in centro, in via di San Paolo alla Regola. Tra le curiosità: all’interno del film vi è un cameo della pornostar Moana Pozzi, che appare in alcune scene, interpretando il ruolo di amante dell’architetto Manuel Fantoni.
Estate romana
Film del 2000, diretto da un Matteo Garrone all’epoca ancora poco noto al grande pubblico. Narra le vicende di un eterogeneo gruppo di persone, che condivide un appartamento in piazza Vittorio, oltre che una passione per il mondo del teatro. Fra questi ci sono Salvatore e Monica, una sorta di coppia platonica e non dichiarata, impegnata nella realizzazione di un enorme mappamondo per una scenografia teatrale.
La particolarità del film è nel mostrarsi allo spettatore quasi come un documentario. A prima vista nessuno degli attori pare infatti recitare una parte, ma tutti sembra quasi che vengano ripresi di nascosto, durante reali momenti della loro quotidianità. Non a caso, ad accentuare questo aspetto, tutti i personaggi hanno gli stessi nomi degli interpreti. Questo vale per Salvatore Sansone e Monica Nappo, che vestono i panni del Salvatore e della Monica del film. Questo vale ancora di più per Rossella Or e Victor Cavallo, due nomi noti negli anni settanta, capifila del teatro d’avanguardia romano dell’epoca, quello che aveva nel teatro Beat ’72 il proprio punto di riferimento e che, nel film di Garrone, interpretano loro stessi, con una Rossella spaesata, che è appena tornata, dopo anni, in una Roma che non la riconosce più e che lei non riconosce.
Il film è girato quasi interamente a Piazza Vittorio, oltre che sul litorale romano, dove i protagonisti si recano per vendere il gigantesco mappamondo, dopo averlo caricato sul bagagliaio della propria macchina. La Roma che viene presentata è dunque quella multietnica del quartiere Esquilino, oltre a quella del mondo dello spettacolo romano. Non quello dei grandi nomi, dei vip del cinema e della tv, danarosi e noti al pubblico, bensì quello precario, semi clandestino e privo di lustrini, che pullula attorno ai tanti piccoli teatri off della capitale.
Roma
Con un titolo così, il film di Federico Fellini del 1972, non poteva non essere in questa lista di opere cinematografiche dedicate alla Città Eterna (anche se, a dirla tutta, esiste anche un film omonimo del 2018, di Alfonso Cuaron, intitolato anch’esso “Roma”, per via di un quartiere di Città del Messico nominato Colonia Roma, senza avere dunque alcun riferimento con la capitale d’Italia, opera che quindi non troverete in questa lista). Un anno prima di “Amarcord”, che è del 1973, la pellicola in cui il regista omaggia, nel suo stile visionario, la Rimini della sua infanzia, in “Roma” l’omaggio visionario di Fellini è alla città che lo ha accolto e che lo ha reso famoso.
E infatti “Roma” è anch’esso una sorta di amarcord autobiografico, che non a caso inizia alla stazione Termini, con l’arrivo di un giovane di provincia negli anni trenta, un giovane che è chiaramente, anche se il regista non lo dice esplicitamente, lo stesso Federico Fellini. Da quel momento partono una serie di racconti a metà fra la realtà e il sogno, diversi l’uno dall’altro per contenuto e stile, senza una soluzione di continuità, quasi a volere suggerire la realtà multiforme e contraddittoria che funge da essenza stessa della città. Si va dalla sfilata di moda di abiti ecclesiastici, all’atmosfera dell’avanspettacolo anteguerra, dal ricordo delle case chiuse, agli scontri fra giovani contestatori e polizia, dall’ingorgo sul Grande Raccordo Anulare, a una sorta di visita archeologica degli scavi della metropolitana.
Da ricordare nel film il cameo di Anna Magnani, nella parte di sé stessa, che è anche la sua ultima apparizione cinematografica (morirà l’anno dopo). Analoghe scene erano state girate anche da Marcello Mastroianni e da Alberto Sordi, ma Fellini deciderà poi di tagliarle in fase di montaggio. Ovviamente nel film appaiono tutti i luoghi più caratteristici del centro storico della città, oltre ad alcune aree più periferiche. La scena della sfilata dei Balilla è girata a Ostia, in piazzale dei Ravennati. La casa di via Albalonga in cui va a vivere il giovane provinciale, non è davvero in via Albalonga, ma è stata interamente ricostruita negli studi di Cinecittà; mentre la stazione Termini degli anni trenta, dato che l’attuale stazione Termini, in stile razionalista, fu ultimata solo negli anni cinquanta e dunque sarebbe risultata anacronistica, è stata ricreata nella stazione Centrale di Bologna.
Un borghese piccolo piccolo
Tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, il film di Mario Monicelli, del 1977, si discosta dai canoni classici della commedia all’italiana, di cui il regista è stato un indiscusso maestro, assumendo i contorni del dramma, anzi della tragedia, non illuminata da luci di speranza. Oltre all’interpretazione di Alberto Sordi, quale protagonista, del cast fanno parte Shelley Winters, nei panni della moglie, Vincenzo Crocitti, il figlio, Romolo Valli, il capoufficio dottor Spaziani.
La vicenda narrata è quella della famiglia Viviani, con il padre Giovanni, impiegato in un ufficio pubblico romano, la madre Amalia, casalinga, il figlio Mario, neo diplomato in ragioneria. Per fare in modo che il figlio possa essere assunto nel suo stesso ufficio, sistemando in tal modo per sempre la sua vita, secondo la filosofia piccolo borghese che gli è propria, Giovanni Viviani finirà per fare di tutto, affiliandosi anche alla massoneria, per acquisire amicizie e favoritismi, grazie all’intercessione del dottor Spaziani, da tempo massone. Ma quando il giovane Mario finisce per essere ucciso da alcuni malviventi, durante una rapina in banca, il sottile strato rassicurante della vita di Giovanni va in mille pezzi e lui, da pacifico impiegato quale era, si trasformerà in un sadico e violento vendicatore solitario, che cercherà di farsi giustizia privata, prima nei confronti dell’assassino del figlio e poi, in genere, contro i soprusi della società.
Il film rende bene l’immagine della Roma impiegatizia, quella che due anni prima era stata letta cinematograficamente in veste comica e grottesca da Luciano Salce e Paolo Villaggio, nella saga di Fantozzi e che, invece, qui mostra i suoi lati più oscuri e tragici. Tutto il film è girato a Roma, tranne la parte nel casotto di campagna, in cui Sordi mette in atto i suoi piani vendicativi, che è ambientata a Nazzano, poco a nord della Capitale. La casa in cui abita la famiglia Viviani è un appartamento di piazzale Prenestino, mentre l’ufficio di Giovanni è nel Palazzo del Poligrafico e Zecca dello Stato, in piazza Verdi. La banca della rapina è in viale Asia, all’Eur, mentre altre scene sono girate in via Cavour, in via dei Colli Portuensi, in viale del Monte Oppio. Una curiosità: il palazzone dove abita l’assassino del figlio di Giovanni Vivaldi, il cosiddetto “Boomerang” di largo Spartaco, al Quadraro, è lo stesso in cui, quindici anni prima, aveva abitato anche Mamma Roma, nel film di Pasolini del 1962.
Fantozzi
Forse qualcuno si stupirà nel vedere inserito, in questo elenco di film dedicati a Roma, anche “Fantozzi”, pellicola del 1975, girata da Luciano Salce, primo episodio di una lunga epopea interpretata dall’attore genovese Paolo Villaggio. Eppure non c’è affatto da stupirsi, perché il film, ispirato all’omonimo romanzo scritto nel 1971 dallo stesso Villaggio, ambienta proprio a Roma le vicende quotidiane dello sfortunato protagonista, quel ragionier Ugo Fantozzi, diventato una vera e propria maschera da commedia dell’arte, simbolo grottesco e universale dell’uomo medio vessato dalla società.
È quindi la Roma grigia e impiegatizia dei tanti travet dell’amministrazione pubblica e non, che incornicia le paradossali vicende fantozziane. Già il poter oggi usare tranquillamente un aggettivo come fantozziano, la dice lunga sul successo di quel film e di quel personaggio, arrivato a riempire l’immaginario collettivo e il dizionario della lingua italiana. Il film è talmente romano che, alcuni anni fa, ci fu addirittura chi propose ai turisti giunti nella Capitale, una visita guidata “nella Roma di Fantozzi”. Innanzi tutto dov’è la casa in cui abita il ragionier Ugo? L’esterno del suo appartamento è in viale Castrense, con affaccio sulla Tangenziale Est. È dal balcone di quell’abitazione che Fantozzi si calerà per prendere al volo il bus, in una Tangenziale all’epoca ancora chiusa al traffico, perché non ultimata. Altre scene sono però girate in un appartamento di via Donna Olimpia, mentre il cortile interno dell’abitazione è in via Giovanni Battista Bodoni, al Testaccio, in cui è anche il forno del panettiere con cui la moglie Pina lo tradirà nel terzo film della saga “Fantozzi contro tutti”, del 1980 e diretto da neri Parenti.
L’ufficio di Fantozzi è all’interno di quello che è oggi il palazzo sede della Regione Lazio, sulla Cristoforo Colombo, nei cui lunghissimi corridoi Fantozzi si troverà a correre, per riuscire a timbrare in tempo e senza l’aiuto di nessuno, pena la squalifica, il suo cartellino. La location della partita di calcetto arbitrata da Filini (Gigi Reder), è un campetto di periferia sul lungotevere Dante, in zona Marconi, che è stato oggi trasformato in un più moderno centro sportivo. La scena del funerale della madre del mega direttore si svolge presso la chiesa di San Gregorio Magno, vicino al Colosseo; mentre il binario in cui Fantozzi rincorre il treno per consegnare un libro alla Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare, è il primo binario della stazione Ostiense, location che tornerà anche ne “Il secondo tragico Fantozzi”, film del 1976 sempre girato da Salce e in “Fantozzi contro tutti”, durante la partenza per la vacanza a Ortisei.
Il famoso capodanno anticipato, ha luogo in un palazzo di via Donna Olimpia, mentre l’inseguimento dei bulli, quando Fantozzi sta portando l’amata signorina Silvani, cioè Anna Mazzamauro, a un pranzo romantico da “Gigi il troione”, si svolge nei dintorni del Lungotevere della Vittoria. Alcune scene sono poi girate nel carcere minorile di San Michele a Ripa, che tornerà anche in altri film della saga. La sfida a biliardo col mega direttore ha luogo in una villa dell’Olgiata, usata come location per diverse pellicole, mentre un’altra villa, in zona Monte Mario, è trasformata nel ristorante giapponese in cui troverà la morte il cagnolino della Silvani. Per concludere, una citazione la merita anche la famosa “Coppa Cobram” di ciclismo, presente nel sequel “Fantozzi contro tutti”. Quella devastante gara è stata interamente girata sul Monte Antenne, non distante dalla zona in cui oggi si trova la moschea di Roma. Poi la corsa si snoda tra Via di Ponte Salario e Via del Forte Antenne.
I nuovi mostri
Questo film a episodi del 1977, con la regia di Dino Risi, Ettore Scola, Mario Monicelli, che vede, tra gli interpreti, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Ornella Muti, è una sorta di ampio campionario delle meschinità umane, molto spesso compiute senza la minima percezione, o comunque senza particolari rimorsi, di quanto alcuni comportamenti finiscano per risultare dannosi per gli altri, amici, parenti, conoscenti e, in qualche caso, addirittura mortali.
Il film completo consta di quattordici episodi, molti dei quali ambientati a Roma, anche se la cosiddetta versione televisiva, quella che fu trasmessa dalle tv italiane a partire dagli anni ottanta e perciò la più nota al grande pubblico, ne conta solo nove. Da questa versione ridotta, sono stati tagliati gli episodi intitolati Mammina e mammone, Cittadino esemplare, Il sospetto, Sequestro di persona cara, Pornodiva ed è stata anche accorciata la durata dell’episodio intitolato Autostop.
Tra gli episodi più famosi, girati nella Capitale, c’è Tantum Ergo, con Gassman nelle vesti di un cardinale, che resta bloccato nella zona di Centocelle, davanti a una parrocchia di borgata, quella di Santa Maria Madre della Misericordia, non distante da Villa Gordiani, a causa di un guasto alla propria vettura, perciò entra in quella chiesa, gestita da un prete operaio e lì improvvisa un sermone. C’è poi Hostaria, girato alla Trattoria ai Due Ponti, in via Flaminia, nelle cui cucine Gassman e Tognazzi, nelle vesti del cameriere e del cuoco, litigano forsennatamente. C’è anche il tour notturno per ospedali capitolini di First Aid, compiuto da Alberto Sordi, nei panni di Giovan Maria Catalan Belmonte, un dandy, esponente della nobiltà romana, che, vagando con la sua Rolls-Royce, nei pressi del monumento a Mazzini al Circo Massimo, trova un uomo gravemente ferito a causa di un incidente. Dopo aver provato a farlo ricoverare in tre ospedali (di cui uno solo, fra quelli mostrati nel film, è un vero ospedale di Roma: il San Camillo), senza trovare un pronto soccorso disponibile, il protagonista abbandona di nuovo il malcapitato, esattamente dove l’aveva trovato.
Romano è l’episodio L’elogio funebre, in cui Sordi, in un cimitero, ricorda il capocomico scomparso “Formichella”, trasformando quel momento di lutto in uno sguaiato show d’avanspettacolo. Anche l’episodio Senza parole, con Ornella Muti che s’innamora di un misterioso mediorientale, è girato a Roma, nell’Hotel Cavalieri Hilton di Monte Mario. Un tour del centro della città, partendo dalla Garbatella, è nell’episodio tagliato Mammina e mammone. E, sempre a Roma, negli ex studi De Paolis di via Tiburtina, è girato Pornodiva. Infine, l’episodio Come una regina, che inizia con un gelato gustato in un bar all’aperto, lungo la Passeggiata del Gianicolo, dove Sordi porta l’anziana madre, prima di abbandonarla in un ospizio, è girato in gran parte nell’ex orfanotrofio della Marcigliana, un luogo affascinante e misterioso della città, di cui abbiamo parlato ampiamente in un nostro articolo.
ACAB
ACAB, acronimo anglosassone che sta per All Cops Are Bastards, cioè tutti i poliziotti sono bastardi, è anche il titolo di un film di Stefano Sollima del 2012, che narra le vicende di tre celerini: Negro (Filippo Nigro), Mazinga (Marco Giallini) e Cobra (Pierfrancesco Favino), agenti antisommossa della Polizia di Stato, diversi per carattere ma uniti da una forte amicizia, un legame che li aiuta ad affrontare il difficile lavoro che hanno scelto e le proprie situazioni private e familiari, tutte piuttosto complesse. Alle vicende di fantasia narrate del film, si intrecciano alcuni reali episodi di cronaca, come la morte del poliziotto Filippo Raciti e quello del tifoso della Lazio, Gabriele Sandri.
La Roma che appare nel film, è dunque la città che ruota attorno al mondo degli ultras, oltre a quello delle forze di polizia. Numerose scene sono girate nei pressi dello Stadio Olimpico e del Foro Italico, oltre a Colli Aniene, Ponte Mammolo, Casal de’ Pazzi, che fanno da cornice per i momenti più privati delle vite dei protagonisti. Il campo da rugby nel quale si dilettano a giocare dopo il lavoro, è il campo della Vantaggio Rugby, nel quartiere San Basilio. Infine, la caserma in cui i tre lavorano, è, nella realtà, la sede della scuola per la formazione dei Vigili del Fuoco di Roma, all’interno della Caserma delle Capannelle.
Ieri, oggi, domani
Tre storie, tre città, gli stessi due interpreti in tutti gli episodi: Marcello Mastroianni e Sophia Loren. Il film di Vittorio De Sica, del 1963, è articolato in tre diversi racconti, ambientati in tre città italiane: Napoli, Milano e, ovviamente, Roma. Se l’episodio napoletano (ispirato da una storia vera) narra di una coppia prolifica, in cui lei, venditrice di sigarette di contrabbando, riesce, con l’escamotage di essere perennemente incinta, a evitare di essere rinchiusa in galera, se quello milanese ci propone la tresca fra una donna altolocata e un uomo di modeste condizione economiche, è sicuramente l’episodio ambientato a Roma, intitolato “Mara” quello rimasto più famoso, soprattutto per una delle sue memorabili scene.
Mara (Sophia Loren) è una squillo d’alto bordo, che abita in un appartamento con vista su Piazza Navona. Ha, trai suoi più affezionati clienti, un certo Augusto (Marcello Mastroianni). Ma Umberto, il nipote della dirimpettaia (interpretata da Tina Pica), seminarista, ignaro della professione della vicina di casa, se ne invaghisce. Mara dopo aver giocato a farlo innamorare, quando viene a sapere che Umberto vuole lasciare la sua vocazione per lei, si pente e gli confida tutto. Augusto torna perciò in seminario e Mara, per festeggiare il fatto che tutto si sia sistemato per il meglio, si esibisce in una delle scene più famose del cinema italiano: un sensuale spogliarello per il suo amico Augusto.
È dunque la Roma più tipica quella che appare nel film, la Roma del pieno centro storico e quella delle tonache che popolano la città in cui risiede il Papa. Il negozio di articoli religiosi che appare in una delle scene del film, non è però in Vaticano o a Borgo, come si potrebbe pensare, dato che ancora oggi quelle zone della città pullulano di esercizi commerciali a tema, bensì a piazza della Minerva, poco distante dal Pantheon.
Bangla
“Cinquanta per cento Bangla, cinquanta per cento Italia e cento per cento Torpigna”. È con questa frase che si presenta il protagonista di “Bangla”, il film del 2019, d’ispirazione autobiografica, scritto, diretto e interpretato da Phaim Buiyan, giovane attore e regista, originario del Bangladesh, ma nato e vissuto a Roma, nel quartiere di Torpignattara.
E a Torpignattara nasce e vive anche Phaim, l’omonimo protagonista della pellicola, un ragazzo bengalese di 22 anni, diviso fra due mondi. Perché “Bangla” è il ritratto poetico e divertente di quei romani di seconda generazione, che formano ormai un’ampia fetta della nostra città, provenienti da radici diverse, anche se nati qui, più romani dei romani stessi. La famiglia di Phaim è composta da un padre sognatore, una madre tradizionalista e una sorella che sta per sposarsi con un altro ragazzo bengalese. Come tutti i ragazzi della sua età, Phaim sogna di innamorarsi, ma intanto divide le sue giornate fra il lavoro da steward in un museo, il suo amico Matteo, pusher di Torpigna, e la band Moon Star Studio, in cui lui suona insieme ad altri tre amici. L’incontro con Asia (Carlotta Antonelli), una ragazza romana che gli fa perdere la testa, metterà il protagonista davanti a una scelta lacerante fra le sue due culture: andare via dall’Italia e partire per Londra, dove la famiglia ha deciso di trasferirsi, oppure restare a Roma, per rimanere con i suoi amici e con la donna che ama.
Tra street art capitolina e scorci dei palazzoni di Torpignattara, la pellicola ha una forte connotazione romana. L’incontro tra i due mondi è poi simbolicamente rappresentato, nel film, anche nell’incontro fra la periferica Torpigna di Bangla e la Roma Nord, un po’ radical chic, di Asia, due zone della città che nella vicenda vengono raffigurate quasi come due entità estranee, che non si conoscono l’una con l’altra e si guardano con sospetto, pur essendo vicendevolmente attratte. E così, le situazioni complesse che nascono dal multiculturalismo e dalla religione musulmana di Phaim, che comporta un assoluto divieto di fare sesso prima del matrimonio, o di bere alcolici e mangiare carne di maiale, finiscono per condensarsi e risolversi nella domanda che le pischelle di Roma Nord, amiche di Asia, rivolgono al protagonista: “Tu il maiale non lo mangi, ma il cinghiale?”
I ragazzi della Roma violenta
All’inizio del 1976, l’eco del massacro del Circeo, compiuto da tre giovani romani di buona famiglia, nel settembre del ’75, in una villa sul litorale pontino, era ancora fortissimo in tutta Italia e riempiva le prime pagine di giornali e rotocalchi. A questo si aggiungeva il clima di quegli anni, che saranno in seguito definiti gli “anni di piombo”, con lotte fra fazioni politiche avverse, violenze e omicidi, che venivano compiuti, sia da parte di gruppi organizzati di estrema destra, sia da parte di analoghi raggruppamenti di estrema sinistra. È in quel momento che Renato Savino, ispirandosi a questi fatti di cronaca, decise di scrivere il soggetto e la sceneggiatura di un film che può essere considerato una sorta di “instant movie”, di cui firmò anche la regia: “I ragazzi della Roma violenta”.
La pellicola si rifà in parte ai canoni del genere poliziottesco, molto in voga in quegli anni, pur discostandosene in parte. La storia è un intreccio di due episodi: da una parte le violenze commesse da un gruppo di neofascisti romani, capeggiati da Marco Garroni, un ricco e perverso pariolino; dall’altra quelle perpetrate da alcuni giovani borgatari, comandati da Schizzo. Gli atti di sadismo e i morti finiranno per esserci da ambo le parti. Garroni si macchierà anche dell’omicidio di una ragazza, seviziata a violentata senza pietà prima della morte. Braccato dalla polizia, nel tentativo di scappare, finirà con la sua auto in un burrone, morendo.
Il chiaro richiamo al delitto del Circeo è bene evidenziato anche dalle location scelte dal regista. Oltre alle scene girate a Roma, soprattutto la Roma periferica dei quartieri nati in quegli anni: il Nuovo Salario, Tor de’ Schiavi, Casalbruciato, il Collatino, il Tiburtino, ma anche la zona di Villa Massimo, non lontano da piazza Bologna, buona parte del film è girata nei dintorni di Sabaudia. Proprio a Sabaudia, quindi non lontano dal Circeo, si trova la villa in cui Garroni violenta e uccide la sua vittima e, sempre sul litorale pontino. è anche la strada litoranea in cui l’auto del protagonista finirà fuori strada.
La grande bellezza
Ciò che per Roma, negli anni sessanta è stata “La dolce vita”, nel nuovo millennio è “La grande bellezza”, il film di Paolo Sorrentino del 2013, vincitore del premio Oscar quale miglior film straniero. Le analogie fra le due pellicole sono davvero molte, a partire dallo stile cinematografico, con un Sorrentino che esplicitamente cita il Fellini di cinquant’anni prima in diverse riprese, oltre che nell’atmosfera di fondo che accompagna il film. Per proseguire con la prospettiva dalla quale viene raccontata la Città Eterna, che nell’uno e nell’altro film, è quella della mondanità capitolina. E poi ancora la durata, che in entrambe le pellicole rasenta le tre ore. Ma, soprattutto, entrambi i film hanno fatto nascere dei modi di dire universali, con i loro titoli che sono, in un certo qual modo, divenuti dei veri e propri sinonimi di Roma. Curioso che queste due pellicole, cioè quelle che maggiormente simboleggiano l’Urbe nel mondo, siano entrambe opere di registi che romani non sono, se non di adozione.
Protagonista assoluto del racconto è Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo, giornalista, esattamente come il Marcello Rubini de “La dolce vita”, scrittore e critico teatrale, un uomo che, come il suo predecessore felliniano, attraversa le interminabili notti di una Roma, tanto bella quanto cinica e vacua, quasi senza speranza, una città alla quale sente di somigliare. Attorno a lui ruotano numerosi altri personaggi, ciascuno con la propria palese o segreta insoddisfazione e solitudine, interpretati da un cast che comprende Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Isabella Ferrari, Roberto Herlitzka, con dei cameo di Antonello Venditti e Fanny Ardant nel ruolo di loro stessi.
Su tutti i personaggi e le vicende narrate aleggia al tempo stesso un’eleganza delle forme e un grosso vuoto nella sostanza, un’aura di fallimento, che rimane in sottofondo per poi venire esplicitata nella famosa frase pronunciata dal protagonista: “Io non volevo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire”. Tutto accade in un costante presente, senza progetti, senza un vero domani. Anche la musica di Raffaella Carrà, nella versione rimixata da Bob Sinclair, che fa da tormentone durante la scena della festa, è stata scelta dal regista in questa ottica, come ha detto lo stesso Sorrentino in un’intervista, dichiarando che quel brano: “è un continuo ripetersi, che non porta da nessuna parte”.
Tutto questo si proietta su Roma, che è la vera grande protagonista del film, raffigurata nella sua bellezza con immagini mozzafiato dei suoi angoli noti e meno noti: dal Fontanone del Gianicolo a Villa Spada, dai Cavalieri di Malta e Santa Sabina, sull’Aventino, a piazza Navona, dal Lungotevere alla Fontana di Trevi, dalla chiesa dei Santi Domenico e Sisto, sotto la Torre delle Milizie, tra salita del Grillo e via Panisperna, ai giardini di Villa Medici. E poi San Pietro in Montorio, il Parco degli Acquedotti, Villa Giulia, le Terme di Caracalla. Infine le terrazze, quella con vista Colosseo e quella del Palazzo dell’Ina di via Bissolati, da cui è visibile l’insegna pubblicitaria del Martini. La grande bellezza di Roma c’è nella sua interezza, in questo film, immutabile e immortale, nonostante la sua decadenza.
Notte prima degli esami
Col titolo rubato a una famosa canzone di Antonello Venditti, il film di Fausto Brizzi del 2006, è il ritratto di una generazione, quella che andava al liceo nella seconda metà degli anni ottanta, l’epoca dei paninari, dei Duran Duran, del rampantismo, un periodo visto con gli occhi di un gruppo di adolescenti che si stanno preparando alla vita e, soprattutto, al proprio esame di maturità. Tra gli interpreti della pellicola troviamo Giorgio Faletti (il professor Martinelli), Nicolas Vaporidis (Luca), Cristiana Capotondi (Claudia).
A incorniciare le vicende dei protagonisti, coi loro patemi amorosi, le loro trovate creative e bislacche per superare il temuto esame, le loro piccole e grandi difficoltà, è la Capitale con le sue molteplici facce. Si va dalla scalinata della chiesa dei santi Pietro e Paolo, all’Eur; alla villa della mega festa in cui ha luogo il fatale incontro fra Luca e Claudia, una vera villa capitolina che è in via Caetana, all’incrocio con via dei Metelli; alla terrazza panoramica di Monteverde, che funge da abitazione di Luca, al bar di Monti dove i ragazzi si incontrano spesso per chiacchierare; al barcone sul Tevere, oggi affondato, nei pressi di Ponte dell’Industria, che nella pellicola funge da balera; alla casa del professor Martinelli, in centro, per la precisione in via Sant’Agata dei Goti. Il liceo classico che frequentano i protagonisti del film, non è in realtà un liceo, ma è la sede della Facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza.
Dal film, visto il buon successo di pubblico e anche di critica incontrato fin dalla sua uscita, sono state tratte altre opere cinematografiche e televisive: Nel 2007 è uscito il sequel “Notte prima degli esami – Oggi” dello stesso regista; nel 2008 è stato realizzato un remake francese della pellicola, intitolato “Nos 18 ans”, diretto da Frederic Berthe; nel 2011 Rai Fiction ha prodotto una miniserie in due puntate, dal titolo “Notte prima degli esami ’82”, ambientata nel periodo dei mondiali di calcio vinti dall’Italia.
Signore e signori buonanotte
È un curioso film collettivo del 1976, dalla struttura originale, diretto da Age, Leonardo Benvenuti, Luigi Comencini, Piero De Bernardi, Nanni Loy, Ruggero Maccari, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ugo Pirro, Furio Scarpelli ed Ettore Scola, riuniti nella cosiddetta “Cooperativa 15 maggio”. Si tratta della parodia di un’immaginaria giornata televisiva, con inchieste giornalistiche, sceneggiati, telefilm, quiz, trasmissioni per ragazzi, spot pubblicitari e un telegiornale (il TG3, che all’epoca ancora non esisteva) che funge da filo conduttore. Ne risulta una rappresentazione paradossale e satirica, al tempo stesso comica e di denuncia, grottesca ma con un fondo di realismo, della società dell’epoca, del suo mondo politico e degli altri principali poteri: l’esercito, la chiesa, i media.
Con Marcello Mastroianni nel ruolo di anchorman televisivo, preso anche da vicende sindacali e private e da un flirt con la bella assistente, nel bel mezzo della sua diretta, il film vanta un cast di tutto rispetto, di cui fanno parte, tra gli altri, Vittorio Gassman, Paolo Villaggio, Adolfo Celi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Senta Berger, Gabriella Farinon, Mario Scaccia, Carlo Croccolo, Monica Guerritore.
Se alcuni degli episodi in cui è frammentata la pellicola, sono girati a Bracciano, a Napoli e a Milano, la maggior parte di questi ci presenta chiaramente scorci romani. Si va dal Villaggio Olimpico e da una piazza nelle vicinanze di via La Spezia nell’episodio intitolato “La bomba”, a un bel palazzo primi del novecento, accanto a viale del Policlinico, che funge da ambasciata nella “Lezione d’inglese”, a una villa dell’Olgiata, a piazza Montecitorio, dove ha luogo l’intervista di Mastroianni ad un ministro corrotto.
Il conte Tacchia
Sulla scia del grande successo de “Il marchese del Grillo”, uscito l’anno prima, il film di Sergio Corbucci del 1982, che ha per protagonista Enrico Montesano nelle vesti di un singolare conte di estrazione popolare, è un’altra storia che prende ispirazione da personaggi della memoria romanesca, a metà fra storia e leggenda. Quello del conte Tacchia è, molto liberamente, ispirato alla figura del conte Adriano Bennicelli, che alcune fonti ci dicono essere vissuto tra il 1860 e il 1925, divenuto famoso nella Roma umbertina, soprattutto per il suo turpiloquio e i suoi modi sfrontati, che lo portarono spesso ad essere il protagonista di memorabili e pittoresche liti, finite anche in tribunale. Dato che i conti Bennicelli si erano arricchiti con il commercio del legname, i romani lo avevano soprannominato per l’appunto “tacchia”, cioè pezzo di legno.
Il conte Tacchia del film è invece di estrazione popolare, si chiama Francesco Puricelli ed è figlio di un falegname, interpretato da Paolo Panelli. È infatuato del bel mondo della nobiltà romana, che lui conosce grazie all’amicizia con il principe Terenzi, che ha il volto di Vittorio Gassman, un nobile ormai in decadenza e squattrinato, oltre che solo e senza amici né familiari, ma d’indubbia eleganza ed eloquio. Alla morte di questi, Puricelli riceverà in eredità i suoi titoli e il suo palazzo. Diviso fra due mondi, rappresentati simbolicamente anche dalle due donne, Fernanda la popolana ed Elisa la duchessina, da cui è attratto, il conte Tacchia si accorgerà presto della grettezza che si cela dietro a quel bel mondo, fatto di titoli e ricche casate. Creduto erroneamente morto, ne approfitterà dunque per fuggire in America con l’amata Fernanda, per rifarsi lì una nuova vita.
A differenza di altri film dal tema analogo (a partire dal prima citato “il marchese del Grillo”) le scene del conte Tacchia, sono realmente girate nei vicoli e nei palazzi di Roma. C’è il Foro di Traiano della passeggiata notturna di Gassman e Montesano, c’è la splendida Villa Medici, coi suoi giardini, oltre al laghetto di Villa Borghese, il Colosseo, Villa Pamphili, la piazzetta di Santa Maria della Pace, Porta San pancrazio. La villa dei conti Savello è Villa Giovanelli- Fogaccia, su via di Boccea, costruita su progetto dell’Architetto Marcello Piacentini e usata come location in numerosi film. La scena del duello è ambientata al Castello di Roccarespampani, a Monte Romano, in provincia di Viterbo. Gran parte delle scene si svolgono in piazza Capizzucchi, al centro di Roma, poco distante dal Ghetto. Nella piazza è collocata la bottega di falegname del protagonista e Palazzo Capizzucchi è il palazzo cinquecentesco, di proprietà prima del principe Terenzi e poi del conte Tacchia.
Suburra
L’opera di Stefano Sollima, del 2015, è tratta dall’omonimo libo, pubblicato due anni prima da Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, l’autore di “Romanzo Criminale”. Ispirata da reali fatti di cronaca degli anni immediatamente precedenti all’uscita nelle sale (la caduta del governo Berlusconi, le dimissioni di Papa Ratzinger, raccontate nel film), la pellicola presenta una Roma criminale e violenta, con strettissimi legami fra malavita e mondo della politica.
Mentre il Papa medita le dimissioni, a Ostia viene dato alle fiamme uno stabilimento balneare e a Roma viene ucciso un piccolo criminale, per ordine di Samurai, un boss superstite della banda della Magliana, la vicenda principale del film ha inizio con la morte per overdose di una prostituta minorenne, durante un festino organizzato da Filippo Malgradi, interpretato da Pierfrancesco Favino, un parlamentare amico, fin dai tempi degli anni di piombo, di Samurai, che sullo schermo ha il volto di Claudio Amendola. Per occultare il cadavere della ragazza verrà chiamato Spadino, un malavitoso affiliato a un clan di zingari di Roma est. Questo episodio scatenerà una serie di ricatti, con feroci lotte fra bande rivali e dure pressioni sul mondo politico, per fare approvare una legge sulle periferie che permetterebbe la realizzazione di un progetto chiamato Waterfront, una grande speculazione edilizia, ideata per trasformare Ostia in una sorta di Las Vegas nostrana. Nonostante tutti gli sforzi, l’improvvisa caduta del governo manderà provvisoriamente in fumo il piano.
Nonostante si tratti di un’opera di fantasia, sono chiari i rimandi alle vicende narrate in quegli anni da giornali e tv, quelle relative al clan dei Casamonica e a quello degli Spada, oltre agli intrighi fra palazzi della politica, malavita, escort e droga, di cui abbiamo raccontato anche in alcuni nostri articoli. Il film ha avuto un buon successo di pubblico, all’uscita nelle sale, tanto da ispirare la creazione di una omonima serie TV, a tutt’oggi in programmazione su Netflix.
Numerosi sono i luoghi e le zone di Roma ben riconoscibili nella pellicola. Si va dalla Casina Valadier, al bar “La mela stregata” di piazza Pasquale Paoli, dal centro di via del Babuino e piazza sant’Andrea della Valle, alla via Tiburtina del “Dubai Cafè”, al bar del benzinaio Eni sulla via Salaria, all’altezza della zona dei concessionari, che nel film funge da ufficio di Samurai. Lo stabilimento di Ostia, che fa da location in diverse scene, è infine “La vecchia pineta”.
Febbre da cavallo
Il film di Steno, del 1976, è diventato uno dei cult della commedia all’italiana, con gli indimenticabili personaggi del Pomata e di Mandrake, alias Enrico Montesano e Gigi Proietti, due amici appassionati di corse ippiche, cialtroni e truffaldini, incapaci di vincere qualunque scommessa, anche quando hanno in mano i nomi dei cavalli vincenti, come quelli degli oggi quasi proverbiali cavalli: Soldatino, King e D’Artagnan. È una pellicola che, curiosamente, ottenne tiepidi incassi e scarso apprezzamento, all’epoca della sua uscita, ma poi, negli anni, grazie ai molteplici passaggi nelle TV locali e nazionali, è diventato uno dei più famosi e amati film comici nazionali, con schiere di appassionati che ne citano a memoria tutte le battute. Tanto che, nel 2002, è stato girato anche un sequel: “Febbre da cavallo, la mandrakata”, diretto da Carlo Vanzina, il figlio di Steno, con Proietti e Montesano a riprendere i propri ruoli.
La storia, per chi non la conoscesse, racconta le vicende di un gruppo di amici con la passione per le scommesse ippiche, sempre pronti a inventare stratagemmi e raggiri di ogni genere, pur di raggranellare il denaro necessario per la loro costosa e fallimentare passione. La sfortuna e l’imperizia li portano però a indebitarsi, nonostante Gabriella, alias Catherine Spaak, nel film moglie di Mandrake, avesse loro suggerito i cavalli poi risultati vincenti, ma su cui, per spavalderia, non avevano puntato. Vergognandosi di confessarlo, decidono allora di inventare una grossa e assurda truffa per truccare una corsa. La passione del gioco, l’ossessione per le scommesse e per il rischio, le truffe e le guasconate, sono incorniciate da una Roma scalcagnata, popolata da improbabili e simpatiche figure, quasi da fumetto. Come disse Nikki Gentile, l’attrice americana interprete di un ruolo minore nel film, quello di Mafalda: “Febbre da cavallo è Roma, semplicemente Roma! C’è tutta Roma in quel film”.
Interamente girato nella Capitale, soprattutto nella zona di piazza d’Aracoeli, dove Gabriella gestisce il Gran Caffè Roma (un locale tuttora esistente) e quella di piazza Margana, al Ghetto, dove si trova la casa del Pomata. La scena all’ospedale, sempre con il Pomata, è ripresa al Fatebenefratelli, sull’isola Tiberina. La famosa sequenza dello spot del whisky Vat 69, l’immortale “whisky maschio senza rischio”, è girata invece di fronte alla chiesa di San Girolamo degli Schiavoni, in via di Ripetta, a due passi dall’Ara Pacis. Tutte le scene nei vari ippodromi presenti nel film, sono girate interamente all’ippodromo di Tor di Valle. Anche le scene nella stazione ferroviaria di Napoli sono state effettuate a Roma, alla stazione Termini. Infine, la sequenza in cui l’auto di Mandrake si ferma senza benzina, è girata sulla via Ostiense, nei pressi di Tor di Valle.
Inferno
È una Roma horror e inquietante quella che appare nel film del 1980 “Inferno”, diretto dal maestro indiscusso del genere, Dario Argento e girato in inglese. Con le musiche di Keith Emerson e l’interpretazione di una giovane Eleonora Giorgi, oltre all’immancabile Daria Nicolodi (moglie del regista romano), “Inferno” prosegue una trilogia, iniziata alcuni anni prima con il film “Suspiria” e conclusa, molti anni dopo, con “La terza madre”. Tra le interpreti della pellicola c’è anche l’affascinante e misteriosa Ania Pieroni, nome che oggi non dice quasi nulla ai più, ma che all’epoca fu spesso in prima pagina nelle cronache scandalistiche, a causa di una sua chiacchierata relazione con Bettino Craxi.
La storia narrata, parte dal ritrovamento de “Le tre madri”, un antico libro, scritto da un misterioso architetto e alchimista. L’autore pare avesse conosciuto personalmente le tre madri dell’Inferno: Mater Suspiriorum (Madre dei Sospiri), Mater Lacrimarum (Madre delle Lacrime) e Mater Tenebrarum (Madre delle Tenebre) e per loro costruì tre dimore: una a Friburgo, una a Roma e una a New York. La vicenda si snoda dunque fra New York, dove, proprio in quella che potrebbe essere la dimora della Mater Tenebrarum, vive la giovane poetessa Rose Elliot e Roma, dove suo fratello Mark, che ha stretto amicizia con la bella Sara, studia musica in conservatorio. Fra apparizioni di cadaveri, spiriti infernali, morti misteriose, il racconto si conclude con l’incendio della dimora newyorkese, in cui, con le fiamme, vanno in fumo anche i mille segreti lì custoditi.
Un film ricco di spiriti e presenze misteriose come questo, non poteva che trovare la sua location ideale nel Quartiere Coppedè, un luogo di Roma che, anche senza bisogno delle immagini di Dario Argento, sembra uscire da un libro di fiabe o da un racconto gotico di fine ottocento. A piazza Mincio è ambientato l’esterno della biblioteca in cui Sara (Eleonora Giorgi) cerca il libro delle tre madri. L’interno è invece girato nell’affascinante Biblioteca Angelica di piazza Sant’Agostino, in pieno centro storico. Il bel palazzo dove vive la Giorgi è in via Po, mentre l’aula del conservatorio frequentata da Mark, è in realtà l’aula magna dell’ospedale odontoiatrico George Eastman, a Viale Regina Elena. Una curiosità è che anche la New York vista nel film è ricreata quasi interamente a Roma, sempre nella zona adiacente il Coppedè, oltre che negli studi di Cinecittà.
Squadra antifurto
Questo è il secondo di una fortunata serie di film, girati da Bruno Corbucci, che hanno per protagonista il maresciallo Nico Giraldi, quello che molti, erroneamente, definiscono “Er Monnezza”. Interpretato da Tomas Milian, con l’inconfondibile voce del noto doppiatore Ferruccio Amendola, Nico Giraldi è l’eroe popolare di numerose pellicole, uscite tra il 1976 e il 1984: un ex ladro di Tor Marancia, divenuto prima maresciallo della Polizia di Stato, poi ispettore. Nico assomiglia enormemente a un altro personaggio cinematografico, quello chiamato Er Monnezza, per l’appunto, ma non è da confondere con quest’ultimo. Hanno lo stesso look, lo stesso interprete, lo stesso doppiatore, ma non sono la stessa persona. Infatti Er Monnezza, soprannome di Sergio Marazzi, è un ladro collaboratore di giustizia, mentre Nico è un ex ladro diventato poliziotto. Er Monnezza è apparso in soli tre film, tutti girati tra il 1976 e il 1977, mentre Nico Giraldi in ben undici. Ad alimentare ulteriormente la confusione fra i due personaggi, è stato anche un sequel uscito nel 2005 e interpretato da Claudio Amendola, figlio di Ferruccio, intitolato “Il ritorno del Monnezza”, in cui il protagonista vestiva i panni del figlio di Nico Giraldi, ma veniva soprannominato appunto Er Monnezza, come se i due diversi personaggi interpretati da Tomas Milian, fossero in realtà un personaggio solo.
Reso famoso dal suo fare scanzonato e popolare e dal suo linguaggio greve, il maresciallo Giraldi si accompagna spesso a un ladruncolo soprannominato “Venticello”, che gli fa da informatore, interpretato da Bombolo, nome d’arte di Franco Lechner. È proprio in questo film che quel personaggio fa la sua comparsa, anche se in “Squadra antifurto” il suo soprannome non è ancora quello di Venticello, ma viene chiamato Er Trippa. Ed è proprio in questa pellicola che ha luogo una delle scene più note, fra tutte quelle che hanno avuto per protagonisti Bombolo e Tomas Milian: quella al ristorante, quando Bombolo chiede impaziente “Ma allora ariva ‘sta pizza?” e ne riceve in risposta un sonoro sganassone da parte di Giraldi. Narra la leggenda che il copione originale prevedesse la battuta “Ma allora ariva ‘sta pastasciutta?” ma fu Bombolo a suggerire la modifica e a inventare la gag.
Roma, presente già nel caratteristico tono di voce, fortemente romanesco, di Nico Giraldi, appare come protagonista della pellicola fin dai titoli di testa del film, in cui si vede una banda di criminali, che verrà poi sgominata dal maresciallo, compiere furti e rapine in varie zone del centro storico. Altre scene sono girate al Testaccio, al Quartiere Coppedè, a Prati, alle Capannelle, alla fornace di Castel Giubileo e in una bella villa della Bufalotta, su via della Marcigliana, che è stata anche la location di numerosi altri film, girati tra gli anni settanta e ottanta. Il ristorante dell’incontro con Bombolo e della famosa “pizza”, è tuttora esistente e si trova nei pressi della diga sul Tevere che è all’altezza di Castel Giubileo.
Il Divo
La biografia di un Giulio Andreotti interpretato da Toni Servillo, messa in immagini nel 2008 da Paolo Sorrentino, è forse il film che meglio di ogni altro ci presenta uno degli aspetti più noti della Capitale, ma anche quello più criticato e dileggiato: la Roma che vive attorno ai palazzi del potere, la Roma della politica. Il titolo completo della pellicola è “Il Divo, la spettacolare vita di Giulio Andreotti” e prende spunto dal soprannome che fu dato ad Andreotti dal giornalista Mino Pecorelli, che a sua volta si ispirò alla figura di Giulio Cesare, ovvero il Divo Giulio.
Il film ci presenta l’ultimo momento di gloria del pluri-presidente del consiglio scomparso nel 2013, cioè il periodo che va dal 1991 al 1993, dall’incarico a formare il suo settimo e ultimo governo, all’inizio del processo a suo carico per collusioni con la mafia. In mezzo, i momenti cruciali del tentativo di elezione alla carica di Presidente delle Repubblica, stoppato dagli attentati mafiosi degli anni novanta e dallo scandalo di Mani Pulite, che travolgerà tutta la classe dirigente italiana e ridisegnerà il quadro politico nazionale, dal quale verranno estromessi i big che per quasi cinquant’anni avevano governato la penisola.
Tra gli spettatori di questo film ci fu lo stesso Giulio Andreotti, che (come riportato dal quotidiano La Repubblica, in un articolo del maggio 2008) così commentò l’opera: “È molto cattivo, è una mascalzonata, direi. Cerca di rivoltare la realtà, facendomi parlare con persone che non ho mai conosciuto”. La risposta del regista Sorrentino arrivò dalle colonne di Liberazione: “Andreotti ha reagito in modo stizzito e questo è un buon risultato, perché di solito lui è impassibile di fronte a ogni avvenimento. La reazione mi conforta e mi conferma la forza del cinema rispetto ad altri strumenti critici della realtà”.
La Roma presentata nel film parte dalla centralissima via del Corso, percorsa dal protagonista durante una sua passeggiata notturna e da piazza San Lorenzo in Lucina, nella quale Andreotti aveva realmente il suo studio, per poi presentare numerosi scorci della città storica, da Sant’Ivo alla Sapienza, all’Appia Antica, dove è la villa in cui si svolge la cena fra i rappresentanti politici della corrente andreottiana. Diverse scene sono però girate a Torino, a Napoli e a Gressoney, in Valle d’Aosta.
In nome del Papa Re
Film realizzato da Luigi Magni nel 1977, fa parte della trilogia di opere che il regista ha dedicato ai momenti salienti del risorgimento romano. La pellicola è ispirata dal romanzo “I misteri del processo Monti e Tognetti”, a sua volta basato sui reali accadimenti storici relativi all’ultima condanna a morte comminata dal potere temporale di Papa Pio IX, tre anni prima dell’arrivo dei bersaglieri a Porta Pia. Protagonista assoluto del film è Nino Manfredi, nelle vesti del gesuita monsignor Colombo.
La vicenda è ambientata sul finire del 1867, quando a Roma avviene un atto di terrorismo, un attentato dinamitardo, che fa esplodere la caserma Serristori, nell’attuale via della Conciliazione (il palazzo in cui aveva sede la caserma esiste ancora oggi, essendo uno dei pochi della zona ad essere sopravvissuto alle demolizioni avvenute negli anni trenta del novecento), facendo perdere la vita a oltre venti zuavi francesi, posti a difesa dello Stato Pontificio. La contessa Flaminia, madre segreta del rivoluzionario Cesare Costa, accusato, insieme ai compagni Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, di aver compiuto la strage, si rivolge allora a un giudice della Sacra Consulta, monsignor Colombo da Priverno, il personaggio interpretato da Manfredi, confessandogli che lui è il vero padre dell’arrestato, poiché il ragazzo è nato a seguito di una fugace relazione avuta diversi anni prima. Il prelato riuscirà a liberare suo figlio, ma non riuscirà a intervenire a favore degli altri due imputati, che verranno condannati a morte dal tribunale ecclesiastico, nonostante la sua accorata arringa in loro difesa.
La grande contraddizione di questo film, che, forse ancora meglio delle altre pellicole storiche di Luigi Magni, ricostruisce con sapienza le atmosfere della Roma della seconda metà dell’ottocento, le sue contraddizioni, la sua decadenza e i suoi sogni, è che si tratta di un’opera girata interamente in Toscana. La Roma ottocentesca ricostruita da Magni, è infatti, nella realtà, Montepulciano, in provincia di Siena. Lì c’è Palazzo Ricci, dove vive monsignor Colombo e sempre lì sono stati girati tutti gli esterni del film. Tra le chicche della pellicola, c’è da notare la presenza di Rosalino Cellamare, in arte Ron, nella parte di Gaetano Tognetti, in una delle rare apparizioni del cantante nelle vesti di attore. Le musiche, come in quasi tutti i film di Magni, sono firmate da Armando Trovajoli.
Gli indifferenti
Diretto da Francesco Maselli nel 1964, basato sull’omonimo romanzo di Alberto Moravia, con un prestigioso cast internazionale, di cui fanno parte Rod Steiger, Claudia Cardinale, Shelley Winters, Paulette Goddard, Tomas Milian, il film è ambientato in una grigia Roma degli anni venti e narra le vicende di Leo Merumeci, un determinato uomo d’affari, che assiste e in parte provoca il disfacimento della prestigiosa famiglia borghese degli Ardengo, in un clima cupo, denso di rancori mal sopiti, difficoltà economiche, riti sociali, ipocrisie, intrighi e tradimenti erotici e amorosi, noia e solitudine.
Nonostante il cast stellare, il film non riscosse un particolare successo, né di pubblico, né di critica, al momento della sua uscita. L’opera cinematografica, infatti, non riusciva, né a fornire un’accurata ricostruzione storica dell’epoca in cui è ambientata la vicenda, quello della crisi di un vecchio mondo e dei vecchi valori, che verranno sostituiti dal nuovo clima del ventennio fascista, né ad attualizzare i temi del romanzo di Moravia. Un buon consenso ottenne però lo staff tecnico, in particolare la fotografia di Gianni Di Venanzo, grazie alla capacità di lavorare in set difficili, ricreati non in studio, bensì nei veri ambienti in cui venivano narrate le vicende e dunque spesso con una luce scarsa, che poteva risultare insufficiente rispetto alla tecnologia dell’epoca.
A proposito degli ambienti, la sontuosa villa, set principale del film, in cui vive la famiglia Ardengo, quella che viene ipotecata per una delicata situazione finanziaria e su cui cercherà di mettere le mani Leo Merumeci, è Villa Centurini, una villa dei Parioli, attualmente sede dell’Ambasciata di Bulgaria a Roma. In questa struttura sono stati girati non solo gli esterni, ma anche gran parte degli interni, sfruttando i suoi sontuosi e ampi saloni di rappresentanza. Altre scene sono girate invece alla Casina Valadier di Villa Borghese.
Uccellacci e uccellini
È il film con il quale il regista Pier Paolo Pasolini, che ha sempre considerato questa come la propria migliore opera cinematografica, fa scoprire le qualità drammatiche di un attore fino ad allora considerato di Serie B, come Totò, oltre a rendere noto al grande pubblico Ninetto Davoli, altro interprete della pellicola. La storia è semplice e al tempo stesso visionaria: Marcello, cioè Totò, insieme a suo figlio Ninetto, sta vagando per la periferia di Roma. Durante il cammino i due incontrano un corvo parlante, che narra loro la strana storia di Ciccillo e Ninetto, personaggi sempre interpretati da Totò e Ninetto Davoli, dei frati medievali, ai quali San Francesco in persona aveva ordinato di evangelizzare i falchi e i passeri.
Dopo l’intermezzo del racconto, il viaggio di Totò e Ninetto prosegue, mentre il corvo li segue a breve distanza e continua a parlare con loro, usando toni moralistici e altisonanti. I due protagonisti avranno vari incontri durante il loro viaggio, in contesti sempre più surreali. Dopo essere stati anche ai funerali di Palmiro Togliatti e aver conosciuto una simpatica prostituta, alla fine del loro girovagare, Totò e Ninetto, stanchi delle chiacchiere fastidiose e saccenti del corvo, lo uccidono per mangiarselo arrosto.
Gran parte del film è girato alla periferia di Roma, soprattutto nella zona del Trullo e in quella di Torre Angela. Il viadotto su cui i due protagonisti passeggiano in una delle scene, è lo svincolo dell’Autostrada Roma-Fiumicino. Se il casale di contadini in cui Totò e Ninetto Davoli si recano per riscuotere l’affitto, è una villa oggi in rovina, Villa Koch, in via del Fosso di Papa Leone alla Magliana, al contrario, il casale, che all’epoca appariva fatiscente, da cui altri contadini sparano ai protagonisti, in via Idrovore della Magliana, è stato oggi ristrutturato ed è sede di un ristorante. Le scene con la prostituta sono girate nei pressi delle piste dell’Aeroporto di Fiumicino, mentre la chiesa dei frati Ciccillo e Ninetto, che appare nel racconto del corvo, è a Tuscania, in provincia di Viterbo. Le musiche del film sono firmate da Ennio Morricone, con la voce di Domenico Modugno a interpretare i brani di apertura e di chiusura della pellicola.
Il medico della mutua
Film del 1968, diretto da Luigi Zampa, con una memorabile interpretazione di Alberto Sordi, che darà vita alla maschera del dottor Guido Tersilli, successivamente protagonista anche di altre pellicole. Commedia all’italiana e satira di costume contro il sistema sanitario dell’epoca, narra le vicende di un neo laureato in medicina che, sulla spinta della madre di cui è succube, inizierà una cinica e alla fine produttiva ricerca senza quartiere di nuovi pazienti, che lo porterà ad arricchirsi e, contemporaneamente, a perdere ogni spinta ideale, tradendo le più elementari regole della deontologia professionale. Per ottenere questo non si farà scrupolo di tradire la sua fidanzata, di fingersi innamorato di una matura vedova (interpretata da una bravissima Bice Valori), iniziando nel frattempo una tresca con la bella compagna di un suo collega.
Le location di questo film, interamente girato a Roma, ben rappresentano quelle zone delle città simbolo dello sviluppo avuto dalla Capitale durante gli anni ’60. Se le immagini della cupola di San Pietro, che si vedono durante la corsa di un’ambulanza, sono riprese in Via Piccolomini, una strada nota ai romani per il curioso effetto ottico che vede allargarsi la cupola via via che ci si allontana, molte scene sono girate all’Eur presso il palazzo dell’INPS. C’è poi il Don Orione sulla Camilluccia, che è l’ospedale San Servolo dove Tersilli inizia la carriera. Il primo studio del dottore, come si vede dall’inquadratura della strada che Tersilli osserva dalla finestra, è tra via Monte Cervialto e piazza Vimercati, al Nuovo Salario. Sempre al Nuovo Salario, in via Cesare Fani, è anche lo studio dove Tersilli ha un malore. A Viale Mazzini, vicino alla RAI, è girata la scena dei funerali, mentre il quartiere in cui Tersilli va a fare in vespa una delle sue prime visite, tra le baracche, è il Quadraro. Infine, la terrazza dove un Tersilli ormai ricco, nelle ultime scene del film, fa le sue visite al telefono, è nella zona di Collina Fleming, per la precisione in via Bartolomeo Gosio.
Tra le curiosità della pellicola, la colonna sonora, con la nota marcetta che fu riutilizzata anche nel sequel “Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue” e che spesso accompagna in sottofondo i documentari rievocativi sulla vita e la carriera dell’attore romano Alberto Sordi, è firmata da Piero Piccioni, il musicista divenuto, suo malgrado, molto noto sul finire degli anni Cinquanta, quando venne accusato di essere l’autore dell’omicidio di Wilma Montesi, una giovane trovata morta sulla spiaggia di Capocotta. Accusa da cui venne, in seguito, prosciolto con formula piena.
Poveri ma belli
Diretto da Dino Risi nel 1957, è il primo di una serie di film, che farà nascere un vero e proprio filone comico-romantico, che ebbe un buon successo sul finire degli anni cinquanta. Previsto inizialmente con la produzione di Carlo Ponti e l’interpretazione di Walter Chiari, Ugo Tognazzi e Sophia Loren, fu invece prodotto dalla Titanus, con protagonisti Maurizio Arena, Renato Salvatori e Marisa Allasio.
La vicenda è ambientata a Roma: Romolo e Salvatore sono due bei giovani, di estrazione popolare, vicini di casa fin da bambini. Romolo fa il commesso nel negozio di dischi dello zio. Salvatore è il bagnino di uno stabilimento sul Tevere. Entrambi corteggiano tutte le ragazze che capitano a tiro. All’insaputa l’uno dell’altro, entrambi cominciano a fare la corte a Giovanna, splendida commessa di un negozio di sartoria. Giovanna gioca con i due amici, dispensando baci all’uno e all’altro, creando così una rivalità, che inizia a mettere in crisi la vecchia amicizia fra i due vicini di casa. Dopo alterne vicende e alterni successi, Giovanna si rende conto di essere ancora innamorata del suo ex e decide di mollare entrambi. È a quel punto che Romolo e Salvatore si accorgono dell’amore provato nei loro confronti dalle rispettive sorelle. Salvatore s’innamorerà della sorella di Romolo e Romolo di quella di Salvatore.
Il film è quasi interamente girato al centro di Roma, tra piazza Navona, dove abitano Romolo e Salvatore, a via della Pace, a Piazza in Piscinula. Il ponte da cui Salvatore finge di buttarsi nel fiume è l’allora nuovissimo e monumentale ponte Flaminio, quello da cui parte Corso Francia; mentre lo stabilimento sul Tevere “Il Ciriola”, sotto ponte Sant’Angelo, dove lui lavora, è realmente esistito e risultava visibile fino all’inizio degli anni novanta, quando affondò definitivamente, durante una piena del Tevere.
Scusate se esisto
La commedia del 2014, diretta da Riccardo Milani, con Paola Cortellesi e Raoul Bova, riprendendo la migliore tradizione della commedia all’italiana, racconta in modo scherzoso e divertente alcune attuali questioni sociali: dalla cosiddetta fuga dei cervelli, ai pregiudizi nei confronti delle donne e degli omosessuali, alle problematiche legate all’edilizia popolare romana, in un classico gioco degli equivoci, che però porterà all’altrettanto classico lieto fine. Serena (Paola Cortellesi) è una brillante architetta, nata in Abruzzo ed emigrata a Londra, che decide di ritornare a lavorare in Italia, a Roma. Qui conosce Francesco (Raoul Bova), gay e divorziato, con il quale nasce una forte amicizia. Serena si accorge ben presto che, per una donna, ottenere un posto di lavoro degno della sua qualifica si rivela difficile e quindi, per realizzare un progetto di riqualificazione del quartiere di Corviale, decide di farsi passare per uomo.
Al di là dei divertenti sketch, il vero protagonista della pellicola è dunque il quartiere di Corviale, a Roma, la sua struttura architettonica, la sua difficile e potenzialmente esplosiva situazione sociale. Il film è infatti ispirato da un vero progetto per la riqualificazione di quell’enorme palazzo-quartiere su via Portuense, ideato dell’architetta italiana Guendalina Salimei. L’architetta, nel 2009, vinse il concorso per la trasformazione di Corviale, con un’idea di recupero degli spazi del terzo, quarto e quinto piano, che erano stati pensati originariamente come luoghi per negozi, studi professionali e botteghe artigianali, ma che sono rimasti fin da subito privi di servizi e poi occupati abusivamente già dagli anni ottanta. Il progetto ne prevede una completa rinascita, con modifiche delle divisioni degli spazi e l’inserimento di verde e giardini, ma a tutt’oggi è rimasto ancora irrealizzato.
Oltre a Corviale, il film è girato in diverse zone della Capitale. Nel Da Vinci Center, sulla Roma-Fiumicino, sono collocati gli uffici in cui la protagonista va a lavorare. Tra Fidene e Serpentara, in via Giuseppe De Marini, è invece la sua abitazione. Quella di Raoul Bova è in una zona ben più ricca, come il quartiere Trieste, in piazza San Saturnino, dove è anche, in piazza Caprera, il ristorante di cui nel film risulta essere il proprietario. Le scene ambientate in Abruzzo, sono infine girate a Pescasseroli.
Roma violenta
Il film, del 1975, è il primo della serie di pellicole che vede come protagonista il commissario Betti, interpretato da Maurizio Merli, un personaggio destinato a diventare l’icona di un genere cinematografico molto amato nell’Italia degli anni settanta. Parliamo di quello che verrà definito il poliziottesco, o anche poliziesco all’italiana, un genere che, prendendo spunto da fatti di cronaca nera, raccontava storie ricche di sparatorie, inseguimenti in auto, indagini svolte da poliziotti integerrimi, spesso incompresi dai propri superiori, generosi, ma anche spicci e violenti quasi quanto i malfattori contro i quali combattono. A dirigere “Roma violenta” è Marino Girolami, all’epoca noto per avere girato numerose commedie erotiche all’italiana, che decise di firmare questa pellicola con lo pseudonimo di Franco Martinelli, ritenendo che il suo vero nome non fosse adatto, poiché rimandava troppo ai suoi precedenti film di genere boccaccesco.
Il film racconta una Roma infestata dalla criminalità, in cui rapine e omicidi sono all’ordine del giorno, in cui si spara e si uccide anche per motivi futili. Il commissario Betti tenta in ogni modo di contrastare i criminali, riuscendo a consegnarne diversi alla giustizia, ma si rende anche conto che, seguendo le regole, ha spesso le mani legate e non potrà ottenere nessun risultato duraturo. Per questo, dopo varie vicende e dopo essere anche stato incriminato per i suoi metodi troppo spicci, decide di lasciare la polizia e di aderire a un gruppo di vigliantes privati, che vegliano sulla città. Con questo gruppo sgomina, uccidendoli, diversi malviventi, riuscendo però a evitare un’ulteriore incriminazione, poiché gli viene riconosciuta la legittima difesa. Ma un suo ex collega, il brigadiere Biondi, lo porterà a riflettere sul fatto che questa giustizia privata è, a suo modo, un’altra forma di delinquenza, lasciandolo tra dubbi e pensieri.
Fin dalla prima scena, ambientata su un bus tra Porta Pinciana e piazzale Flaminio, Roma, come d’altronde viene suggerito dal titolo, è la principale protagonista della storia. E Roma apparirà ovunque. La scena della rapina al supermercato è girata in via Casilina. L’inseguimento che segue è invece una sorta di tour della città, che attraversa l’EUR, la vecchia Fiera di Roma sulla Cristoforo Colombo, le Mura Aureliane, la Basilica di San Giovanni e persino la Tangenziale Est, nonostante all’epoca delle riprese fosse ancora chiusa al traffico pubblico. Altre scene del film si svolgono in zona Laurentina, in via di Vigna Murata, in Piazza Mincio, oltre che in centro. Insomma, in questa pellicola, quasi tutta Roma è toccata, come a dire che tutta la città è attraversata da quella “violenza” indicata nel titolo del film.
Umberto D.
La storia toccante di “Umberto D”, girata nel 1952 da Vittorio De Sica, è uno dei massimi capolavori del neorealismo italiano, assieme al suo “Ladri di biciclette” e a “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. La vicenda, ambientata nella Roma post bellica, ma che potrebbe risultare anche molto attuale, dati gli stravolgimenti economici e sociali che si prevedono per l’attuale periodo pandemico, narra di un ex funzionario ministeriale, Umberto Domenico Ferrari, appartenuto per decenni a una classe medio borghese, impoveritosi nel periodo del conflitto e costretto ora a recarsi alla mensa dei poveri per poter sopravvivere. È anche minacciato di sfratto e, per poter pagare l’affitto, si trova a vendere il suo orologio e alcuni libri.
Anziano e solo, le sue uniche compagnie sono quella del suo cane Flaik e di una servetta dolce e comprensiva, interpretata da una esordiente Maria Pia Casillo, che diverrà famosa negli anni cinquanta, grazie alle sue successive caratterizzazioni in film come “Pane amore e fantasia” o “Un americano a Roma”. Umberto, in giro per la città, non trova altra via che quella di chiedere l’elemosina, ma la sua dignità gli impedisce di farlo. Intanto la proprietaria di casa ha deciso di sfrattarlo. Disperato, Umberto medita il suicidio. Ha intenzione di gettarsi sotto un treno, ma sarà proprio Flaik a intuire il progetto e a impedirglielo.
All’uscita nelle sale il film, osannato dalla critica, fu accolto tiepidamente dal pubblico, che non amava vedere raffigurate sullo schermo le proprie paure e miserie. Anche Giulio Andreotti, all’epoca sottosegretario allo spettacolo, criticò la pellicola, scrivendo sulla testata Libertà: “Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che, se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale”. Il film è quasi interamente girato al centro di Roma e nella zona della Stazione Termini, da Piazza della Minerva a via San Martino della Battaglia, da via Flaminia a via Cernaia, a Porta Portese. Solo la scena del treno è girata invece nella stazione di Palo Laziale.
L’ingorgo
Il film, diretto nel 1978 da Luigi Comencini, ispirato da un racconto di Julio Cortazar, racconta la scena apocalittica di un colossale ingorgo stradale che paralizza la Capitale per giorni. Tra le macchine ferme nel traffico, si incrociano le vicende di persone diversissime fra loro, costrette a interagire dalla situazione, in un gioco di relazioni che dimostra, via via, col passare delle ore, un progressivo e inesorabile abbrutimento generale. Interpretato, tra gli altri, da Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli, Gianni Cavina, il film vanta un cast di valore internazionale, con la presenza di Fernando Rey, Gerard Depardieu, Annie Girardot, Patrick Dewaere, Miou-Miou e una giovanissima ed esordiente Angela Molina.
L’ingorgo in cui restano intrappolate le auto, si presenta come una chiara metafora della paralisi sociale e politica in cui pare essere sprofondata la società e la città di quegli anni, accentuata dalla presenza, accanto alla strada, di un grande sfasciacarrozze, simbolo di decadenza e di morte. Questo è lo scenario nel quale si muovono i personaggi, tra cui troviamo: un ricco e bene introdotto imprenditore, una giovane hippie, un attore piuttosto famoso, alcune coppie in crisi, una litigiosa famiglia napoletana, un gruppo di delinquenti e dei giovani di buona famiglia.
Durante la giornata, tutti finiscono per rivelare i propri caratteri e anche le proprie meschinità. L’imprenditore, che si proclama generoso e di idee socialiste, si tira indietro alla prima richiesta di aiuto. All’interno della famiglia napoletana la ragazza più grande è incinta e il padre insiste per farla abortire. Mentre l’attore viene riconosciuto e ospitato da una coppia che vive in un casolare vicino alla strada, la hippy fraternizza col giovane conduttore di un furgone. Col trascorrere delle ore la situazione, però, degenera ed esplodono rabbia, violenza, sopraffazione, rancori. Il culmine si ha durante la notte, quando l’autista del furgone viene tramortito dai giovani di buona famiglia e la ragazza hippy violentata, mentre il gruppo di delinquenti, che assiste alla scena, decide di non muovere un dito. Trascorse ventiquattr’ore, un altoparlante da un elicottero invita gli automobilisti a riaccendere i motori. Quando però cala una nuova notte, nessuna delle macchine è ancora riuscita a ripartire.
Apparentemente ambientato sul tratto di Appia che si immette nel Raccordo Anulare, il film, in realtà, è interamente girato a Cinecittà, in parte nella zona che in seguito verrà occupata dal centro commerciale Cinecittà Due, la maggior parte all’interno degli studi cinematografici, dove sono stati ricostruiti la strada, una stazione di servizio, lo sfasciacarrozze, una fabbrica e il casolare dove viene ospitato l’attore, che ne ricorda uno realmente presente nelle adiacenze di via Appia Pignatelli.
Boccaccio ’70
“Boccaccio ’70” è un film a episodi del 1962, diretto da quattro grandi maestri del cinema italiano: Vittorio De Sica, Federico Fellini, Mario Monicelli e Luchino Visconti. Quattro episodi tutti a tema “boccaccesco”, cioè incentrati sull’eros, narrato dai vari autori in una comune chiave ironica. Curiosamente, come è possibile vedere anche dal trailer internazionale qui pubblicato, nell’edizione per l’estero della pellicola, venne escluso l’episodio girato da Monicelli, tanto che gli altri tre registi, per protesta, si rifiutarono di recarsi al Festival di Cannes, al quale erano stati invitati a presentare il film.
Se né l’episodio di Visconti, intitolato “Il lavoro”, con una sensuale Romi Schneider che pretende dal marito il pagamento delle proprie prestazioni sessuali, per punirlo dei suoi tradimenti, né quello di De Sica, intitolato “La riffa”, con una esplosiva Sophia Loren, che è il premio in palio in una lotteria di paese, né quello di Monicelli, intitolato “Renzo e Luciana”, che racconta di una coppia di sposini impossibilitati a fare l’amore per via dei diversi turni di lavoro, hanno alcun legame evidente con Roma, nell’episodio girato da Federico Fellini, intitolato “Le tentazioni del dottor Antonio” e interpretato da Peppino De Filippo e Anita Ekberg, Roma è protagonista assoluta della vicenda, non solo nelle architetture dell’Eur, che fungono nel film da straniante scenografia metafisica, quasi come in un quadro di De Chirico, ma anche nella rappresentazione dei palazzi della politica, del clero, di un sottobosco amministrativo, ricco di uno spirito ipocritamente censorio, che all’epoca risultava ancora predominante in città e nel paese.
“Le tentazioni del dottor Antonio”, piccolo capolavoro d’ironia del maestro riminese, è il racconto di quella Roma bacchettona dei primi anni sessanta, ma anche dei cambiamenti in atto nel comune senso del pudore. E’ inoltre un film autoironico, che, sotto metafora, prende in giro le peripezie con la censura vissute dal suo precedente film “La dolce vita”, di cui non a caso Fellini sceglie il simbolo erotico per antonomasia, per renderla protagonista anche di quest’opera: Anita Ekberg, detta “Anitona”.
La storia è quella di Antonio Mazzuolo, interpretato da Peppino De Filippo, un moralista puritano, davanti al cui appartamento viene montato un enorme cartellone pubblicitario che raffigura la Ekberg che pubblicizza i valori nutritivi del latte. “Bevete più latte” dice quella pubblicità e si sente anche cantare in sottofondo, nella canzone-tormentone del film. Antonio cerca di smuovere tutte le sue conoscenze e si reca da prelati e politici per fare eliminare quell’immagine licenziosa, ma, una notte, scopre di essere attratto sessualmente proprio da quella figura che egli vorrebbe censurare.
Anita Ekberg gli appare così, forse in un sogno, forse in un delirio, forse nella realtà, gigantesca come è nel cartellone, da cui si alza e prende vita, cominciando a camminare, a ridere, a parlargli, seducente, ammiccante, enorme, fra le strade e i palazzi dell’Eur, in una luce quasi irreale. “Anitona” (mai accrescitivo fu più azzeccato) è diventata ormai una sorta di meraviglioso Godzilla erotico, il più sensuale dei mostri, un mostro che Antonio vorrebbe scacciare e uccidere, ma da cui è anche irresistibilmente attratto.
L’oro di Roma
La pellicola diretta da Carlo Lizzani nel 1961, trae spunto dai reali e drammatici accadimenti avvenuti a Roma nell’ottobre del 1943, durante l’occupazione tedesca della città, che porteranno al rastrellamento del Ghetto. La vicenda ha inizio con l’ultimatum del comandante tedesco Kappler, che intima alla comunità ebraica di fornire entro 24 ore cinquanta chili d’oro, altrimenti duecento capifamiglia ebrei sarebbero stati presi in ostaggio dai nazisti. Nella comunità ebraica c’è subito chi si dà da fare per racimolare quanto richiesto, ma anche chi è scettico sull’affidabilità dei tedeschi, che probabilmente, anche se si raggranellasse tutto l’oro, non starebbero ai patti.
Con un cast che vede la presenza di diversi attori transalpini – si tratta infatti di una coproduzione italo-francese – come Gérard Blain e Jean Sorel, oltre ad Anna Maria Ferrero e Paola Borboni, la reale vicenda storica si intreccia nel film con le vicende private del giovane calzolaio Davide, che decide di unirsi alla lotta armata partigiana, e a quelle di sapore romantico di Giulia, innamorata del cattolico Massimo e decisa a sposarsi con lui, al punto da battezzarsi, ma che al momento cruciale, quando i tedeschi getteranno la maschera e rastrelleranno gli ebrei, sceglierà di non tradire le proprie radici e la propria gente, anche a costo del sacrificio personale.
Ovviamente le location del film sono tutte al centro storico della città, collocate soprattutto, dato il tema, nella zona del Ghetto ebraico, intorno alla Sinagoga di Lungotevere de’ Cenci, ma anche in altre aree cittadine come Piazza Navona, il Campidoglio, il Parco di Colle Oppio, via del Consolato, l’Isola Tiberina. Tra i limiti della pellicola, rivista con gli occhi di oggi, c’è forse un non perfetto lavoro dei costumisti e truccatori, che stentano a rendere il sapore anni quaranta in cui i fatti sono storicamente collocati, dando a tutti gli interpreti delle vaporose acconciature, probabilmente alla moda quando il film fu girato, ma che a vederle oggi fanno pensare più agli anni del boom economico, che a quelli dell’occupazione nazista di Roma, facendo perdere qualche punto di forza e di credibilità all’insieme.
Vacanze romane
L’immagine di Gregory Peck e Audrey Hepburn che girano in Vespa per il centro di Roma, è diventata ormai un’icona universale, che simboleggia la Città Eterna, quasi quanto il Colosseo o la cupola di San Pietro. Merito dell’enorme successo ottenuto dal film “Vacanze Romane” (titolo originale “Roman Holiday”), diretto nel 1953 da William Wyler e interamente girato a Roma, tra le vie del centro storico e gli studi di Cinecittà.
L’esile vicenda romantica che sorregge il film, è una sorta di favola di Cenerentola a ruoli invertiti, con la principessa Anna (Audrey Hepburn), erede al trono di un non meglio precisato stato, che, durante un suo viaggio diplomatico a Roma, decide di vagare per la città fuori dagli schemi dell’etichetta e finisce per incontrare Joe Bradley (Gregory Peck), un giornalista statunitense in viaggio di lavoro nella capitale italiana. Ne nasce un’amicizia sempre più affettuosa, che porterà i due a lunghe scorribande per le vie della Città Eterna. Una tenera amicizia che non verrà incrinata nemmeno dalla possibilità per il giornalista Joe, che nel frattempo aveva scoperto la vera identità della principessa, di vendere, con lauti guadagni per lui, il reportage della giornata con la principessa e le relative foto. Joe, anzi, rinuncerà a pubblicare tutto il materiale esclusivo in suo possesso, per non tradire la fiducia di Anna.
Al di là della storia, è proprio Roma, con il suo centro storico, che funge da vera protagonista del film. Una Roma tutto sommato rimasta inalterata nel tempo, come dimostra un video del 2011, montato dal cineamatore German Lopez, che affianca le immagini del film con quelle della Roma contemporanea, dimostrando che quasi nulla, da allora, pare essere cambiato nel cuore della città.
Quello che esce fuori dal film, è un vero e proprio giro turistico della capitale, quello stesso giro che un visitatore ancora oggi farebbe, una volta arrivato a Roma: Piazza Bocca della Verità, con la chiesa di Santa Maria in Cosmedin e le leggende sulla famosa “Bocca” di epoca romana, in cui i protagonisti infilano timorosi la mano, il Pantheon, Castel Sant’Angelo, la Fontana di Trevi, Piazza Venezia, Piazza di Spagna, dove Anna e Joe hanno uno dei loro romantici incontri, il Colosseo, Via Margutta, dove nel film è collocata la casa del giornalista, i Fori Imperiali, la Galleria Colonna, Palazzo Brancaccio, che funge da sede della principessa, per finire in via della Stamperia, dove nel film si trova il negozio del barbiere che taglia i capelli alla principessa Anna.
La profezia dell’armadillo
Diretto nel 2018 da Emanuele Scaringi, al suo lavoro di esordio, il film è ispirato dall’omonimo e parzialmente autobiografico racconto a fumetti di Michele Rech, in arte Zerocalcare, che figura anche fra gli sceneggiatori della pellicola. Il cast del film mixa sapientemente giovani poco noti e attori affermati come Laura Morante e Claudia Pandolfi, con alcuni divertentissimi cameo di personaggi come Adriano Panatta, che interpreta se stesso in una esilarante scena, ambientata all’aeroporto di Fiumicino.
Zero, il protagonista, interpretato da Simone Liberati, ha ventisette anni, vive nel quartiere di Rebibbia, è un bravo fumettista, ma non avendo un lavoro fisso si arrabatta con lavoretti precari. La sua vita scorre noiosa e senza prospettive, con giornate trascorse quasi interamente sui mezzi pubblici, attraversando mezza Roma per raggiungere i vari posti di lavoro, o per andare a visitare la madre, interpretata da Laura Morante. A tenergli compagnia nelle sue peripezie quotidiane, è l’amico d’infanzia Secco, di cui veste i panni Pietro Castellitto. Ma Zero ha anche un amico immaginario, che vive segretamente a casa sua: un armadillo parlante, sotto le cui squame si nasconde l’attore Valerio Aprea, che, con conversazioni spesso surreali, lo aggiorna sempre su cosa succede nel mondo. La morte dell’amica d’infanzia Camille, di cui Zero è sempre stato segretamente innamorato, lo porterà poi a riflettere più profondamente sulla propria vita e sul mondo.
Girato a Rebibbia, ma anche in diverse altre zone del centro e della periferia capitolina, Roma è molto presente nel film, con le sue immagini e le sue atmosfere; persino un filo troppo per chi romano non è, con alcune battute e riferimenti che potrebbero non essere colti appieno da chi non conosce a fondo la città. Tra le curiosità del film, Valerio Mastrandrea, un altro degli sceneggiatori dell’opera, doveva esserne originariamente anche il regista, prima che la scelta definitiva cadesse sull’esordiente Scaringi.
La decima vittima
Questo film di Elio Petri del 1965, con Marcello Mastroianni e Ursula Andress, è quasi un unicum nella storia del cinema italiano, dove il genere fantascientifico è pressoché inesistente. Ambientato in un futuro ipotetico e dispotico, è, sotto traccia, anche una critica feroce al sistema capitalistico e alla società delle immagini, di cui il regista profetizza sviluppi piuttosto inquietanti. Dopo un inizio ambientato a New York, è Roma la città che fa da sfondo alla vicenda, una città presentata con ambientazioni avveniristiche per gli occhi di uno spettatore degli anni sessanta, che, riviste oggi, ci rimandano invece all’arte optical in voga nel decennio in cui fu girato il film e con palazzi del futuro che, in realtà, sono quelli costruiti nella capitale per le Olimpiadi del 1960 ma che, in parte, oggi risultano già fatiscenti o addirittura abbattuti.
Tratto da un racconto di fantascienza di Robert Sheckley, il film immagina una società in cui, per contenere la violenza e scongiurare guerre nucleari devastanti, è stata creata una competizione internazionale chiamata la Grande Caccia, che fornisce a chi partecipa la possibilità di uccidere, senza subire conseguenze penali. Un computer designa delle coppie di partecipanti, nel ruolo di cacciatore e di vittima. Chi sopravvive a dieci sfide (da cui il titolo del film) entra nel Dechaton, ottenendo fama, privilegi e denaro. La giovane americana Caroline Meredith (Ursula Andress) deve eliminare la sua ultima vittima, l’italiano Marcello Poletti (Marcello Mastroianni). Caroline è seguita, nella sua missione, da una troupe televisiva con tanto di sponsor, quasi fosse un reality show e ha deciso di uccidere Poletti nella scenografica cornice del Foro Romano, in diretta tv e con già predisposte coreografie, fatte di balletti e di spot pubblicitari. La donna raggiunge perciò Marcello a Roma, spacciandosi per una giornalista e inscenando un’intervista in un locale dell’EUR. Dopo alterne vicende, i due finiranno però per innamorarsi, con un happy end, voluto dalla produzione, poi rinnegato da Petri in molte successive interviste.
Molti sono gli scorci della capitale che accompagnano la storia: da Piazza di Siena, in cui si svolge il concorso ippico presentato nella pellicola, a Lungotevere dei Mellini, dove è l’avveniristica casa di Marcello. La sede del “Ministero della Grande Caccia”, così come la “Relaxing service station”, la sala per rilassarsi immaginata nel film, sono nell’ex Velodromo dell’Eur, la struttura inaugurata nel 1960, ma abbattuta nei primi anni del duemila, dopo decenni di abbandono. Il bar con terrazza dove i due protagonisti hanno il loro primo incontro, è sempre all’Eur, nel Palazzo dei Congressi dell’architetto Libera. La spiaggia dove viene fatto il saluto al sole è quella di Focene. La scena del duello ai Fori, infine, parte al centro di Roma, nei pressi dell’Arco di Tito, ma curiosamente si sposta poi ad Ostia Antica, all’interno degli scavi, sulla scalinata dei resti del Capitolium.
Il Marchese del Grillo
Il film del 1981 del regista Mario Monicelli, è forse in assoluto il film più amato dai romani, che ridono e si identificano, anche rivedendo il film per la ventesima volta, con le battute salaci, che molti conoscono a memoria, del marchese buontempone interpretato da Alberto Sordi. Ambientata ai primi anni dell’ottocento, la pellicola narra le vicende del marchese Onofrio del Grillo, nobile romano e dignitario pontificio, che ama trascorrere le proprie giornate organizzando raffinati scherzi, a volte bonari, altre volte crudeli, di cui fa oggetto sia gente del popolo, sia membri della nobiltà e persino lo stesso Papa. Il personaggio è ispirato a un nobile papalino storicamente esistito, sui cui scherzi leggendari, da secoli circolano a Roma numerose leggende. Che questo personaggio leggendario fosse davvero Onofrio del Grillo è però improbabile, sia perché le leggende popolari collocano tutte nell’ottocento gli scherzi del marchese, mentre il vero Onofrio morì nel 1787, sia perché il vero Onofrio visse solo per un breve periodo a Roma, essendo nato e poi morto a Fabriano.
La particolarità, che forse lascerà sorpresi molti di voi, è che nel più romano dei film ambientati a Roma, interpretato da un simbolo capitolino come Alberto Sordi, che mostra paesaggi e scorci di quella Roma sparita ottocentesca, che fu tanto cara al pittore Roesler Franz, quasi nessuna scena è realmente girata tra le vie di Roma. Tutte le immagini della città che appaiono nella pellicola, infatti, o sono riprese in altre città d’Italia, o sono riscostruite in studio con scenografie.
E così, il palazzo del marchese Onofrio del Grillo è un palazzo di Lucca: Palazzo Pfanner. Solo la terrazza del palazzo è davvero Roma, per la precisione la loggia della Casa dei Cavalieri di Rodi, da cui si intravede, sullo sfondo, il Campidoglio. La scena della rappresentazione teatrale è stata girata, invece, nel teatro settecentesco di Amelia, in provincia di Terni. Il covo di Don Bastiano, il personaggio interpretato da Flavio Bucci, è collocato a Monterano, un paese abbandonato a nord della Capitale. La scena dell’arrivo in carrozza del marchese e dell’ufficiale francese in un casolare, è stata girata a Tarquinia. Piazza Bocca della Verità, che nel film appare com’era prima della costruzione dei Lungotevere, è invece un set allestito negli studi di Cinecittà. E così è per il vicolo dove lavora il carbonaio Gasperino, il sosia del marchese. Gli unici veri scorci romani sono quelli del Parco degli Acquedotti, dove il marchese corre in carrozza in una delle scene del film e Piazza del Velabro, dove viene collocata l’esecuzione di don Bastiano dopo la sua cattura.
Mamma Roma
Nel 1962, Pier Paolo Pasolini presenta alla Mostra del Cinema di Venezia il suo secondo film: “Mamma Roma”. Per la prima volta tra gli interpreti di una sua pellicola c’è anche un nome di grido, quello dell’attrice premio Oscar Anna Magnani, oltre al ritorno sulle scene di Franco Citti, già protagonista, come attore esordiente, del suo precedente film “Accattone”. Anche questa storia, come l’esordio cinematografico di Pasolini, è un ritratto della periferia romana, del sottoproletariato che vive nelle borgate di quella Roma, presente nel titolo, che è anche il nome della protagonista.
Roma Garofolo, alias Mamma Roma, il personaggio interpretato dalla Magnani, è una ex prostituta, madre di Ettore, cresciuto con lei a Guidonia e tenuto all’oscuro di quel passato poco edificante. Mamma Roma decide però di trasferirsi nuovamente a Roma, per offrire un futuro migliore a suo figlio. Ettore, arrivato nella sua nuova casa, nel quartiere del Quadraro, conosce un gruppo di ladruncoli della zona, con cui fa amicizia. Conosce anche Bruna, una ragazza più grande di lui, di cui si innamora. Mamma Roma farà carte false per allontanare il figlio da quel giro e portarlo verso una vita “per bene” e un lavoro onesto, riuscendo inizialmente nel suo intento. Purtroppo, anche in questa vicenda, proprio come in “Accattone”, il destino sembra già scritto e ogni tentativo di riscatto è destinato a fallire. Il destino ricompare sulla scena nelle vesti del vecchio protettore di Mamma Roma, Carmine, interpretato da Franco Citti. Con il suo arrivo, tutti i fantasmi del passato fanno la propria ricomparsa, smontando pezzo per pezzo ogni tentativo di rivalsa e finendo per condurre la storia verso un percorso tragico.
Quasi tutto il film è girato nella periferia sud-est di Roma. La prima casa dove vive Mamma Roma, all’inizio della storia, prima di trasferirsi, è il cosiddetto Palazzo dei Ferrovieri di Casal Bertone. Il suo nuovo appartamento romano, è invece nel villaggio INA-Casa del Quadraro, la zona in cui viene ambientata la maggior parte del racconto. Molti esterni sono poi girati nella zona del Parco degli Acquedotti. In alcune immagini del film è ben visibile la cupola della basilica di Don Bosco, mentre le scene finali, in cui i personaggi presenti si trovano di fronte a un ospedale, sono girate a Tor Marancia, davanti all’istituto San Michele.
Le fate ignoranti
È un film del 2001, diretto dal regista italo-turco Ferzan Ozpetek, incentrato sui temi dei rapporti di coppia e dell’omosessualità, basato anche su alcune vicende autobiografiche realmente vissute dal regista, che ha per attori protagonisti Margherita Buy e Stefano Accorsi. La Buy interpreta Antonia, una donna serenamente sposata e mediamente agiata, dottoressa specializzata nelle cure contro l’AIDS, che pare vivere un’esistenza personale e di coppia piuttosto tranquilla, finché suo marito Massimo non muore travolto da un’autovettura. Tra gli oggetti che il marito scomparso lascia nel suo ufficio, Antonia scopre un quadro dal titolo “Le fate ignoranti”, su cui è presente una dedica che lascia sospettare l’esistenza di un’amante segreta.
Comincia così per Antonia una serie di ricerche, che la porterà a frequentare una strana casa, in cui vive Michele (Stefano Accorsi), insieme a una sorta di curiosa famiglia allargata multietnica, che si ritrova spesso lì in modo conviviale, soprattutto sulla grande terrazza, che viene animata quasi ogni giorno da una comunità variopinta, composta da un gruppo di omosessuali, una transessuale, alcuni esponenti della comunità turca di Roma e da altri strani personaggi, Saranno queste persone che, poco a poco, faranno scoprire ad Antonia una serie di realtà da lei sempre ignorate, inclusa l’omosessualità del marito Massimo, che lui aveva tenuto segreta durante tutta la propria esistenza.
Il film è interamente girato nel quartiere Ostiense, altro elemento autobiografico inserito nella storia dal regista Ozpetek, che da anni abita realmente in quella zona e che, come i protagonisti del film, ha raccontato di avere spesso l’abitudine di riunire in casa propria un variopinto gruppo di amici e parenti. La terrazza che appare nella pellicola, che mostra sullo sfondo il Gazometro, si trova proprio a Ostiense, in via dei Magazzini Generali. Altre immagini di esterni sono girate in via del Porto Fluviale e in via della Piramide Cestia. Il museo dove la Buy entra, in una delle scene, è un reale museo presente nel quartiere: la Centrale Montemartini di via Ostiense. Infine, la festa sul fiume a cui lei partecipa, è stata girata su un barcone accanto al ponte dell’Industria, nel quale, per tutti gli anni novanta e i primi anni del duemila, era realmente attiva una discoteca sul Tevere, molto frequentata dai romani. Il barcone fu poi affondato da una piena del fiume nel 2007 e oggi è stato rimosso.
I soliti ignoti
Questo film, diretto nel 1958 da Mario Monicelli, uscito nelle sale come una semplice commedia comica, è ormai unanimemente considerato uno dei capolavori assoluti del cinema italiano. Merito della sceneggiatura, della regia e delle interpretazioni di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Totò, Renato Salvatori, Tiberio Murgia, Claudia Cardinale, Memmo Carotenuto, Carla Gravina e Carlo Pisacane, ovvero il mitico “Capannelle”. E merito di una Roma che fa da cornice e da ulteriore protagonista.
Si narrano le vicende di un gruppo di piccoli ladruncoli, dalle vite incerte e dalla scarsa perizia anche nel compiere le proprie malefatte, che decide di mettersi insieme per riuscire ad organizzare il “colpo del secolo” e a svaligiare una banca. Tra numerosi colpi di scena, contrattempi, clamorosi errori di programmazione e di esecuzione, il furto non andrà però a buon fine. Quello che ne risulta è un film divertentissimo che è anche lo spaccato di un’umanità sempre precaria e ai margini, vista però con sguardo ironico, pur senza negare anche momenti di riflessione sociale, che attraversano tutto il film più o meno sottotraccia. È questa miscellanea fra battute irresistibili e serietà di stampo quasi neorealista, che prenderà il nome di Commedia all’italiana, un genere cinematografico di cui “I soliti ignoti” è il film capostipite.
Roma compare quale protagonista fin dalla prima scena, quando Il film si apre con Cosimo (Memmo Carotenuto) e Capannelle (Carlo Pisacane) che tentano di rubare un’automobile in via Alesia, una strada non distante da via Gallia. I grandi casermoni periferici nei quali Capannelle cerca di rintracciare Mario, si trovano invece in via Tonale, all’incrocio con via Monte Taburno, non distanti dal mercato del Tufello. La casa di Capannelle, è un piccolo complesso di baracche, oggi non più esistente, dalle parti di Via Collatina. Una delle scene più famose del film, quella in cui Totò istruisce gli amici sulle tecniche di scasso, è stata infine girata in un palazzo di Casal Bertone, oggi abbattuto. Ma sono molte altre le zone della città che fanno la loro comparsa nel film: da via Gregorio VII al Foro Italico, da Monte Testaccio alla Batteria Nomentana, dalle Mura Vaticane all’Università del Sacro Cuore, a Porta Portese, a via delle Tre Cannelle, al Gianicolo, in un tour di Roma decisamente non da cartolina turistica, ma proprio per questo molto più interessante agli occhi di un romano.
Nell’anno del Signore
Primo film della trilogia dedicata al risorgimento romano, che proseguirà con “In nome del Papa Re” e “In nome del popolo sovrano”, diretto nel 1969 da Luigi Magni, “Nell’anno del Signore” prende spunto da alcuni fatti storici realmente accaduti, con la condanna a morte, avvenuta a Roma nel 1825, dei carbonari Targhini e Montanari, rei di avere tentato una insurrezione contro il Papa in città. L’episodio è però solo uno spunto per una sorta di affresco capitolino e di racconto popolare, in cui numerose sono le licenze che il regista si prende rispetto ai reali accadimenti.
Con Nino Manfredi quale protagonista principale e un cast di cui fanno parte Claudia Cardinale, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Enrico Maria Salerno, Robert Hossein, Renaud Verley, Enzo Cerusico e un allora poco noto Pippo Franco, il film ben rappresenta quello spirito ambivalente dei romani, quel loro oscillare fra menefreghismo e impegno sociale, fra volgare indolenza e nobiltà d’animo, fra grande altruismo e meschino servilismo nei confronti di un potere politico sempre ben presente e radicato in città. Uno spirito romano rimasto quasi immutato nei secoli e ben raffigurato dal personaggio (immaginario) intrepretato da Nino Manfredi, un ciabattino detto Cornacchia, all’apparenza un rozzo analfabeta, nella realtà un fine pensatore, segretamente autore delle scritte che nottetempo appaiono sulla statua di Pasquino.
Data l’ambientazione storica delle vicende, collocate ai primi dell’ottocento, tutte le location del film sono scorci del centro di Roma. Si va dall’Isola Tiberina, dove avviene il tentato omicidio da parte dei carbonari nei confronti della spia Filippo Spada, a piazza Capizzucchi, dove nella finzione scenica viene collocata la statua di Pasquino, dal Gianicolo, alla Loggia dei cavalieri di Rodi, dove nella pellicola abita il cardinale Rivarola interpretato da Ugo Tognazzi, fino alla fontana di piazza Trilussa.
Fantasmi a Roma
Film diretto nel 1961 da Antonio Pietrangeli, su sceneggiatura di Ennio Flaiano, con un cast di tutto rispetto, che comprende Marcello Mastroianni, Eduardo De Filippo, Tino Buazzelli, Sandra Milo, Vittorio Gassman, è una favola dal sapore surreale, che narra le vicende delle anime di alcuni personaggi deceduti da diversi secoli, ma che ancora vagano per le vie e i palazzi della Capitale. Come spesso accade nelle commedie italiane di quegli anni, il tema funge anche da pretesto, per aprire uno squarcio sulle trasformazioni urbanistiche e sociali avvenute nella città.
Questo appare molto evidente nella scena in cui Mastroianni e Buazzelli, ovvero Reginaldo e Fra Bartolomeo, si spingono fino al neonato quartiere del Quadraro, allora in costruzione, alla ricerca dell’anima del pittore seicentesco Giovan Battista Villari, detto il Caparra, interpretato da Vittorio Gassman, che vive in piazza dei Consoli, in un’antica torre di campagna, oggi sede di un centro anziani. Il Caparra, narra allora le vicende legate ai suoi frequenti spostamenti di domicilio, dovuti alle trasformazioni urbanistiche subite nei secoli dalla città, lasciando trasparire un’evidente critica nei confronti dell’eccessiva urbanizzazione capitolina, una città che proprio in quegli anni vedeva crescere forsennatamente la propria popolazione e i propri metri cubi di cemento.
Il contrasto fra una nobiltà antica della città, minacciata dalla foga materialista delle nuove generazioni, figlie del boom economico, è rappresentata metaforicamente anche dal passaggio di consegne che avviene nel palazzo nobiliare in cui vivono i fantasmi, situato in pieno centro, a via della Pace, dopo la morte del suo vecchio proprietario. Il palazzo viene ereditato dal rampollo Federico di Roviano, interpretato sempre da Mastroianni, deciso ad abbatterlo per farne un ben più redditizio e moderno supermercato. Il progetto verrà però sventato, con un espediente, dall’astuzia dei fantasmi. Oltre al palazzo di va della Pace e al quartiere del Quadraro, numerose altre location romane, soprattutto della parte storica della città, appaiono nel film: dal Convento di San Giorgio (a piazza San Salvatore in Lauro), a Ponte Cestio, a via Lancellotti, dove è il night in cui il fantasma di Reginaldo bacia una bella cantante, che poi si rivela essere un uomo.
Romanzo criminale
Il film di Michele Placido del 2005, tratto dal romanzo di Giancarlo De Cataldo, racconta le vicende di oltre due decenni di storia romana e italiana, visti attraverso gli occhi della famigerata Banda della Magliana, quella che viene considerata a tutt’oggi la più potente organizzazione criminale che abbia mai operato a Roma. Il successo del film permetterà di dare vita anche a un’omonima e altrettanto fortunata serie televisiva, che ha avuto inizio nel 2008.
Le vicende narrate nella pellicola partono dalla metà degli anni sessanta, quando quattro piccoli delinquenti di strada, sulla spiaggia di Castelfusano, decidono di darsi dei nomi di battaglia: da allora si chiameranno il Libanese, il Dandi, il Freddo e il Grana. Si concluderanno negli anni novanta, dopo gli attentati mafiosi che hanno sconvolto l’Italia di quegli anni e l’inizio della cosiddetta “seconda repubblica”.
Del cast del film fanno parte Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, oltre allo stesso regista Michele Placido e allo scrittore Giancarlo De Cataldo, che appare in alcune scene, nella veste di giudice. Non tutte le vicende narrate hanno un’adesione con i reali fatti che hanno visto per protagonista la banda criminale. Quello che Placido vuole mettere in scena, non è infatti un film storico, ma la rappresentazione di un’atmosfera, delle logiche vigenti in quella Roma criminale, che ha a lungo contribuito a determinare l’andamento, anche politico, della vita cittadina e nazionale.
La Roma che viene ripresa nel film, nonostante il riferimento alla Magliana, che farebbe supporre delle location per la maggior parte periferiche, è invece soprattutto quella del centro storico, con numerose scene girate a Trastevere, a Piazza di Spagna, oltre che a Monteverde (dove è la casa-bordello di Patrizia, la prostituta amata dal Dandi), al Gazometro e sulla spiaggia di Ostia. Come in “C’eravamo tanto amati”, la villa del Libanese è una vera villa dell’Olgiata, anche se diversa da quella usata nel film di Scola, mentre quella del personaggio di Trentadenari è a Casalpalocco.
C’eravamo tanto amati
Nella migliore tradizione della commedia italiana, quella capace di unire con perfetto equilibrio la comicità e la critica sociale, il film di Ettore Scola, del 1974, è il grande affresco di una generazione, quella passata dalla guerra agli anni settanta, attraverso trent’anni di storia italiana. A fare da cornice, ma anche da coprotagonista della vicenda, è la città di Roma, dove i personaggi vivono e dove sono ambientate la maggior parte delle scene.
Il film è anche un omaggio al cinema e alla televisione, ricco di citazioni, che vanno da “Ladri di Biciclette” a “Lascia o Raddoppia”, da Michelangelo Antonioni alla Nouvelle Vague francese. La morte di Vittorio De Sica, che avverrà proprio durante la lavorazione del film, farà anche sì che Scola dedicherà esplicitamente al regista scomparso la propria pellicola, oltre a inserire una sua intervista all’interno del racconto. La citazione più esplicita ed evidente, è però quella fatta nei confronti della “Dolce Vita”, con un’intera sequenza ambientata durante le riprese della famosa scena del bagno alla Fontana di Trevi e con Federico Fellini e Marcello Mastroianni che, in un cameo, interpretano loro stessi.
Protagonisti della pellicola di Scola sono Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli, Stefano Satta Flores, che interpretano dei vecchi compagni ai tempi delle lotte partigiane, persi poi di vista e ritrovati dopo tanti anni, con destini ormai molto diversi e ruoli sociali in contrasto coi vecchi sogni e con l’antico spirito cameratesco. Da rimarcare, in ruoli minori, anche le interpretazioni di Aldo Fabrizi e di Giovanna Ralli, oltre alle apparizioni di Mike Bongiorno (nel ruolo di se stesso) e di Ugo Gregoretti.
Nel film compare spesso quella Roma degli anni settanta, in cui i personaggi si ritrovano e raccontano le proprie vite, raffigurata da Piazza del Popolo (all’epoca un enorme parcheggio di autovetture) a Piazza di Spagna, dall’Aventino a San Michele a Ripa, dalla Garbatella (dove ha sede la scuola davanti a cui, nel film, si svolge il sit-in) a Piazza Caprera, da Fontana di Trevi a San Giovanni. La grande villa di Aldo Fabrizi, il palazzinaro senza scrupoli, poi ereditata da Gassman, è una vera villa romana, spesso location di opere cinematografiche, tutt’ora esistente all’Olgiata, sulla Cassia, nella zona nord della città. Allo stesso modo la trattoria “Dal re della mezza porzione”, citata nel film e in cui i protagonisti si fermano a mangiare, era una vera trattoria romana, ubicata in centro e precisamente a Piazza della Consolazione, e all’epoca delle riprese risultava ancora attiva proprio con questo nome.
Tre soldi nella fontana
“Tre soldi nella fontana”, titolo originale “Three coins in the fountain”, è un film americano del 1954, diretto da Jean Negulesco. Nato sulla scia del successo di “Vacanze romane”, film uscito l’anno precedente, riuscirà ad essere una delle commedie più amate degli anni cinquanta, sia in America che nel nostro paese. Il titolo prende spunto da una nota leggenda, che vuole che chi getta delle monete nella Fontana di Trevi, potrà rivedere Roma.
Come nel precedente film con Audrey Hepburn e Gregory Peck, in “Tre soldi nella fontana” si narrano le vicende romantiche di alcuni americani in visita nel Belpaese. Non solo Roma, ma inizialmente anche Venezia fa da meta e da sfondo alle storie narrate. Le protagoniste della vicenda sono tre segretarie americane, che lavorano temporaneamente nella capitale italiana: Anita, Maria e Frances. Le tre sembrano destinate a rientrare negli Stati Uniti, ma alla fine, dopo il lancio delle monete nella Fontana di Trevi, quasi per magia, è proprio nella Città Eterna che troveranno l’amore e si accaseranno. Anita convola a nozze con il collega Giorgio (interpretato da Rossano Brazzi), Maria conquista il principe Dino Dessi, Frances si sposerà con Shadwell, il suo datore di lavoro.
Il brano musicale omonimo, che funge da colonna sonora, ottenne il premio Oscar quale migliore canzone. Una curiosità: il nome di uno dei personaggi, il Principe Dino Dessi, futuro sposo di Maria, nella versione originale in inglese era diverso. Si chiamava infatti Prince Dino Di Cessi. Ovviamente nella versione italiana, per evidenti motivi legati al significato della parola cessi, quel nome fu opportunamente modificato.
Un americano a Roma
Dopo il successo del precedente film “Un giorno in pretura”, nel 1954 Nando Mericoni, il fortunato personaggio interpretato da Alberto Sordi, torna sul grande schermo, sempre con la regia di Steno, per dare vita a quella che sarà una delle più divertenti commedie italiane della storia del cinema: “Un americano a Roma”. Il film è una satira di costume sull’esterofilia post bellica, su un’America sognata e immaginata, ma conosciuta solo attraverso la visione di film e fumetti, o l’ascolto di musiche d’oltreoceano.
Il film è anche una raffica di esilaranti scene rimaste nella memoria, dal fosso della Maranella, al gatto mammone, dalla fuga sui tetti di Roma, all’indimenticabile scena degli spaghetti, oltre che di modi di dire, falsamente anglofoni, entrati nell’uso popolare: “Orrait”, “Polizia der Kansas City”, “Auanagai”, “Maccarone io ti distruggo”.
Roma è rappresentata, non solo nello spirito dell’epoca, di una generazione di romani che aveva vissuto in gioventù i liberatori, arrivati in città nel ’44, quasi come se fossero dei supereroi, di qualità superiore, ma anche attraverso le immagini dei suoi angoli famosi e nascosti: dai tetti di via Margutta, su cui Mericoni fugge seminudo, al Portico d’Ottavia, dove avviene il suo incontro col gatto, al Colosseo, dove il protagonista si arrampica, minacciando di buttarsi se nessuno lo avesse aiutato a partire per il “Kansas City”.
L’ultimo capodanno
“Via Cassia 1043, comprensorio Le Isole, un’oasi di calma e serenità”, è questa la location segnalata da una voce fuori campo, all’inizio del film di Marco Risi, del 1998, in cui si svolgono gli eventi; un luogo descritto con dovizia, persino indicandone il numero civico. In realtà le cose non stanno esattamente così. In via Cassia 1043, che corrisponde più o meno all’altezza dello svincolo per il Grande Raccordo Anulare, poco prima di via Volusia, non esistono palazzine così alte come quelle che si vedono nel film. In quella zona della Cassia ci sono solo palazzine di pochi piani, però Marco Risi, pur ricostruendo la location in studio, ha voluto comunque mantenere le indicazioni urbanistiche presenti nel libro da cui il film è tratto: “L’ultimo capodanno dell’umanità”, di Niccolò Ammaniti, in cui si descrive questo immaginario comprensorio, all’interno del quale si dice siano anche un cinema, una discoteca, campi da tennis e addirittura una piscina olimpionica, ovviamente inesistenti in quel punto della via Cassia.
La Roma, anzi la Roma Nord, descritta in questo film grottesco, surreale, divertente, ma a tratti persino inquietante, è vista dall’angolazione di un mondo borghese, falsamente sereno e tranquillo, ricco però di rancori, di meschinità, di segreti, che esplodono tutti nella serata di capodanno, facendo letteralmente saltare in aria le apparenze. Tutt’attorno, ruota un’ulteriore umanità, fatta di piccoli arruffoni, malavitosi da due soldi, millantatori, gigolò, squillo, tossicomani, anch’essa coinvolta nel delirante andamento di quella notte di festa. Gli eventi della serata, faranno sì che tutte le diverse vicende giungeranno a concentrarsi e a deflagrare in quell’immaginario condominio romano.
Nel ricco cast del film, troviamo, tra gli altri, Monica Bellucci, Alessandro Haber, Marco Giallini, Claudio Santamaria, Ricky Memphis, Giorgio Tirabassi, Beppe Fiorello, Angela Finocchiaro, Iva Zanicchi, Adriano Pappalardo, Riccardo Rossi, Maria Monti. Le poche scene ambientate fuori dal fantomatico comprensorio, forse per poter rendere più credibile l’ipotetica location indicata all’inizio del film, sono effettivamente girate non troppo distante dalla via Cassia, tra Ponte Flaminio e corso Francia, nel distributore di benzina dirimpetto a quello che verrà reso successivamente famoso dalle cronache, per via di alcune vicende legate a Mafia Capitale e a Massimo Carminati.
Accattone
Il film, del 1961, segna l’esordio alla regia di Pier Paolo Pasolini. Presentato alla mostra di Venezia di quell’anno e accolto da pareri contrastanti e anche da forti contestazioni, è, di fatto, la trasposizione cinematografica di alcuni precedenti lavori letterari dell’intellettuale friulano. Accattone, interpretato da un allora sconosciutissimo Franco Citti, alla sua prima prova davanti alle cineprese, è un sottoproletario romano, che vive di espedienti e si fa mantenere da una prostituta. La sua vita è piena di violenza e avrà un finale tragico, che sembra fin dall’inizio scritto nel destino.
Accattone, film interpretato da attori non professionisti, riprendendo in tal modo una scelta stilistica molto in voga ai tempi del neorealismo, è soprattutto il racconto del mondo sottoproletario romano e di quella parte periferica di città, che proprio in quegli anni aveva visto un forte e disordinato sviluppo. Gli esterni del film sono tutti girati nelle borgate capitoline e in quelle aree della Capitale, che era lasciata ai margini dalla Roma bene descritta l’anno precedente da Federico Fellini nel suo film “La dolce vita”: via Casilina, via Portuense, via Appia, via Tiburtina, via Baccina, l’Acqua Santa, via Manuzio, Ponte Testaccio, il Pigneto, la borgata Gordiani, Centocelle, la Marranella.
Tra le curiosità del film, vi è il fatto che proprio Federico Fellini si propose inizialmente per essere il produttore dell’opera. Il regista riminese, però, all’ultimo momento si tirò indietro, spaventato dalla scarsa conoscenza tecnica del mestiere di regista e delle sue peculiarità tecniche, dimostrata da Pier Paolo Pasolini. Un Pasolini che, comunque, fu sostenuto nelle riprese da un aiuto regista, allora giovanissimo, destinato a diventare uno dei massimi direttori mondiali, osannato dalla critica e vincitore di premi Oscar: Bernardo Bertolucci.
Piazza Vittorio
Il docufilm del 2017 “Piazza Vittorio”, diretto dal regista statunitense Abel Ferrara, apre lo sguardo verso quella Roma multietnica che, da qualche decennio, popola il quartiere dell’Esquilino e la piazza che dà il titolo alla pellicola. Alle immagini e alle parole degli abitanti della zona, italiani e non, si aggiunge il commento di quell’intellighenzia internazionale che, assieme alle diverse comunità straniere, ha trovato di recente casa nel quartiere. Tra questi, il regista Matteo Garrone e l’attore americano Willem Dafoe, entrambi amici di Ferrara ed entrambi intervistati nel docufilm, per raccontare la propria esperienza di vita in quel quartiere romano.
L’opera ha tutti i pregi e tutti i difetti che si possono incontrare quando in un racconto lo sguardo non è quello di chi vive quotidianamente nella realtà che viene descritta, bensì quello di chi resta affascinato da un luogo, cogliendone i suoi aspetti più vistosi, ma con gli occhi del turista, dell’osservatore esterno. È dunque un film a metà fra documentario turistico e spirito dei luoghi, fra la rappresentazione di uno stereotipo e un’efficace descrizione della multiculturalità dell’Esquilino. Lo stesso vale per la colonna sonora, che presenta pezzi country, accanto a brani di Claudio Villa e Gabriella Ferri.
La pellicola ha, comunque, un suo fascino, con interviste a volte interessanti, fatte agli abitanti più disparati, dai cantanti africani, ai vecchi “romani de Roma”, con immagini di “making of” inserite all’interno del racconto, con una visita alla sede di Casapound, accompagnata dalle parole dei suoi militanti, riuscendo così a trasmettere il senso di quella realtà ambigua e contraddittoria che Piazza Vittorio presenta oggi ai visitatori, in bilico fra una forma tutto sommato pacifica di integrazione fra le diverse etnie, ma col rischio strisciante di possibili esplosioni razziste, sempre presente.
Risate di gioia
Tratto da alcune novelle di Alberto Moravia, contenute nei suoi “Racconti romani”, girato nel 1960 da Mario Moincelli, è un film che, a riguardarlo oggi, appare come uno dei capolavori della commedia all’italiana, capace di calibrare battute irresistibili e un amaro spaccato sociale, con una coppia di interpreti straordinaria e potentissima, formata da Anna Magnani e da Totò, per la prima e, purtroppo, unica volta insieme sul grande schermo. Eppure, al momento della sua uscita nelle sale, fu anche un clamoroso flop. Reduce da un premio Oscar e da diverse pellicole girate a Hollywood, la Magnani accolse infatti con ritrosia l’idea di ritrovare dopo vent’anni Totò, con cui aveva lavorato in teatro prima della guerra, ma che veniva allora considerato un attorucolo di serie B, buono solo per i film di cassetta. Anche la critica, che adorava la Magnani e disdegnava Totò, non apprezzò il fatto di vedere i due accostati. Mentre il pubblico, che adorava Totò, in quel momento disdegnava la Magnani, deluso dai suoi recenti lavori hollywoodiani. E così, sia pubblico che critica finirono per snobbare il film.
La pellicola narra di una coppia di amici dalle vite precarie, comparsa a Cinecittà lei, attore da strapazzo, ma soprattutto piccolo truffatore lui, che si ritrova a festeggiare il Capodanno. Tra i due si introduce un giovane, interpretato da Ben Gazzara, un lestofante che finge di sedurre la Magnani per poterne approfittare meglio, quale complice per i suoi raggiri. Il tutto avviene fra le vie di una Roma, vista sempre di notte (tranne nella scena finale sul Lungotevere), che il trio attraversa quasi senza meta: dall’Eur a Piazza Esedra, da Piramide a via del Corso, a via Giolitti, alla Fontana di Trevi, alla Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Ed è al Palazzo dei Congressi che si svolge la festa dove la coppia Magnani-Totò rievoca il proprio passato sui palcoscenici del varietà, cantando la canzone “Geppina Geppi”.
Nel film appare, forse per la prima volta al cinema, anche la metropolitana di Roma, l’attuale Linea B, che all’epoca delle riprese era da poco tempo entrata in funzione. Da così poco tempo che, in una memorabile scena, la Magnani, mentre scende le scale che ancora oggi portano sui binari della stazione di Piramide – Porta san Paolo, potrà dire di non essere ancora mai salita sulla metropolitana romana. Alla fine, le vicende della storia, porteranno però la donna ad un amaro festeggiamento in solitaria della mezzanotte, proprio all’interno di un vagone del metrò.
In nome del popolo sovrano
Film del 1990, diretto da Luigi Magni, ultimo di una trilogia di opere dedicate dal regista al risorgimento romano, narra le vicende storiche che hanno portato, nel 1849, alla nascita e alla caduta della Repubblica Romana. I reali avvenimenti di quei giorni, si inframezzano nella pellicola alle vicende private di casa Arquati, immaginaria famiglia nobiliare romana, il cui capostipite, interpretato da Alberto Sordi, incarna una tradizione papalina che finisce per scontrarsi con le idee innovative di cui si fa portatrice la generazione del figlio Eufemio, ruolo ricoperto da Massimo Wertmuller, sposo di Cristina, donna piena di sogni e di idee patriottiche, i cui panni sono vestiti da Elena Sofia Ricci, che finirà per trascinare in un impeto risorgimentale anche l’inizialmente abulico marito.
Quasi tutti gli altri personaggi del film, a parte la cameriera di casa Arquati, interpretata da Serena Grandi, sono la trasposizione scenica di reali personaggi storici, uomini che hanno davvero vissuto quei drammatici momenti della storia di Roma: da Ciceruacchio, interpretato da Nino Manfredi, al patriota Giovanni Livraghi (Luca Barbareschi), a don Ugo Bassi (Jacques Perrin), al cardinale Gaetano Bedini (Luigi De Filippo), al poeta Giuseppe Gioacchino Belli (Roberto Herlitzka).
La Roma papalina è ricreata da Magni riprendendo veri scorci della città. I luoghi in cui si organizzano le barricate e avvengono gli scontri fra i rivoluzionari romani e i francesi accorsi in aiuto del Papa, sono quasi tutti angoli di Trastevere: via Anicia, via della Lungaretta, via Arco dei Tolomei, via e piazza in Piscinula, vicolo dell’Atleta. La terrazza del palazzo della famiglia Arquati è invece quella di Palazzo Falconieri, a via Giulia, mentre gli appartamenti papali sono ricreati in Campidoglio, all’interno di Palazzo Nuovo e di Palazzo dei Conservatori. Le musiche del film portano la firma del maestro Nicola Piovani.
La dolce vita
Il capolavoro del 1960, di Federico Fellini, è il film su Roma per antonomasia, quello che ha descritto la città di quegli anni, in un modo così perfetto e completo, da diventare un modo di dire proverbiale. Dal film nasce non solo il successo di Via Veneto; nasce anche il termine paparazzo, che è il nome di un fotografo presente in quella storia, ma che da allora starà a indicare ogni fotografo di gossip; nasce soprattutto un modo di vivere, di concepire il divertimento e di godersi Roma, che caratterizzerà tutta una generazione, negli anni del primo boom economico.
Raccontare in poche righe un film della durata di tre ore e che ha segnato per sempre la storia del cinema, è un’impresa quasi impossibile. Protagonista apparente di quella vicenda è Marcello Rubini, personaggio interpretato da Marcello Mastroianni, il giornalista un po’ dandy, che passa le sue notti fra feste, cocktail, donne e incontri mondani. Ma la vera protagonista reale de “La dolce vita”, è proprio la città di Roma. Una Roma che non è solo via Veneto, luogo d’incontro preferito dal bel mondo capitolino degli anni sessanta. C’è anche la Roma papalina di San Pietro, con riprese dall’alto e dell’interno della cupola, immagini per l’epoca piuttosto ardite. C’è poi la periferia di Centocelle. C’è la chiesa di Don Bosco. C’è il Fungo dell’Eur. C’è la spiaggia di Fregene. E c’è, ovviamente, Fontana di Trevi, con la famosissima scena del bagno di Anita Ekberg, in cui lei grida un sensualissimo: “Marcello, come here”.
Quello che forse molti non sanno, è che la precisione maniacale di Federico Fellini, la sua necessità di studiare con attenzione le riprese e di ripetere le scene fino a trovare quella giusta, ha fatto sì che molti scorci di Roma che appaiono nel film, non sono veri scorci della Capitale, bensì scenografie, realizzate in quel famoso “Studio 5” di Cinecittà, in cui il regista riminese era “di casa”. Dunque, non solo l’interno della cupola di San Pietro è una scenografia, ma anche la strada che è poi diventata il simbolo di quell’opera cinematografica e di quegli anni, ebbene sì, non è la vera Via Veneto, bensì un set, ricostruito in modo meticoloso dalle maestranze del film.
Titus
Poco noto film anglo-americano del 1999, tratto dal “Tito Andronico” di William Shakespeare. Seguendo una moda molto in voga in quegli anni, propone una trasposizione del dramma shakespeariano che mescola contemporaneità e antichità. Ecco quindi che Roma, che fa da splendida cornice alla drammatica vicenda, è presentata non solo nelle sua vestigia di un passato imperiale, con scene girate all’Appia Antica o al Parco degli Acquedotti, ma anche nella sua architettura novecentesca, con gran parte della pellicola che viene ambientata all’Eur e nella piscina del Foro Italico.
Nonostante la presenza di attori premi Oscar, del calibro di Anthony Hopkins e di Jessica Lange, che interpretano i ruoli principali, il tentativo registico di miscelare passato e presente, il surreale uso di anacronismi, con automobili anni trenta che sfilano tranquille in quella che dovrebbe essere la Roma degli imperatori, non è così efficace e ben riuscito, come era stato, ad esempio, quattro anni prima, nel Riccardo III di Richard Loncraine, altro film tratto da una tragedia shakespeariana, ma ambientato in quel caso nell’Inghilterra degli anni venti del novecento.
Nonostante le bellissime immagini del cosiddetto “Colosseo quadrato” e di altre zone della città, per uno spettatore romano ha poi un effetto grottesco la scelta di raffigurare, nel film, le due fazioni in lotta per la guida dell’Impero di Roma, come se fossero le tifoserie delle due squadre di calcio capitoline, coi due schieramenti opposti, che sventolano: l’uno dei drappelli giallorossi e l’altro delle bandiere biancocelesti. Da salvare restano, però, le belle inquadrature dei monumenti della Roma del ventennio, isolati e valorizzati, con uno stile cinematografico che ricorda molto quello usato dalla propaganda nazifascista, nei film per il Fuhrer girati negli anni trenta da Leni Riefenstahl.
Lo chiamavano Jeeg Robot
Uno dei più originali e toccanti film italiani del XXI secolo, è anche uno straordinario omaggio alla Capitale, oltre che, nonostante le atmosfere da fumetto, ricche di rimandi ai supereroi dei cartoni, o le scene pulp alla Manetti Bros, una pellicola piena di citazioni dei grandi del passato, forse volute o forse inconsapevoli, che ricorda persino alcuni capolavori del cinema neorealista. Proprio come nel più premiato film di De Sica, ad esempio, i protagonisti vivono in una periferia senza speranza, ma da lì, durante lo svolgimento della vicenda, si spostano in tutta la Città Eterna, ripresa e presentata nei suoi diversi aspetti, dal Colosseo al Lungotevere, da Cinecittà al Foro Italico.
Diretto nel 2015 da Gabriele Mainetti, con le straordinarie prove attoriali di Claudio Santamaria, l’eroe, Ilaria Pastorelli, la bella e Luca Marinelli, nella parte del cattivo, le prime scene sono dedicate a Tor Bella Monaca, il quartiere dove vivono i protagonisti, che nel film appare un luogo tanto fascinoso quanto inquietante e disperato. Ma è in pieno centro, lungo le banchine del Tevere, che si svolgono alcune delle scene più importanti del racconto, così come a Porta San Paolo, dove il protagonista ferma a mani nude un tram. Non manca nemmeno la Roma dei centri commerciali, per la precisione quello di Cinecittà Due, dove ha luogo la passeggiata romantica e poi l’amplesso dell’eroe con la sua bella.
La scena conclusiva, con la lotta fra il bene e il male, fra l’eroe e il cattivo, all’esterno dello Stadio Olimpico durante il derby Roma-Lazio, con la folla ignara che sciama all’esterno dello stadio al termine della partita, sembra quasi un voluto omaggio al finale di “Ladri di biciclette”, altro film in cui il protagonista si trova improvvisamente circondato dalla folla dei tifosi del dopopartita. Ma è nell’ultima immagine, quella in cui la sagoma di Jeeg Robot si staglia in piedi sul Colosseo, che la pellicola esprime chiaramente ciò che durante il racconto si avverte sottotraccia: è infatti Roma, con i suoi simboli eterni, oltre che il leggendario “Jeeg” del titolo, ad assurgere al ruolo di vera “eroina”, positiva e immortale, dell’intera vicenda.
Ladri di biciclette
Quello che è il capolavoro indiscusso del neorealismo, è anche, una straordinaria visita guidata nella Roma di fine anni quaranta, raccontata ampiamente in immagini, dal centro alla periferia. Realizzato nel 1948 da Vittorio De Sica, con la partecipazione di attori non professionisti, il film presenta ampi scorci della città, che appare in tutta la sua grandiosità e soprattutto in tutta la sua miseria post bellica.
La vicenda inizia al Tufello, un quartiere all’epoca ancora in costruzione, come si vede bene da diverse scene, girate a via delle Isole Curzolane, nei palazzi che sorgevano allora in mezzo al vuoto e in cui, nel film, vive il protagonista Antonio, con la moglie. Lui è stato da poco assunto come attacchino comunale, ma per svolgere il proprio lavoro ha bisogno di una bicicletta, che però in quel momento non possiede.
Con la moglie Maria si reca perciò in Via del Corso. È nel palazzo della Cassa di Risparmio che, nella finzione scenica, viene ubicato il Monte di Pietà. Qui, impegnando sei lenzuola, la coppia ottiene i soldi per l’acquisto del mezzo. Purtroppo, proprio durante il suo primo giorno di lavoro, la bici gli viene rubata nei pressi di via del Tritone e Antonio comincia così un lungo giro per tutta la città, alla ricerca dei ladri e della sua indispensabile due ruote.
E’ domenica. Antonio raggiunge prima Piazza Vittorio, poi il mercato di Porta Portese, sperando di vedere lì la sua bici, magari in vendita, ma della bicicletta non c’è traccia. Dopo essersi fermato a pranzare, col figlio Bruno, in una trattoria di via di Ripetta, Antonio riprende le ricerche. Anche la sua visita nei pressi del Gazometro, dove vive il sospetto autore del furto, si rivela un buco nell’acqua. Perciò, giunto a sera, amareggiato e senza avere ottenuto il proprio scopo, Antonio si dirige lungo via Flaminia, dove si ferma ad attendere il tram verso casa.
In quell’istante, vedendo un’altra bici lasciata incustodita, spinto dalla disperazione, tenta a sua volta di rubarla. Non pensa che poco distante c’è lo stadio e che la partita di campionato è appena terminata. La folla che sciama dal Flaminio (l’Olimpico non era ancora stato costruito), riempie immediatamente la via. Qualcuno lo vede mentre cerca di rubare la bici e blocca il suo tentativo di furto. In una Roma povera, ma tutto sommato solidale, nessuno se la sente di denunciarlo. Antonio potrà riprendere liberamente la via del ritorno verso casa, anche se deluso, umiliato e senza più nulla in mano, se non la propria disperazione.
Il ventre dell’architetto
Capolavoro del 1987 del regista inglese Peter Greenaway (titolo originale “The Belly of an Architect”), racconta le vicende dell’architetto Stourley Kracklite, che arriva a Roma con la giovane moglie Louisa, per organizzare una mostra dedicata ai progetti dell’architetto francese del settecento Étienne-Louis Boullée. Ma, insieme a Kracklite, è Roma la vera protagonista del film, Roma e il suo monumento più imponente, ma anche il più criticato e disdegnato dai romani: il Vittoriano. Ed è proprio al suo interno che verrà organizzata la mostra dedicata a Boullée.
Kracklite resta affascinato dalla Città Eterna e dalle sue cupole, ma durante il suo soggiorno scopre di avere una forma incurabile di cancro al pancreas. Contemporaneamente sua moglie Louisa gli annuncia di essere incinta. Da quel momento, tutto il film è un continuo gioco di rimandi fra la vita e la morte, la bellezza e la decadenza, la nascita e il disfacimento, fra l’intimità sempre più cupa dei pensieri del protagonista e la meraviglia solare delle architetture romane.
Nel tragico finale della vicenda, l’unione indissolubile fra vita e morte, fra Eros e Tanathos, fra bellezza e decadenza, è plasticamente messo in scena, con Louisa che viene colta dalle doglie nel momento dell’inaugurazione della mostra dedicata a Boullée, dando alla luce il proprio figlio all’interno dell’Altare della Patria e Kracklite che, nello stesso istante, quasi fosse una novella Tosca, in preda al delirio e alla depressione, si getta dall’alto del Vittoriano, uccidendosi.
To Rome with love
Dopo aver girato nel 2011 “Midnight in Paris”, visionario e originale racconto di una Parigi zeppa di artisti, di viaggi nel tempo e di sogni romantici, Woody Allen decise di proseguire il proprio tour cinematografico delle capitali europee, sbarcando a Roma l’anno dopo, nel 2012. “To Rome with love” è un film che intreccia quattro diverse storie, tutte ambientate nella Città Eterna: quella di Jack, studente americano, felicemente fidanzato, ma invaghito della migliore amica della propria compagna; quella di Jerry, produttore discografico in pensione; quella di Leopoldo Pisaniello, uomo qualunque divenuto improvvisamente una star dei media; quella di Antonio, che si trova a dover spacciare per sua moglie una prostituta.
La pellicola, nonostante un cast d’eccezione, di cui fanno parte, oltre allo stesso Allen, anche Penelope Cruz e Roberto Benigni, non riesce a ripetere l’efficacia comica, poetica e surreale della precedente opera parigina. I personaggi di “To Rome with love” risultano, infatti, macchiette inverosimili, tutti assai poco credibili e poco strutturati, mentre Roma è sì un meraviglioso sfondo da cartolina, però troppo laccato e iconico per risultare davvero apprezzabile. Le immagini della capitale, sebbene un po’ scontate, sono comunque bellissime e, certamente, il film ha il valore di documentare bene come la nostra città venga vista dagli occhi di un turista statunitense.
Molti sono gli attori italiani di grido che appaiono in piccoli ruoli di questa pellicola: da Riccardo Scamarcio a Ornella Muti, da Antonio Albanese a Lina Sastri e poi ancora Giuliano Gemma, Maria Rosaria Omaggio, Gianmarco Tognazzi, Donatella Finocchiaro, Lino Guanciale, Alessandra Mastronardi, Edoardo Leo. Tra le curiosità, c’è il fatto che questo è anche il primo film interpretato da Allen dopo la morte del suo storico doppiatore Oreste Lionello. Dopo vari provini, la voce che si scelse nella versione italiana, per doppiare il regista newyorkese, fu quella di Leo Gullotta.
Caro Diario
Film a episodi del 1993, intimista e autobiografico, diretto e interpretato da Nanni Moretti. Nella prima delle tre parti in cui è divisa la pellicola, intitolata “In Vespa”, come un novello Gregory Peck di “Vacanze Romane”, il protagonista gira per la città alla guida della sua due ruote. Quello che ne esce fuori è una sorta di grand tour della Capitale e dei suoi quartieri, ricco di riflessioni, di commenti urbanistici e sociologici.
È soprattutto la zona sud di Roma quella che Moretti attraversa, dalla Garbatella a Casalpalocco, passando per Spinaceto, quartiere in cui Il regista si ferma per esplodere in una frase rimasta nella memoria di molti suoi fan e di molti romani: “Beh Spinaceto pensavo peggio, non è per niente male!”.
Dopo un fortuito incontro, nelle vicinanze di Porta Metronia, con l’attrice Jennifer Beals, il tour del regista si conclude a Ostia, per l’esattezza all’Idroscalo, accanto al monumento dedicato a Pier Paolo Pasolini.
Meno noti e soprattutto molto meno capitolini, i successivi due episodi: il secondo, “Le isole”, è girato alle Lipari, mentre il terzo, “Medici”, è l’amaro racconto del suo rapporto con la medicina (anzi con le medicine, inclusa la medicina orientale), per diagnosticare e curare un tumore. Da notare, nel film, i diversi “cameo” di attori di livello, che in questa pellicola hanno il semplice ruolo di comparse o di figuranti: dalla già citata jennifer Beals nella parte di se stessa, a Moni Ovadia e Marco Paolini, per finire col regista Carlo Mazzacurati.
Un sacco bello
L’esordio cinematografico di Carlo Verdone, datato 1980, è un film visceralmente romano. Romani, anche se al tempo stesso universali, sono i tre personaggi interpretati da Verdone: Leo, il timido ragazzo trasteverino; Enzo, il coatto; Ruggero, il fricchettone. Romanissimo è Mario Brega, l’interprete del ruolo di padre di Ruggero. Romane le atmosfere e i piccoli personaggi di contorno (gli infermieri, l’uomo alla finestra, la venditrice di noccioline). Romane tutte le location in cui è girato il film.
Roma è rappresentata dal centro alla periferia. Da Porta Settimiana, accanto alla quale Leo fa cadere la bottiglia d’olio e incontra Marisol, alla zona di Vigne Nuove, per la precisione via Giovanni Conti, in cui ha luogo l’incontro fra il coatto Enzo e il suo amico Sergio, il milanese, in vista della partenza per il fantomatico viaggio verso Cracovia, passando per il bioparco (allora era lo zoo) di Villa Borghese, dove Leo porta in visita la sua nuova amica spagnola.
E poi ancora l’ospedale San Gallicano, la stazione Ostiense, Porta San Paolo, il Teatro Marcello, la Cassia Veientana, dove vengono girate altre scene del film e infine Santa Maria in Trastevere, il luogo dove Leo abita e dove viene collocato il famoso “Otello della Juventus”, cioè l’ostello della gioventù.
La malinconica colonna sonora è opera del maestro Ennio Morricone, mentre Verdone, oltre che attore protagonista e sceneggiatore, dopo non aver trovato un accordo né con Steno né con Lina Wertmuller, a cui la produzione aveva inizialmente pensato di far guidare le riprese, firma anche la regia del film.
Quo Vadis
Quasi cento anni prima de “Il Gladiatore”, è un film del 1913 a raccontare per primo, con immagini per l’epoca decisamente mozzafiato, la Roma degli imperatori. Parliamo di “Quo vadis”, una pellicola diretta da Enrico Guazzoni: primo kolossal della storia della cinematografia mondiale e grande successo internazionale, con la proiezione ininterrotta per ben nove mesi nei teatri di Broadway, dall’aprile al dicembre del 1913 e a Londra, dove ottenne anche il gradimento del re Giorgio V.
Realizzato in oltre due mesi di riprese, con l’uso di cinquemila comparse, di scenografie sfarzose, di set tridimensionali, capaci di ricreare l’antica Roma, oltre che con l’utilizzo di trenta leoni, per le scene ambientate nel Colosseo, il film, grazie alla trama in cui il ruolo del cattivo è assegnato a un crudele imperatore, in cui sono presenti ripetute scene di lotta fra gladiatori e in cui sono evidenti anche degli errori storici grossolani, non ha davvero nulla da invidiare alla pellicola del 2000 prima citata, quella interpretata da Russel Crowe.
La vicenda è ambientata durante gli anni di governo dell’imperatore Nerone, presentato come un uomo ambizioso e ossessionato dal potere assoluto, che per ottenere i propri scopi distrugge tutto ciò che gli si para davanti. Quando un suo soldato si innamora di una giovane schiava cristiana, di nome Licia, il loro amore viene ostacolato proprio dall’imperatore, che fa rapire la coppia e la spedisce in un’arena a combattere contro i leoni.
La Tosca
Nel 1973, Luigi Magni girò il suo secondo film ambientato nella Roma dell’ottocento. A differenza della trilogia, iniziata dal regista quattro anni prima e di cui fanno parte “Nell’anno del Signore” (1969), “In nome del Papa re” (1977) e “In nome del popolo sovrano” (1990), ne “La Tosca” Luigi Magni non prende spunto da fatti storici realmente accaduti, bensì dall’omonimo testo di Victorien Sardou, il dramma da cui Giacomo Puccini aveva tratto la sua famosa opera lirica.
“La Tosca” di Magni è, a tutti gli effetti, un musical, con la meravigliosa colonna sonora di Armando Trovajoli (i testi delle canzoni sono stati scritti dello stesso Luigi Magni), oltre che con un cast d’eccezione, di cui fanno parte una splendida Monica Vitti nel ruolo della protagonista, Gigi Proietti in quello del pittore Cavaradossi, oltre a Vittorio Gassman, Umberto Orsini, Aldo Fabrizi, Ninetto Davoli, Fiorenzo Fiorentini.
Memorabile la scena finale, quando, dopo le note struggenti della canzone “Nun je dà retta Roma”, cantata a distanza da Proietti e dalla Vitti, avviene l’efficacissimo scambio di battute fra una guardia di Castel Sant’Angelo e Tosca. “Abbada che caschi…” le fa la guardia, preoccupata nel vedere Tosca che cammina sul cornicione del castello, ma Tosca, di risposta, lo zittisce con un secco, quasi impassibile: “Nun casco… me butto!”, che resta una battuta finale di livello paragonabile a quel “Nessuno è perfetto!” che chiudeva il film di Billy Wilder “A qualcuno piace caldo”.
Roma città aperta
“Roma città aperta”, di Roberto Rossellini, è la testimonianza quasi in diretta (il film è uscito nelle sale nel 1945, ma la sua genesi è iniziata già nel 1944, a guerra ancora in corso) del dramma della seconda guerra mondiale e del periodo dell’occupazione tedesca della Capitale. Con la magistrale interpretazione di Anna Magnani e di Aldo Fabrizi, la pellicola offre un racconto corale sulla vita quotidiana di una Roma dominata dalla paura, dalla miseria e dal degrado.
Capolavoro del neorealismo, nessuno dei personaggi messi in scena in quel film è realmente esistito, anche se, sia il Don Pietro interpretato da Fabrizi, sia la Pina interpretata dalla Magnani, traggono ispirazione da alcune reali figure storiche, morte durante quei mesi drammatici. Il prete, infatti, riassume in sé le due figure di don Pietro Pappagallo, deceduto alle Fosse Ardeatine e di don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta. Quello di Pina, invece, è ispirato a Teresa Gullace, una donna uccisa dai soldati nazisti mentre tentava di parlare al marito prigioniero: un episodio che ispirò fortemente la più famosa fra le scene del film.
Nel 2014 “Roma città aperta” è uscito nuovamente nelle sale, nella versione restaurata dal “Progetto Rossellini” (un consorzio formato dall’Istituto Luce, dalla Fondazione Cineteca di Bologna e dalla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia) ed è stato proiettato in numerosi cinema, in occasione della Festa della Liberazione di quell’anno.
Scorro questo articolo e mi torna in mente l’odore della sala, la luce bassa e soffusa, che improvvisamente diventa buio, il parlottio sommesso della gente che arriva e il silenzio delle luci che si spengono, il crepitio delle mani nella ciotola dei pop corn, ed eccoli, sfilano i titoli di coda.
Un bellissimo articolo che mi ricorda la bellezza del Cinema in un tempo in cui le sale sono sbarrate.
La religione, la storia, l’identità, la liberazione, il conforto, il rito, il sostegno spirituale, il non perdere la testa, ad ognuno il proprio.
Per altri, per molti, è ‘i’l e ‘nel’ Cinema.
Manca un film “Roma” di Federico Fellini.
La ringrazio per la segnalazione. Ovviamente “Roma” di Federico Fellini ci sarà, così come ci saranno molti altri film in più, oltre a quelli sinora presenti. La lista, come avrà potuto notare, viene aggiornata costantemente. Al momento in cui le scrivo, non siamo ancora arrivati alla metà dei cento film previsti e indicati nel titolo. La invito pertanto a seguirci ancora, anche nei prossimi aggiornamenti.
ricordo un film fine anni 60 girato a Roma
è la storia di un architetto giornalista che attacca sui giornali le speculazioni dei palazzinari ma poi lentamente finischìe anche lui per lavorare con loro.
saprebbe dirmi come si intitolava?
La trama che lei descrive ricorda molto quella di “Una vita difficile”, film di Dino Risi del 1961, con Alberto Sordi e Lea Massari, anche se il protagonista è sì giornalista ma non architetto. Forse si riferisce a quel film.