Sull’Adamant. Dove l’impossibile diventa possibile. Un battello virtuoso
Vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino 2023, il regista Nicolas Philibert, classe 1951, racconta le vite di soggetti psicologicamente fragili che, grazie a un’iniziativa della sanità pubblica francese, ritrovano ogni giorno l’orgoglio di essere se stessi e realizzarsi grazie a una équipe di psichiatri e psicoterapeuti.
L’Adamant, battello ristrutturato e ormeggiato sulle rive della Senna, rappresenta l’integrazione e la capacità di relazionarsi di tali soggetti attraverso le attività auto-educative che vi si svolgono.
Il documentario risulta avvincente, grazie alla delicatezza con cui il regista segue e intervista, usando le inquadrature in primo piano, gli ospiti pronti a raccontarsi con un dono che ad alcuni normodotati manca: la verità, l’ironia, l’ammissione del disagio e la consapevolezza della necessità delle cure farmacologiche. L’Adamant è un moderno rifugio diurno, dove i soggetti fragili imparano a esprimersi attraverso attività artistiche soggettive o condotte in gruppo, quali la danza. Allo spettatore è sufficiente aprire la porta del ‘possibile’ per condividere con queste persone – tutte particolarmente sensibili e intelligenti – i loro sentimenti, le loro proposte di nuove attività, i loro momenti di tristezza. Ponendosi in ascolto, libero da pregiudizi e paure, lo spettatore comprende come “l’impossibile diventa possibile” in nome della fratellanza di genere: quello umano.
Per nulla intimorita dalla telecamera, un’anziana poetessa sorride tra sé quando afferma che “la poesia non è lavoro” e intanto cuce, con calma, le tasche dei jeans di un altro appartenente alla comunità. Un’altra signora riconosce che la sua bambina (affidata a una famiglia) vive meglio così e non con una madre che “parlava con le sue voci”; le “voci” immaginarie sono il trait d’union (insieme alla solitudine esperita nel passato) di chi, ogni mattina, raggiunge l’Adamant per ricevere assistenza medica, affetto, responsabilizzazione. Tutti insieme gestiscono persino un bar interno, aperto anche a chi ha bisogno di una bevanda calda a pochi centesimi; ne seguono la contabilità, assistiti dal personale; a gruppi escono (sempre sotto la discreta sorveglianza degli operatori) per recarsi al mercato rionale e riportare nella moderna cucina dell’Adamant la frutta avanzata e donata loro dai commercianti, così da farne marmellate che, poi, rivenderanno nel bar.
Ogni lunedì mattina c’è il cambio del team di operatori, così da non creare dipendenze affettive negli assistiti e permettere ai medici di interagire e maturare insieme ai pazienti, perché, come dice uno di loro, “i malati mentali non hanno una famiglia”.
Un poeta-musicista intona, accompagnato dalla chitarra, una sua canzone in cui “gli anni passano con dolore confortante”; un giovane ben vestito, ossessionato dalla demofobia e dalle “voci”, è consapevole che le cure somministrate hanno diminuito la sua creatività, ma che, comunque, era indispensabile farlo “per evitare la violenza del mondo”.
Questo ultimo punto – la creatività finalizzata all’espressione artistica – è il denominatore comune tra gli ospiti ed è, infine, il messaggio che lo stesso Philibert, nell’intervista rilasciata in diretta a conclusione della proiezione, ha sottolineato più volte: “l’Adamant è aperto al mondo, alla società capace di ascoltare i sogni, le passioni, per tessere di nuovo i rapporti con la società”.
Non è un’utopia, esiste ed è una struttura pubblica. Il documentario dedicato all’Adamant è solo il primo di una trilogia, la cui seconda parte è stata già presentata alla ‘berlinale’ 2024; il regista ha spiegato che si tratta di tre opere autoportanti: la seconda è ambientata in un ospedale, dove ogni paziente intavola una conversazione con il medico; la terza, infine, seguirà lo sviluppo di alcuni personaggi dei tre film. Philibert, che ha curato anche la splendida fotografia, ha aggiunto che il metodo dell’intervista e dell’improvvisazione ha permesso di rassicurare i protagonisti e cogliere, insieme a loro, la verità più profonda delle loro storie.
Non è un film noioso, bensì avvincente, denso di poesia, elegante, empatico. Per questo, giunto in Italia dopo un anno dalla sua uscita, è stato scelto per celebrare i cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, che molti ricorderanno per le sue lotte contro le condizioni disumane dei pazienti nei manicomi, negli anni ‘60 e ‘70 (presso i quali era ancora praticato l’elettroshock) e l’abolizione degli stessi grazie alla legge n.180 del 1978. Viene da pensare che se Basaglia fosse stato socialmente e politicamente sostenuto nella sua opera di umanizzazione nel trattamento del ‘disagio mentale’, forse, sulle rive del Tevere o lungo i Navigli, oggi ci sarebbe un battello ormeggiato che, alle sei del mattino, apre le porte a chi nella vita ha incontrato solo porte chiuse.
Da vedere, assolutamente; da proiettare nei cineclub, nelle scuole superiori, nelle aule universitarie, negli stessi ospedali, perché di empatia, in questa abnorme normalità che divora se stessa, ne avremmo tutti bisogno.