Non è fiction, ma un racconto basato su fatti realmente accaduti narrato da Gianluca Cicinelli.
C’è stato un tempo in cui, unici tra mille nel vicinato, il sabato mattina a casa mia aprivamo felici la porta ai testimoni di Geova.
Sospettavamo che a mandarceli fosse una zia, sorella di mia madre, che aveva abbracciato quella fede e si era per questo allontanata dalla cattolicissima famiglia.
Erano anni in cui se squillava il telefono in casa tutti si guardavano prima stupiti e poi impauriti, chiedendosi angosciati “Oddio chi sarà?” e perché, interrogando retrospettivamente la coscienza per individuare eventuali peccati innominabili commessi che sarebbero stati puniti di lì a poco da una voce ieratica e minacciosa. Alla fine invece era quasi sempre uno zio Pasquale qualsiasi che voleva salutare, ma era pur sempre considerato un attentato all’intimità del focolare domestico.
Figurarsi quando a squillare era il citofono e quindi il “nemico” era già a due passi dalla porta di casa, precludendoti qualsiasi via di fuga, a meno di non voler ricorrere a una poco dignitosa “morte apparente”, restando in silenzio per interi quarti d’ora senza rispondere, in attesa che il “nemico” si stancasse e riprendesse al contrario la via per cui era venuto. E, badate, non era un’ipotesi, era una pratica realmente utilizzata, anche da noi, un esercizio che richiede nervi saldissimi e un controllo così totale del respiro da far piangere di rabbia il più celebrato dei santoni tibetani.
Il sabato mattina invece era diverso, perché sapevamo con certezza chi avrebbe suonato e ci preparavamo come per andare a una festa.
Va detto che mio padre era ormai in pensione, ma non aveva certo il problema di come passare il tempo, immerso tra libri e giornali che sfogliava fino agli annunci mortuari, per godere talvolta della dipartita di qualche suo insopportabile cattedratico coetaneo, di cui ci forniva un’accurata biografia informale e non autorizzata, alternativa a quella smielata di buonismo che compariva sull’annuncio. Mia madre liberava il campo perché andava a messa, altrimenti non avrebbe mai accettato la presenza in casa dei testimoni di Geova, esponente di una rigida pratica del cattolicesimo, che comprendeva indossare il fazzoletto sulla testa entrando in chiesa per la funzione. Vi ricorda qualche forma del nostro tempo rispetto a un’altra religione? Beh, allora avete una buona memoria.
Quindi, lasciati al nostro destino, aspettavamo che intorno alle dieci circa il citofono annunciasse l’arrivo non tanto del Signore ma di almeno due signori, per l’esattezza un signore e una signora che, come dicevano loro, venivano a portare la parola di Geova.
Io avevo il compito di rispondere al citofono e dire “Salite, primo piano”. Restavano sempre un po’ sorpresi, abituati com’erano a essere cacciati a male parole dalla maggior parte dei condomini, ma era un’irresistibile ‘occasione di spiegare finalmente a qualcuno gli scritti di opuscoli come la “Torre di Guardia” o di “Svegliatevi”, titolo che a me che amavo dormire già mi allontanava da quella religione.
I due signori quindi salivano e io li introducevo in salotto dove mio padre, facendo finta d’interrompere la lettura del giornale, alzava la testa guardandomi interrogativamente e così li presentavo. “Queste persone vorrebbero spiegarci qualcosa della Scrittura”, dicevo, ripetendo a pappagallo quello che loro stessi mi avevano detto entrando. Per un attimo coglievo sulla faccia di mio padre l’intensità dello sguardo del cobra reale quando sta per ipnotizzare la vittima pregustando il pranzetto, ma potrebbe essere soltanto un ricordo alterato dal tempo.
Si alzava per stringergli la mano, li faceva accomodare e chiedeva spiegazioni ulteriori sulla loro visita. Ma non solo. S’interessava di che lavoro facevano, se avevano famiglia e così entrava in cordialità ed empatia al punto che m’invitava ad andare a preparare un caffè o un tè per mettere gli ospiti a loro agio.
Quando tornavo dalla cucina con il caffè di solito la conversazione era già avviata. Più che di conversazione si trattava di lunghi monologhi dei due testimoni di Geova. Ricordo una coppia in particolare con dei nomi buffi, Leopoldo e Domitilla, ma abbiamo avuto anche dei comuni Antonio e Riccardo, Ginevra e Paola (non sempre erano uomo e donna), Rosa e Luciano, ne sono passati davvero tanti. Guglielmo, mio padre, li ascoltava con infinita pazienza, senza mai interrompere. O almeno fino a un certo punto. Dopo circa mezz’ora infatti poneva delle innocenti domande che ruotavano intorno alla richiesta di spiegazioni sulle differenze principali tra loro e i cattolici.
Un punto controverso era costituito dall’interpretazione della bibbia, il cui studio è uno degli obblighi fondamentali dei testimoni di Geova. Loro, ingenuamente, convinti di avere ormai in pugno il povero vecchio, iniziavano a fornire spiegazioni unicamente basate sulla loro traduzione ufficiale che si chiama “Traduzione del Nuovo Mondo”.
Quello era il mio momento. Senza mai guardare loro, mostrando un certo smarrimento e confusione, guardando mio padre con stupore intervenivo rivolgendomi a lui e chiedendo conto del fatto che al catechismo mi dicevano delle cose diverse. Devo anche dire per la verità che non ho fatto nemmeno la comunione e il mio rapporto col catechismo s’interruppe quando scoprii che per diventare santo (sono sempre stato molto ambizioso) avrei dovuto mangiare tutti i giorni il minestrone. O almeno così mia madre pensava che si diventasse santi. Che tutto sommato non pretendeva nemmeno il miracolo, però voi non avete idea di quanto facesse schifo e fosse denso il minestrone come lo cucinano a casa mia, quindi la mia vocazione s’interruppe presto e smisi anche di fare il chierichetto, rinunciando tra l’altro all’unico vero campo di calcio su cui abbia mai giocato, 90 metri per 45, proprietà della parrocchia e grande motivo di proselitismo cattolico in tutto il quartiere dove abitavo.
La domanda specifica che dovevo fare, come ci eravamo accordati prima, riguardava la Trinità. Vi annoio con una breve spiegazione. I testimoni di Geova non riconoscono la Trinità, forse per coerenza, essendo un po’ rigidi, nemmeno passavano a Trinità dei Monti durante l’infiorata. Per loro Geova è tutto da solo padre figlio e spirito santo e Gesù è la prima delle creature di Geova, figlio primogenito, che ha aiutato il padre a creare il mondo, che viene identificato con l’arcangelo Michele grazie a una lettura della scrittura basata sulla traduzione dall’ebraico. I fondamenti di queste affermazioni risiedono in differenti traduzioni del vangelo di Giovanni e dell’Apocalisse, del vangelo di Marco e nelle lettere di Paolo ai Colossesi e ai Corinzi.
Questo tema delle traduzioni – era ormai passata più di un’ora da quando la sfortunata coppia era entrata in casa – dava modo a mio padre di entrare in gioco e preparare il finale. Essendosi presentato come un modesto professore in pensione, lui, che rispondendo a me guardava loro sorridendo come a dire “questi giovani non capiscono niente perché sono ignoranti”, aveva a quel punto titolo d’inforcare gli occhiali e, con la scusa di rispondermi, mi chiedeva di andare nella biblioteca del soggiorno e prendere le diverse traduzioni della bibbia che aveva “casualmente” in casa, dall’ebraico al greco, dall’aramaico al latino, compresa la traduzione adottata dai testimoni di Geova, quella di Lutero e altro ancora. Il mucchietto di libri, almeno quindici, era già pronto e io non dovevo far altro che posarli sul tavolino e godermi lo spettacolo. Così, amabilmente e senza far caso allo stupore che si dipingeva sui volti dei propagandisti di Geova, dava inizio a una delle torture più crudeli a cui abbia mai assistito. Apriva le diverse edizioni e le comparava tra loro, arrivando in sostanza a dimostrare l’inesattezza della traduzione geoviana, ma non asserendolo, limitandosi a fare domande sempre più specifiche, sempre più circoscritte, sempre
più squisitamente teologiche a quei due poveri disgraziati che al massimo avevano letto un prontuario di domande e risposte preparato dai loro confratelli per ribattere a obiezioni comuni.
Ma non c’era soltanto l’aspetto dialettico a prolungare di un’altra ora, e siamo già a due ore, la presenza in casa nostra dei malcapitati. Guglielmo, mio padre, contava subdolamente sul fatto che rientrasse mia madre e mostrasse tutto il suo disappunto, e quello era l’unico aspetto spontaneo della faccenda, per la presenza in casa dei testimoni di Geova. Il che dava occasione a mio padre per tenere un altro lungo sermone sulla chiusura dei cattolici verso le altre fedi. Si scusava quindi con gli ospiti e ricominciava a riempirli di domande a cui non dava il tempo di rispondere perché aveva già in mano dei testi, il greco antico era il suo terreno preferito, con cui smontare il testo dei geoviani. Il tempo passava e ho visto il sudore reale, non metaforico, scorrere sui volti sgomenti degli ospiti.
Il punto più alto lo raggiunse con i già citati Leopoldo e Domitilla, che entrarono intorno alle 10 e andarono via dopo le 14. Mia madre quel giorno compì uno dei suoi rarissimi gesti di disobbedienza verso Guglielmo, non aspettandolo per pranzo e andando a dormire in camera sua sbattendo la porta, un gesto che nel lessico della mia famiglia equivaleva alla lettera consegnata dall’ambasciatore giapponese agli americani dopo Pearl Harbor, la dichiarazione di guerra.
A nulla valeva che gli ospiti invocassero improbabili appuntamenti successivi per andarsene, figli a cui far da pranzo, negozi per far la spesa che chiudevano. Ricordo un certo Corrado che a un certo punto, incalzato dalle domande di Guglielmo, esplose in un rabbioso: “Ma la prego, che vuole che ne sappia io, io ho un negozio di scarpe, non ne capisco di queste cose, non le so rispondere, mi lasci stare per favore!”. Al che mio padre senza scomporsi teneva un’altra lezione sull’importanza dello studio e della preparazione anche al di fuori della scuola e che quando si accetta di andare a spiegare agli altri le cose, anzi la verità rivelata come la chiamavano loro, deve sapere più cose delle persone a cui pretende di spiegarle. E con queste affermazioni passavano altre decine di minuti e ho visto gente uscire senza nemmeno salutare per paura di dare il la ad altri discorsi e altri acceleravano proprio il passo avvicinandosi alla porta come in quei sogni dove stai in una stanza con dieci porte ma tutte quelle che apri non portano da nessuna parte e rimani angosciato nella stanza senza speranza di uscirne più.
Tra di noi il nome in codice di questo appuntamento era “L’agguato”. Purtroppo, dopo nemmeno un anno dedicato a questo esercizio, nessun testimone di Geova si è più presentato non solo a bussare alla nostra porta ma a quella dell’intero palazzo. Credo proprio che l’abbiano cancellato per sempre dai loro giri di propaganda. Fine del divertimento.
Soltanto molti anni dopo la sua morte ho scoperto che mio padre era stato un prete fino a metà degli anni Cinquanta. Così ho avuto chiaro che, mentre nei suoi contrasti con i comunisti faceva citazioni assolutamente inventate vincendo il confronto dialettico esclusivamente a causa dell’ignoranza dei suoi interlocutori, quando parlava di teologia parlava della cultura in cui era stato immerso per tanti anni. Scherzi da prete, anzi da ex prete.
- 40 anni di presepe in piazza San Pietro
- L’anima della mejo mortazza!
Gentile sig. Cicinelli, la ringrazio per il buon umore con cui mi ha fatto iniziare la giornata. La descrizione dei fatti arricchita di parallelismi, metafore, sensazioni del vissuto, frammenti di ricordi viziati e arricchiti dal tempo, per qualche minuto mi ha trasportato in casa sua e mi è sembrato di vivere insieme a lei quei momenti. Non le nascondo che durante tutta la lettura dell’articolo non sono riuscito a trattenere un sorriso divertito, seppur appena accennato.
Forse, come testimone di Geova quale io sono, sarò caduto anch’io in qualche “agguato” ma evidentemente non l’ho vissuto come tale. Mi sarebbe piaciuto cadere vittima di suo padre per il solo piacere di conoscerlo. Quasi certamente mi avrebbe fatto a pezzi col suo greco, anzi, senza quasi, ma avrei fatto conoscenza di un bel personaggio con cui non mi sarebbe dispiaciuto affatto né confrontarmi, né dargli ulteriori soddisfazioni, delle sue intendo! Ovviamente non sminuisco affatto l”importanza dei temi affrontati, anzi, forse proprio per quello mi sarebbe piaciuto; certamente avrei avuto modo di imparare molto. E qualcosa mi dice che avrebbe rafforzato le mie convinzioni. Ma questa è un’altra storia…
La saluto cordialmente.
Gentile D’Alessandro, intanto grazie per lo spirito con cui ha accolto questo racconto. Posso solo aggiungere per completezza che la soddisfazione di mio padre non era assolutamente relativa a una battaglia religiosa ma a una conoscenza degli esseri umani e dei nessi logici con cui funzioniamo tutti in situazioni come quella. Trovare il lato inaspettato era il suo divertimento. Lo faceva anche con me nelle nostre discussioni sulla politica. E, memore delle preziose lezioni di mio padre, siccome so che non festeggiate il natale perchè Gesù comandò di commemorare la sua morte, non la sua nascita (Luca 22:19, 20), gli auguri che le faccio sono di serenità e salute per lei e le persone a lei care. Un cordiale saluto
Gentilissimo signor Cicinelli , che dire. Se aggiungessi qualche cosa non farei altro che ripetere ciò che le scritto il mio confratello Vincenzo D’Alessandro con il quale sono assolutamente d’accordo con ogni sua affermazione. Dall’allegria e dal buon umore che ha prodotto in me il suo scritto, alla convinzione che anche a me sarebbe piaciuto incontrare suo padre e imparare molto da quelle conversazioni. Si, anche io sono convinto che ogni uno di noi possa arricchirsi di esperienza con l’esperienza di altri. Questa mia convinzione è provata dal fatto che da oltre 50 anni svolgo la mia opera di casa in casa suonando campanelli di sconosciuti che chiaramente non la pensano come me. Come può immaginare di persone ne ho incontrate molte, e anche se, come giustamente osserva lei, la maggioranza non risponde, nei grandi numeri ci stanno anche molti di quelli che invece hanno aperto e accettato le conversazioni. Quindi la ringrazio ancora sig. Cicinelli per il garbo e la signorilità con cui ha argomentato il suo bellissimo “L’agguato”. Dispiaciuto di non aver potuto mai incontrare lei o suo padre, anche se in futuro non si sa mai cosa può accadere. Si perché io sono convinto, contrariamente a ciò che pensano altri, che anche “Chi muore si rivede”. Le risparmio la sfilza di citazione bibliche e argomentazioni sulle quali baso da anni questa mia convinzione e la saluto cordialmente. Bruno Bargiacchi Arezzo.
Gentile signor Bargiacchi, se il mondo fosse pieno di persone come lei, il suo confratello a cui ho risposto sopra, mio padre e tante altre persone intelligenti, sicuramente non avremmo guerre, nè sante nè laiche. La ringrazio quindi molto per aver colto lo spirito. Non è detto che non ci s’incontri un giorno per un caffè, farcito da citazioni di testi sacri e, soprattutto, di umanità. Accetti i miei auguri per trascorrere giorni sereni con le persone che ha care. Un saluto.