Roma imbiancata

Pubblichiamo in traduzione (e per pochi giorni) un breve saggio pubblicato nelle scorse settimane da Aeon, un magazine online di cultura e idee pubblicato dall’organizzazione non profit anglosassone Aeon Media. Lo facciamo perché è un tema di interesse pubblico, storico e anche politico. Il testo originale è stato pubblicato a questo indirizzo.

All’alba del XX secolo, i patrioti italiani stavano cercando di superare un profondo complesso di inferiorità. Sin dal 1861, quando Giuseppe Garibaldi unificò le diverse regioni del Paese in uno Stato-nazione, politici e intellettuali avevano anticipato l’arrivo di una gloriosa nuova era. Decenni dopo, però, mancavano i risultati economici, diplomatici e culturali. I nazionalisti sapevano di aver bisogno di un nuovo mito per aumentare la fiducia pubblica, qualcosa che facesse sembrare l’Italia forte e competitiva sulla scena mondiale. Diverse opzioni erano sul tavolo. Alcuni vedevano la religione come una fonte di potenziale unità. Altri indicavano il Rinascimento e la lunga tradizione del repubblicanesimo democratico come progetti ammirevoli. Dopo un lungo dibattito, comunque, la maggior parte degli uomini di Stato si concentrarono su Roma Antica. 

L’eredità classica, così ragionavano, anche se piuttosto lontana nel tempo, era un momento in cui la penisola era stata al centro della scena europea e, probabilmente, mondiale. E decisero, consapevolmente, con questa storia in mente, di proporre ai loro concittadini un nuovo racconto: che avrebbero fatto di nuovo grande l’Italia.

In termini concreti, si trattava di imperialismo. Nel 1912, per dimostrare le proprie aspirazioni globali, l’Italia lanciò un feroce attacco contro la Libia ottomana. Mentre le bombe cadevano su Janzur, il poeta Gabriele D’Annunzio scrisse  “Merope. Canti della Guerra d’Oltremare”, in cui evocava lo spirito della dea romana Vittoria per invitare tutti i patrioti a riconnettersi con “l’eterna memoria” dell’antico passato, e superare la soffocante “crosta dei secoli” per ripartire, sotto una nuova bandiera, a dominare il mondo. 

Altri nazionalisti hanno seguito l’esempio. Nel 1912 fu ripubblicato un trattato del 1889 del saggista Alfredo Oriani che indicava la necessità per il Paese di “tornare a navigare sul suo mare” come “portatore di una nuova civiltà”, mentre il giornalista Enrico Corradini arrivò a suggerire che vi fosse un strada romana nascosta sotto il Mar Mediterraneo che collegava la moderna nazione italiana alle colonie africane sulle quali aveva una “rivendicazione storica”. 

In particolare, tutti questi scrittori si riferivano alla distesa d’acqua con il suo antico nome romano, Mare Nostrum, il nostro mare.

Come tutto il colonialismo moderno, la propaganda italiana aveva sfumature razziste. In effetti, uno dei motivi principali per cui gli intellettuali italiani erano così ansiosi di presentarsi come un gruppo omogeneo era, ironia della sorte, un sottoprodotto della geografia mediterranea della loro nazione. Per generazioni, persone di entrambe le sponde del mare, da Tangeri a Istanbul, si erano mescolate tra loro al punto che gli abitanti della Penisola non potevano sentirsi certi della loro “purezza” etnica. In risposta, negli anni Venti, filosofi come Julius Evola postularono teorie esoteriche su una “super-razza” ariana, una sorta di nobiltà spirituale che apparentemente era sempre esistita in Italia fin dall’epoca romana, e che dava ai “veri” italiani la morale diritto di dominare i non europei. Queste correnti di pensiero si combinarono nell’ideologia del fascismo.

Foto di Fred Romero diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Quando Benito Mussolini salì al, potere nel 1922, lo fece brandendo un immaginario romano – l’aquila, i fasci e un fittizio saluto “antico” – ancora più aggressivo di D’Annunzio e dei suoi antenati. Allo stesso tempo, Mussolini sostenne in modo opportunistico il fiorente settore della scienza della razza, incoraggiando antropologi ed eugenetisti come Alfredo Niceforo e Sabato Visco a produrre prove “empiriche” di quella che chiamava la “vitalità innata” della razza italiana.

Per generazioni, persone di entrambe le sponde del mare, da Tangeri a Istanbul, si erano mescolate tra loro al punto che gli abitanti della Penisola non potevano sentirsi certi della loro “purezza” etnica

Nel 1934, il regime fascista italiano commissionò un’installazione per mostrare il destino degli italiani in quanto legittimi eredi di un impero romano bianco. L’opera, realizzata dall’architetto Antonio Muñoz, era composta da cinque mappe esposte lungo le pareti esterne dell’antica Basilica di Massenzio a Roma. Quattro mostravano la civiltà romana in diverse fasi della sua evoluzione, dall’età di Romolo a quella di Traiano. L’ultima, tuttavia, che Muñoz completò durante le campagne d’Italia in Etiopia nel 1936, raffigurava il piano di Mussolini per ottenere il controllo su tutta l’Africa orientale. Ma non era tutto. Muñoz progettò anche le sue mappe secondo uno schema di colori anacronistico e ideologicamente carico, radicato nella “scienza della razza”. Tutto quel che è all’interno del mondo “italiano” – sia nelle immagini antiche che moderne – è designato dal marmo bianco travertino. Quel che è all’esterno, è invece nero.

Tutto quel che è all’interno del mondo “italiano” – sia nelle immagini antiche che moderne – è designato dal marmo bianco travertino. Quel che è all’esterno, è invece nero

Oggi si è tentati di liquidare l’uso dell’antichità classica da parte di Mussolini come una stranezza tra le tante del fascismo italiano. La scomoda verità, però, è che tutte le maggiori potenze europee hanno fatto paragoni simili, richiamandosi all’antica Roma. 

La Gran Bretagna, ad esempio, che guidò l’opposizione alle forze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, fece a lungo appello a questo tipo di simbolismo per giustificare la propria espansione imperiale. Nel XIX secolo, intellettuali di tutto lo spettro politico, tra cui Benjamin Disraeli, Lord Curzon, Arthur Balfour e Rudyard Kipling, citarono l’eredità di Roma come giustificazione morale per le incursioni britanniche in India, sulla base del fatto che loro, gli europei bianchi, avrebbero portato – così la pensavano – ‘la civiltà’ ai nativi bruni e neri. 

A Londra, nel 1912, il pittore Sigismund Goetze iniziò una serie di murales dannunziani per il Ministero degli Esteri, in cui inventò la fantasia bianca dell’antichità romana. Come fecero poi i fascisti, Goetze usò figure latine e neoclassiche per celebrare le vittorie del suo Paese su vari popoli non bianchi. Un’immagine, che dovrebbe mostrare il regno di Dio in Terra, è particolarmente inquietante. Al centro vediamo Britannia, cinta nella sua armatura imperiale romana. È circondata da una schiera di devoti le cui fattezze seguono i soliti stereotipi, tra cui una geisha giapponese e un guerriero persiano. L’Africa, nel frattempo, è raffigurata al fondo della gerarchia razziale, come un servo nudo che porta la frutta sulle spalle.

Come fecero poi i fascisti, Goetze usò figure latine e neoclassiche per celebrare le vittorie della Gran Bretagna su vari popoli non bianchi

Foto di Fred Romero diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Il mito di una Roma bianca è così radicato nell’immaginario occidentale che ha trovato sostenitori anche fuori dall’Europa. È noto che i padri fondatori degli Stati Uniti tenevano in grande considerazione l’antica repubblica. Thomas Jefferson e John Adams erano grandi ammiratori di Cicerone, che vedevano come un difensore della giustizia, mentre Alexander Hamilton e Patrick Henry identificavano in Catone il Giovane l’incarnazione della libertà.

Il loro idealismo, tuttavia, non può essere separato dalle realtà del razzismo e della schiavitù su cui gli Stati Uniti sono stati effettivamente costruiti. In effetti, non sorprende, dati gli sforzi retorici per mascherare realtà così sgradevoli, che gli anti-abolizionisti si rivolgessero in seguito a Roma per giustificare il suprematismo bianco. Nel 1852, Thomas Roderick Dew, un rispettato professore della Virginia, sostenne che l’antica Roma, dove “lo spirito di libertà brillava con la massima intensità”, era in grado di farlo solo perché “gli schiavi erano più numerosi degli uomini liberi”. 

Nel 1916, in seguito all’emancipazione, l’avvocato e zoologo Madison Grant cercò di sfruttare le paure di molti bianchi americani facendo appello a una storia di persone di colore che “allevavano i loro padroni … [come] nei giorni in declino della Repubblica Romana”.

La maggior parte di noi, spero, si opporrebbe a questo tipo di discorso razzista per motivi morali. Eppure è importante riconoscere che, mentre ci sono grandi differenze tra il fascismo italiano, il colonialismo britannico e i gruppi pro-schiavitù negli Stati Uniti, tutti hanno contribuito a un’idea fantastica sulla bianchezza di Roma che è ancora una caratteristica della civiltà occidentale. 

Anche se ci sono grandi differenze tra il fascismo italiano, il colonialismo britannico e i gruppi pro-schiavitù negli Stati Uniti, tutti hanno contribuito a un’idea fantastica sulla bianchezza di Roma che è ancora una caratteristica della civiltà occidentale

Naturalmente, un ventaglio di figure di alto profilo diverse tra loro, da Antonio Gramsci a Franklin D. Roosevelt, ha lavorato, in modi diversi, per respingere questo abuso della storia. Qui, tuttavia, voglio concentrarmi su due argomenti meno noti che sono particolarmente rilevanti per i nostri tempi postcoloniali: in primo luogo, che i romani non avevano il senso della razza nel senso moderno della parola; e, in secondo luogo, il fatto che nel loro impero, a differenza degli equivalenti moderni, le persone che ora considereremmo non bianche hanno svolto un ruolo di primo piano.

Foto di Fred Romero diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Però, prima di passare al mondo antico, è importante affrontare i sospetti persistenti che la razza sia un concetto scientifico legittimo. Non è così. Numerosi studi hanno dimostrato che la stragrande maggioranza degli alleli genetici umani è condivisa dall’intera specie e che, anche tra i gruppi che abitualmente chiamiamo “razze”, la variazione è troppo grande per identificare categorie distintive e stabili. Il consenso su questo argomento è ora così grande che lo stesso Craig Venter, il pioniere del sequenziamento del DNA, ha affermato che “il concetto di razza non ha basi genetiche o scientifiche”.

Il mio interesse principale comunque, in questa sede, non è la biologia della razza, ma il modo in cui immaginiamo la razza attraverso le narrazioni della bianchezza. La pelle bianca è un tratto fisico neutro. L’idea di bianchezza, tuttavia, ha forti connotazioni culturali. 

I teorici postcoloniali, ispirati dal lavoro fondamentale di Frantz Fanon e Edward Said, concordano ora sul fatto che le potenze europee abbiano inventato questo concetto durante l’Illuminismo come giustificazione pseudoscientifica per la loro espansione politica. La bianchezza era sia una spiegazione che una condizione della supremazia europea. Questo sistema normativo, che affermava parallelamente l’inferiorità dei neri, è la base su cui prospera oggi il razzismo moderno.

I romani, attraverso la lingua latina, furono i progenitori della cultura occidentale. Ma come membri di un’antica società mediterranea, tuttavia, non avevano alcuna nozione di bianchezza. Una semplice ragione è che non erano, o non erano principalmente, bianchi, nel senso che useremmo noi.

Foto di Federico Borghi diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

In passato, tali discussioni erano in gran parte speculative. Oggi, però, grazie a una ricerca della Stanford University pubblicata nel 2019, abbiamo una storia genetica completa di Roma la quale mostra che, nel I secolo d.C., la città-stato era popolata da gruppi di persone di discendenza del Vicino Oriente e del Nord Africa. Quindi, l’idea fascista che “è una mera leggenda che grandi masse di migranti siano entrate in [Italia]” – come sostenevano gli autori del “Manifesto della razza” nel 1938 – è stata ora definitivamente smentita.

Fonti archeologiche e letterarie aggiungono ulteriori sfumature a questo quadro. Lo stesso Virgilio, ovviamente, scrisse nella sua Eneide che i padri fondatori di Roma non erano europei ma troiani, un mix di anatolici e altri popoli asiatici e mediorientali che attraversarono il mare per creare una nuova cosmopoli. Nel frattempo, i resti di case, templi e altri manufatti in Sicilia e nell’Italia meridionale mostrano chiaramente che i greci asiatici e i fenici del Medio Oriente si stavano integrando con le tribù italiche già nel VII secolo a.C.

Alcuni studiosi hanno suggerito che i romani non avessero alcun concetto di razza come categoria. Ciò non è del tutto corretto. Avevano infatti diverse parole, tra cui ethnos, genos e natio, con cui distinguevano i popoli secondo il ceppo familiare, e che, a volte, si sovrapponevano alla razza. Il loro principale principio organizzativo, tuttavia, era geografico. I romani divisero le tribù dell’odierna Francia e Germania in gruppi che comprendevano i Belgi, gli Aquitani e i Galli celtici; e distinsero questi gruppi a loro volta dagli Iberici e dai Gallaici spagnoli. Per quanto riguarda l’Africa, hanno spartito il continente per stabilire distinzioni tra egiziani, berberi algerini, che chiamavano mauri, e fenici “punici”.

Lo stesso Virgilio scrisse nella sua Eneide che i padri fondatori di Roma non erano europei ma troiani, un mix di anatolici e altri popoli asiatici e mediorientali che attraversarono il mare per creare una nuova cosmopoli

Un termine che presenta alcuni problemi è aethiops. In origine, i romani usavano la parola per riferirsi a una particolare tribù: i popoli Kush della Nubia. Nel corso del tempo, tuttavia, gli scrittori arrivarono a usarlo in modo piuttosto generico per riferirsi a tutti i popoli dell’Africa subsahariana. Insolitamente per una distinzione etnica latina, la parola stessa, che ha la sua origine etimologica nel greco per “faccia bruciata”, sembra evocare l’aspetto fisico. In pratica, tuttavia, non è così che lo usavano i romani. Quando hanno avuto bisogno di descrivere la pelle scura come una proprietà fisica, si sono rivolti ad altri concetti, come melas, ater e fuscus, termini usati per descrivere le singole persone. Etiope era un termine geografico e di valore neutro che, proprio come Galli, si riferiva a culture con origini a sud delle frontiere imperiali in Tunisia e Libia.

Foto di Fred Romero diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Gli scrittori romani erano certamente colpevoli di quello che oggi chiameremmo “razzismo”, vale a dire che ipotizzavano che certe culture di certe aree esibissero determinati tratti comportamentali, che spesso legavano al clima e al meteo. Vitruvio, ad esempio, nota che gli africani erano sani e intelligenti, ma che il sole aveva prosciugato il loro sangue rendendoli codardi. Descrive i tedeschi, invece, come persone stupide che però temprate dal freddo, erano diventate forti, con una sana circolazione sanguigna. 

Fondamentalmente, non esiste una gerarchia, qui, in cui i “bianchi” potrebbero essere considerati come “al di sopra” dei neri: mentre Giovenale avverte che gli africani sono cannibali e criminali, Seneca li celebra come amanti della libertà che, nel suo schema personale, è una virtù. 

È importante notare che queste erano osservazioni soggettive. Non ci sono prove che le istituzioni romane abbiano fatto alcun tentativo di sviluppare uno di questi giudizi positivi e negativi in ​​un sistema, per non parlare di una scienza con una pretesa di obiettività. In effetti, anche gli scrittori più bigotti non sono riusciti a estrapolare dalla bianchezza un’idea di supremazia. Giovenale avrebbe potuto disprezzare gli africani, ma nutriva anche un certo disgusto per le tribù germaniche, che considerava degenerate e innaturali, in parte a causa della loro pelle pallida e degli occhi azzurri.

Fondamentalmente, per i romani, non esiste una gerarchia, qui, in cui i “bianchi” potrebbero essere considerati come “al di sopra” dei neri

Molti, consapevolmente o meno, non sono riuscite a cogliere l’importanza di queste distinzioni. Nel XVIII secolo, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann identificò “L’Apollo Belvedere”, una scultura del II secolo, come un paradigma della bellezza classica, cosa che attribuì almeno in parte al suo candore. Come altri fino ad oggi, ha commesso l’errore di presumere che l’abbondanza di semplici statue di marmo che rimangono dall’antichità siano la prova che le popolazioni romane preferissero i corpi bianchi a quelli neri. 

Ciò però è sbagliato per molte ragioni. Innanzitutto perché ci sono moltissimi esempi di statue realizzate in marmo grigio, rosa e verde. Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che le fonti letterarie ci dicono che quasi tutte queste opere erano originariamente dipinte in blu, rosso e giallo policromi.

Alcuni critici particolarmente ostinati hanno risposto sostenendo che la maggior parte delle statue dimostra comunque una “fisionomia europea”. Lasciando da parte la domanda su cosa ciò possa effettivamente significare, possiamo vedere da altre forme d’arte, come i dipinti, che le idee romane di bellezza non erano esclusivamente bianche. I ritratti di Fayum, dal I al III secolo, raffigurano persone dalla pelle marrone e dagli occhi scuri in un modo che li suggerisce chiaramente degni di ammirazione. 

Foto di Fred Romero diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Anche i poeti hanno lasciato numerose odi che celebrano i corpi neri. Asclepiade, un medico asiatico, paragona l’oggetto del suo desiderio a un “carbone” che, quando riscaldato, diventa “brillante come boccioli di rosa”, e Marziale descrive una donna che è “più scura di notte, che una formica, una pece, una taccola, una cicala” come ideale di bellezza.

Potrebbero non esserci prove che suggeriscano che i romani africani abbiano subìto una seria discriminazione basata sul colore della loro pelle. Tuttavia, proprio come gli inglesi e i tedeschi, queste persone hanno lottato per superare la loro reputazione di “provinciali”. Mentre l’élite imperiale di Roma era multietnica, la classe dirigente era dominata da famiglie patrizie che rivendicavano antenati alla nobiltà fondatrice. Ciò ha reso difficile per i cittadini nati in territori più lontani salire di rango. Non era, tuttavia, impossibile. In effetti, ci sono molti esempi di individui non bianchi che raggiungono posizioni rispettabili. Uno dei modi più comuni per farlo, era attraverso la carriera militare. Lusius Quietus, un comandante di cavalleria, nato nell’odierno Marocco, ottenne un tale prestigio sul campo di battaglia che Traiano lo nominò effettivamente suo successore (Quietus, tuttavia, fu assassinato nel 118 d.C., prima di assumere il potere). Maris Ibn Qasith, un affascinante soldato dell’Asia Minore, divenne una celebrità dopo i suoi successi nella lotta contro i Galli.

La letteratura e la filosofia hanno fornito un percorso alternativo per il successo. Terenzio, che proveniva dalla moderna Tunisia, è autore di diverse commedie popolari che nei secoli successivi avrebbero influenzato luminari europei come William Shakespeare e Molière. Apuleio, originario dell’odierna M’Daourouch in Algeria, è l’autore dell’unico romanzo romano sopravvissuto, “L’asino d’oro”. Marco Cornelio Frontone, oratore e grammatico, era di origini berbere, anche se evidentemente non incontrava ostacoli che gli impedissero di essere scelto come tutore di due futuri imperatori, Marco Aurelio e Lucio Vero.

Foto di Fred Romero diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

La ascesa di Settimio Severo è forse l’esempio più chiaro di qualcuno che ora chiameremmo un “romano nero” che raggiunge i livelli più alti dell’establishment. Nato nel 145 d.C. a Leptis Magna, in quella che oggi è la Libia, Settimio si trasferì nella Capitale da adolescente e si fece strada lentamente tra i ranghi politici, attaccando la corruzione al Senato. Nel 193 d.C., dopo essersi assicurato un notevole sostegno pubblico, guidò un colpo di stato militare e prese il potere come imperatore. Tuttavia, la cosa più interessante di Settimio, in questo contesto, è il modo in cui ha minimizzato e celebrato la sua identità africana. Da un lato, l’imperatore era ansioso di non apparire provinciale. Si impegnò a fondo per mascherare il suo accento punico, e si preoccupò di viaggiare fino all’estremo nord, fino alla Scozia, per dimostrare la sua mondanità.
Allo stesso tempo, Settimio era chiaramente orgoglioso delle sue radici. Il suo più stretto consigliere, Plautiano, era un amico della Libia, e istituì un nuovo corpo imperiale, pieno di soldati punici, per sostituire la guardia pretoriana in Italia. Settimio investì ingenti somme di denaro a Leptis Magna durante il suo regno e commissionò sia un arco di trionfo che un importante foro per la città. Alla fine del II secolo, la sua città natale un tempo insignificante era, insieme ad Alessandria, una delle metropoli più ricche dell’impero.

L’aspetto più notevole della storia severiana, tuttavia, non sono tanto i successi individuali di Settimio, quanto ciò che la sua dinastia ci dice sulla politica della razza nell’impero. Il figlio maggiore di Settimio, Caracalla, era, secondo la maggior parte dei resoconti, un sovrano incapace, vendicativo e intemperante. Tuttavia, fu lui che nel 212 d.C. approvò una delle opere più “progressiste” della legislazione romana, la Costituzione Antonina, secondo cui tutti i popoli liberi residenti nei territori imperiali avevano diritto alla piena cittadinanza.

Gli storici hanno spesso cercato di minimizzare l’importanza di questa misura, sostenendo che Caracalla aveva introdotto questa politica solo per aumentare le entrate fiscali a proprio vantaggio. Le sue motivazioni personali, tuttavia, sono poco rilevanti qui. Resta il fatto che nel III secolo, una neonata dinastia periferica unì con successo tutti i popoli dalla Germania alla Siria nello stesso corpo politico. I contemporanei di Caracalla attaccarono l’imperatore per la sua decadenza, il suo narcisismo, la sua superstizione e la sua sete di sangue. Nemmeno i suoi critici più accesi, tuttavia, come lo storico Cassio Dione, avanzarono obiezioni basate sul colore della pelle. Non possiamo ignorare questo silenzio. In effetti, probabilmente ci dice tanto sull’atteggiamento dei romani nei confronti della razza quanto le poche cronache frammentarie che rimangono.

Foto di Fred Romero diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Non è difficile capire perché le moderne potenze coloniali si siano rivolte a Roma per trovare ispirazione. La repubblica e l’impero erano entrambe società patriarcali che, a volte, tolleravano l’espansionismo militare. E sebbene fossero in un certo senso cosmopoliti, erano anche xenofobi e intolleranti verso altre culture che si proponevano di governare secondo le proprie regole. Tuttavia, come ho dimostrato, l’idea che Roma fosse bianca è insostenibile su quasi tutti i fronti. Sfortunatamente, fino ad oggi, questo non ha impedito ai gruppi di estrema destra di riprodurre una versione distorta e razzista del passato classico a proprio vantaggio. Nel 2016, i membri di “Identity Evropa” (in seguito American Identity Movement), un’organizzazione neonazista ormai sciolta, hanno iniziato a utilizzare le figurine di statue classiche come avatar nei loro forum. Da allora questo tropo è diventato un segno distintivo delle comunità suprematiste bianche.

L’idea che Roma fosse bianca è insostenibile su quasi tutti i fronti

Nel frattempo, Richard Spencer, il teorico della cospirazione statunitense, ha apertamente chiesto la formazione di un nuovo “stato etnico” che, sostiene (contrariamente a tutta la verità storica), rappresenterebbe una “ricostituzione dell’impero romano”. Tra i suoi sostenitori ci sono membri del gruppo sciovinista “Proud Boys” e gli incel che in passato frequentavano il forum Red Pill di Reddit, e che ora producono gif “classiche”, in cui attribuiscono citazioni “razziste” fittizie a scrittori antichi in per imporsi sui liberal su Twitter e Facebook. Non c’è niente di banale in questo fenomeno. Come ha avvertito la classicista Donna Zuckerberg nel 2018, questi gruppi non stanno solo scherzando: “stanno “[trasformando] il mondo antico in un meme”, per proiettare la loro ideologia nel mondo.

Potrebbe essere ragionevole ignorare semplicemente questa propaganda, se non fosse sempre più visibile anche offline. Nel 2017, quando gli attivisti di estrema destra hanno marciato a Charlottesville, lo hanno fatto dietro le immagini di Adriano e Marco Aurelio, accompagnate da frasi come “Proteggi il tuo patrimonio” e “Ogni mese è il mese della storia bianca”. 

Molti dei rivoltosi che hanno preso d’assalto il Campidoglio a Washington all’inizio di quest’anno indossavano magliette con l’aquila d’oro di Roma, oltre a tatuaggi con le lettere SPQR, il motto dell’antica Repubblica. Un manifestante ha anche mostrato un cartello in cui il volto di Donald Trump era stato photoshoppato su quello di Maximus Decimus Meridius, l’eroe immaginario del film “Il gladiatore” (2000), sopra il messaggio “Attraversa il Rubicone” (un riferimento al momento in cui Giulio Cesare ascese al ruolo di dittatore).

Molti dei rivoltosi che hanno preso d’assalto il Campidoglio a Washington all’inizio di quest’anno indossavano magliette con l’aquila d’oro di Roma, oltre a tatuaggi con le lettere SPQR, il motto dell’antica Repubblica

I rivoltosi di Washington hanno pianificato la loro insurrezione per contestare ciò che consideravano, falsamente, un’elezione presidenziale “truccata”. Eppure le loro azioni avevano anche un significato simbolico inseparabile dalle scomode verità sulla storia degli Stati Uniti. Gli organizzatori erano chiaramente consapevoli che l’iconografia romana del Campidoglio, che è stato costruito da persone schiavizzate, rappresenta davvero un dualismo tra democrazia, da un lato, e razzismo, dall’altro. “Occupando” lo spazio in un modo teatrale così bizzarro e condividendo selfie tra le colonne corinzie, stavano tirando fuori le contraddizioni irrisolte ancora presenti nel cuore delle stesse istituzioni. Dando nuova vita a una versione americana della fantasia della Roma bianca, stavano, come molti prima di loro, fornendo una giustificazione anacronistica per il razzismo.

Dagli anni Ottanta, e dalla pubblicazione della fondamentale storia in tre volumi di Martin Bernal, “Black Athena” (1987-2006), i classicisti hanno cercato di decolonizzare la loro disciplina per prevenire appropriazioni indebite di questo tipo. Oggi c’è una nuova urgenza in questa discussione. Nel 2015, Zuckerberg ha fondato “Eidolon”, una rivista online ad accesso aperto che mira a fornire una piattaforma per “Classici senza fragilità” e, per estensione, a educare meglio il pubblico sulle sfumature di come i popoli antichi si avvicinassero effettivamente a diversi argomenti, compresa la razza. 

Nel 2017, in modo simile, una coalizione di studiosi ha creato “Pharos”, un progetto web per contrastare la distorsione del passato da parte dell’estrema destra “documentando e rispondendo alle appropriazioni dell’antichità greco-romana” sotto forma di fact checking. 

È chiaro, tuttavia, che sono ancora necessari seri cambiamenti all’interno dello stesso mondo accademico. Nel 2019, durante un incontro a San Diego della Society of Classical Studies, Dan-el Padilla Peralta, studioso di studi classici alla Princeton University, è stato pubblicamente accusato da un classicista bianco di aver raggiunto la sua posizione grazie solo al colore della sua pelle. Peralta ha risposto in modo provocatorio, affermando che se gli Studi Classici non danno immediatamente priorità alla diversità, non affronteranno mai la propria complicità nella costruzione dell’ideologia del bianco.

Un numero crescente di artisti ha lavorato per affrontare questo squilibrio e alcuni hanno persino raccolto l’invito a “riscoprire” le dimenticate frontiere cosmopolite di Roma

Inevitabilmente, la discussione su come migliorare concretamente la rappresentanza, e quindi trasformare il canone, dovrà svolgersi nelle università. Quelli di noi che guardano dall’esterno, però, non hanno bisogno di guardare oltre gli schermi TV per vedere dove le cose potrebbero cambiare utilmente. Pensiamo, ad esempio, a quanto sono bianche le nostre idee cinematografiche di Roma. Quanti film sono stati realizzati che esplorano l’assassinio di un improbabile Giulio Cesare caucasico? E quanti pochi si impegnano con le realtà della vita, diciamo, a Leptis Magna? Quante narrazioni vengono prodotte ogni anno sui Celti e sui Galli, e quante poche sugli antichi Berberi ed Etiopi?

Per fortuna, negli ultimi due decenni, un numero crescente di artisti ha lavorato per affrontare questo squilibrio e alcuni hanno persino raccolto l’invito a “riscoprire” le dimenticate frontiere cosmopolite di Roma. Il romanzo di Bernardine Evaristo “The Emperor’s Babe” (2001), che segue una giovane ragazza sudanese che ha una relazione con Settimio Severo nell’antica Londinium, è un’opera di finzione eccitante ed energica. Ma evocando le voci nere della Roma imperiale, è anche un testo politico che sfida i lettori a ripensare alle loro ipotesi sulle società antiche. 

Il significato di Roma cambia ad ogni generazione, e la nostra non fa eccezione

“Venus Nigra” (2017) di Beya Gille Gacha, un busto nero della classica dea dell’amore romana, è un’opera bella ed enigmatica a sé stante. Come il romanzo di Evaristo, però, anch’essa ha uno scopo didattico, in questo caso educare il pubblico sull’appropriazione razzista delle statue di marmo bianco.

Il significato di Roma cambia ad ogni generazione, e la nostra non fa eccezione. Eppure qui c’è un’opportunità, oltre che una minaccia. Mentre i classicisti affrontano l’urgente questione di come riscattare la loro disciplina dal pregiudizio coloniale, i professionisti della cultura hanno un’opportunità senza precedenti di aiutare il pubblico più ampio a impegnarsi con un’idea di Roma che è più diversificata, realistica e interessante rispetto alla fantasia monocromatica che ha dominato il nostro recente passato. 

Mentre i suprematisti bianchi prendono d’assalto i centri del governo occidentale, questo non è solo un problema di nicchia. Potrebbe svolgere un ruolo fondamentale nel rafforzamento delle nostre democrazie.

 

[La foto del titolo è di Fred Romero ed è stata pubblicata con licenza Creative Commons su Flickr.com]

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