“Taxi Monamour”, un film francese fatto da italiani

Ancora in sala il quarto lungometraggio del regista romano Ciro De Caro, presentato alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia. Un piccolo capolavoro.

L’idea che serva per forza una valanga di soldi per fare un bel film? Commedie come “Taxi Monamour” dimostrano che è sbagliata. Il film di Ciro De Caro è fatto con nulla: solo delle buone idee e alcuni bravi attori. Eppure, è un piccolo capolavoro.

La storia descrive la palude esistenziale in cui affondano due ragazze. Anna, romana, più vicina ai 40 che ai 30 anni. Vive una vita irrisolta, fatta di inerzie, traccheggiamenti, lavoretti che mortificano i suoi possibili talenti (sa benissimo il francese, sa cantare ma fa la cameriera in pizzeria). La ragazza è così indecisa che non ha nemmeno il coraggio di affrontare la malattia che la minaccia. Né di seguire il compagno, con cui ha un rapporto sfilacciato, in Azerbaijan, dove lavora. Con una celebre formula, si potrebbe dire che “fa cose, vede gente”.

L’altra protagonista è Nadia, una ragazza ucraina più vicina ai 20 che ai 30 anni, la cui unica occupazione è tenere un perenne broncio a chiunque abbia a che fare con lei – con una predilezione per la zia che la ospita a Roma. Lavoricchia (assiste un’anziana ma a metà perché non le va di pulirla) e non ha amici. Il resto del tempo lo passa guardando il muro e sognando di tornare a Kiev sotto le bombe. Se Anna e Nadia fossero una canzone dei Beatles, si potrebbero insomma intitolare “Scrambled eggs”.

Date queste premesse, perché ho scritto che è un piccolo capolavoro? Prima di tutto per la regia. Le scelte di De Caro sono quelle di chi riesce a far andare felicemente a braccetto la forma con la sostanza. Un esempio: inquadra costantemente i visi delle due protagoniste, in modo che si vedano quasi solo quelli. Ciò che sta attorno non si vede proprio o quando si vede è sfuocato. Già nella scena di apertura, quella in cui Anna viene vistata, si vede solo la faccia della protagonista. Quella della dottoressa potrà essere vista solo alla fine, per qualche istante. L’inquadratura, oltre a comunicare un senso di asfissia, è un manifesto generazionale. Condensa la condizione di chiusura narcisistica nel proprio mondo che, secondo il regista, caratterizza la generazione di Anna e Nadia.

Un altro esempio è la scena in cui Anna accompagna il fidanzato all’aeroporto. Vengono inquadrati in macchina, mentre vanno verso Fiumicino, ma quando escono dall’auto per i saluti la macchina da presa rimane “seduta” sul sedile posteriore, senza preoccuparsi di riprenderli mentre si baciano. Anche qui, a significare uno spaesamento, una scarsa convinzione sentimentale.

All’inizio Anna e Nadia non si conoscono. A farle incontrare è il caso. E, nonostante i mille ostacoli delle rispettive chiusure, diventeranno amiche. I loro incontri, anche se a fatica, si infittiscono così che due ragazze finiscono per passare (addirittura) una giornata al mare.

Non racconterò, ovviamente, cosa succede alla fine. Dico solo che la tesi di fondo del film è contenuta nel titolo. “Taxi Monamour” sono le parole gridate da due ragazzi extracomunitari all’indirizzo di Anna e Nadia. I due sono in macchina e vorrebbero dare un passaggio alle ragazze, rimaste ad aspettare inutilmente il bus alla fermata per un’ora. Quello dei due uomini è il gesto altruistico (si capisce che non ha secondi fini) che, riconoscendo l’altro e i loro bisogni, rompe il muro dell’isolamento egoistico.

Inutile chiarire che, nel momento in cui Anna viene fatta entrare nel mondo di Nadia e viceversa, le inquadrature acquistano un maggiore respiro. Se alla regia, si aggiungono una sceneggiatura delicata e insieme divertente, la recitazione delle protagoniste (Rosa Palasciano, che è anche co-sceneggiatrice, è davvero convincente), “Taxi Monamour” sembra un film francese (nel senso migliore del termine) ma fatto da italiani.

 
 

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