I giornali italiani non sono mai costati così poco

0,33 euro per una copia digitale di “Repubblica”, ma anche del “Corriere della Sera”. Però si vendono sempre meno quotidiani. Viaggio alla scoperta di quello che succede, ed è successo, nella cara vecchia stampa.

 

Riassunto

Oggi una copia di quotidiano digitale – per esempio “La Repubblica” – costa circa 0,33 euro grazie alle varie formule di abbonamento, contro 1,70 euro di una copia cartacea. I contenuti di una copia in digitale e una di carta sono esattamente gli stessi. Nel 1980 i giornali si stampavano soltanto e costavano circa 0,73 euro.

Alla fine del 1986 “La Repubblica” era il primo giornale italiano e vendeva 515.000 copie al giorno. Oggi è il secondo giornale e vende in tutto (tra digitale e carta) circa 130.000 copie. La differenza è stata la nascita del web. Il sito di “Repubblica” è il primo in italiano e vanta più di 3 milioni e mezzo di utenti.

I giornali italiani sono sempre vissuti, anche prima del web, soprattutto sulla pubblicità e sui finanziamenti (pubblici e privati). Oggi però la situazione è più drammatica perché la pubblicità sui quotidiani cala sempre di più e aumenta quella sul web, in particolare l’advertising invasivo stile Google. I giornali, che stanno cercando di ridurre il più possibile i costi tagliando in particolare sulle spese per il personale, cercano di intercettare traffico di lettori, e dunque di ottenere più soldi dalla “pubblicità a clic”, privilegiando spesso contenuti più leggeri, scandalistici o violenti. Quello del giornalista, nel frattempo, è diventato un mestiere sempre più precario e sempre meno pagato, perché gli editori incassano molto meno. E a risentirne è anche la qualità dei media, perché si fa tutto velocemente, in meno persone, comprimendo così il tempo per la verifica delle notizie.

Il web, però, ha portato anche a una moltiplicazione dell’offerta di informazione. E anche utilizzando soltanto contenuti gratuiti, ci si può costruire un palinsesto personalizzato che risponda alla propria necessità di qualità e ampiezza. Il punto dunque è: c’è un altro modello di business possibile per i giornali? Al momento, la creazione di community di lettori e la trasformazione delle aziende editoriali in fondazioni non profit sembra quella più promettente. Ma non è detto che funzioni.

Grazie al digitale, oggi, una copia di quotidiano in Italia costa pochissimo. Probabilmente meno di quanto sia mai costata negli ultimi decenni, considerando il costo della vita. Non parliamo del prezzo del giornale di carta, ovviamente, ma del suo gemello digitale*. 

[*Fatto strano, questo, in fondo: nel 2022, cioè dopo oltre 20 anni di web di massa, mentre si parla di metaverso e lo streaming si afferma sempre di più come nuova tv, naturalmente on demand, la costruzione di giornali e riviste è ancora basata sullo storico modello di carta. Perché alla carta – cioè al contenente – come succede per i libri, si continua ad attribuire un valore importante, che determina anche il contenuto].

Prendiamo il quotidiano “La Repubblica” – proprietà Gedi, cioè Exor, cioè Agnelli –  di cui negli ultimi tempi si è parlato parecchio, soprattutto per la perdita di copie. Una copia digitale del giornale fondato da Eugenio Scalfari e oggi diretto da Maurizio Molinari, di questi tempi, costa davvero poco: 0,33 euro a copia – con la formula di abbonamento 9,90 euro al mese per sei mesi, che comprende anche accesso al sito e allegati – rispetto agli 1,70 euro del cartaceo che si può acquistare in edicola quando non ci sono i supplementi. 

 

Nel 1980 una copia costava l’equivalente di 0,73 euro

Nel 1980, quando “La Repubblica” esisteva già da quattro anni, un giornale costava mediamente 300 lire. Cifra che, con l’adeguamento dell’inflazione oggi corrisponderebbe a circa 0,73 euro. Era il prezzo di una copia di carta, dirà qualcuno, con costi maggiori dovuti al materiale, alla stampa, al lavoro. Ed era il prezzo all’edicola: in abbonamento, sarebbe costata meno. Certo, va considerata l’evoluzione della tecnologia, che ha portato all’abbattimento di tantissimi costi, e va considerato anche il vantaggio dell’abbonamento, ma resta comunque un fatto importante: il contenuto di un quotidiano oggi costa meno di sempre o quasi. Non vale per tutti i quotidiani, ma vale per le testate principali.

Eppure, nonostante il basso costo, a giugno scorso, “La Repubblica” ha venduto circa 43.000 copie digitali (dati ADS), contro le 83.000 cartacee. Complessivamente, insomma, il giornale ha venduto meno di 130.000 copie al giorno, cioè quasi la metà del “Corriere della Sera” (che ha lo stesso prezzo, digitale e cartaceo, di “Repubblica”). 

 

Il crollo delle copie

Per capire le dimensioni del cambiamento, prendiamo il 1986. Quell’anno “La Repubblica” superò il vecchio “Corriere” – il quotidiano più venduto in Italia dal 1904 – arrivando a vendere 515.000 copie (cioè oltre quattro volte le copie che vende oggi). Abbiamo parlato di “Repubblica”, ma la questione in realtà investe tutti i quotidiani italiani. Nel 1986, i giornali vendevano complessivamente in media oltre 6 milioni di copie. Nel 2013, le copie erano diventate meno di 4 milioni. Nei primi sei mesi del 2022, secondo l’Agcom, nei primi sei mesi dell’anno, sono state vendute giornalmente 1,57 milioni di copie (cioè quasi quattro volte in meno rispetto al 1986).

Secondo il 55esimo Rapporto Censis, uscito nel 2021, i lettori di quotidiani sono calati dal 47.8% degli italiani nel 2011 al 29.1%.

Quello che si è consumato in questi anni è dunque un dramma? Per i quotidiani, soprattutto, sì. Ma non per forza per quella che chiamiamo l’informazione.

 

La forza del web

Nel 1986 il web non esisteva. L’informazione viaggiava ovviamente non soltanto sulla carta, ma anche in tv e sulla radio (erano già nati network privati, si erano moltiplicati i tg e i gr, i fili diretti, le rassegne stampa, i programmi di approfondimento). Oggi, le testate giornalistiche sono alcune migliaia e non hanno più altro limite nella diffusione che l’esistenza di una connessione Internet, oltre a poter contare su un vasto pubblico che attraverso i social media condividono millemila volte notizie, articoli, foto, video, etc. (E, non ci credereste, ma esistono ancora circa un centinaio di quotidiani venduti in edicola).

Tutto bellissimo, dunque? Non è vero neanche questo. Il paradosso, infatti, è che in presenza di una quantità incredibile di media, sembra calata la qualità percepita dell’informazione. Notizie parzialmente o completamente sbagliate (che successivamente vengono smentite, ma il danno è fatto) o vere e proprie fake news; eccesso di gossip, come la vicenda Totti-Ilary, eccesso di leggerezza oppure di sensazionalismo (violenze, stupri, etc); errori di ortografia e di battitura, ecc. Da cosa dipende?

 

I giornali non sono mai vissuti grazie alle vendite

Ci sono diverse ragioni. La prima, sta nel fatto che i giornali, in Italia, non sono mai vissuti grazie unicamente alle vendite – anche se le vendite erano certamente una parte importante – ma anche alla pubblicità, parecchio, e ai finanziamenti pubblici (diretti e indiretti) e/0 privati*. 

[*Com’è noto, per moltissimi decenni gli editori “puri”, quelli che fanno solo editoria, si sono potuti contare sulle dita d’una mano o quasi: la stragrande maggioranza erano, o sono ancora, gruppi che fanno i soldi con altri prodotti. I giornali sono sempre serviti soprattutto per esprimere posizioni e influenzare il governo, il Parlamento, le amministrazioni locali, l’opinione  pubblica].

I finanziamenti pubblici diretti rappresentano oggi una voce d’importanza relativa nell’economia generale dei media e non riguardano più i giornali di partito, né i “grandi” giornali, ma vanno, in sostanza, a cooperative editoriali, pubblicazioni delle minoranze linguistiche, enti senza fine di lucro. Nel 2021 assommavano a 88 milioni di euro. I finanziamenti indiretti, come quelli per favorire l’acquisto di giornali da parte di scuole ed enti oppure per contribuire a crisi di aziende editoriali, sono stati di circa 64 milioni. La cifra più consistente, quasi 233 milioni di euro, è andata per vari crediti d’imposta, che sostengono la diffusione di giornali nei piccoli Comuni, per le rese, per l’acquisto della carta, etc. 

 

La fuga della pubblicità dai quotidiani

Complessivamente, dopo la pandemia, i contributi pubblici per i giornali sono aumentati nettamente (in linea con altri Paesi europei). I proventi della raccolta pubblicitaria, invece, sono calati pesantemente. Tra le fine del 2018 e la fine del 2021 il calo è stato di circa 120 milioni di euro (da quasi 564 milioni di euro a circa 445 milioni). Ma dal 2010 al 2021 il calo complessivamente è stato del 40.4% per gli spazi e del 65.8% per il valore. I soldi sono andati altrove, e in particolare all’advertising online.

I dati sulla pubblicità in Italia nel 2021 di Nielsen dicono che, a fronte di una raccolta complessiva di quasi 9 miliardi di euro, al settore digital è andato più che alla tv: 3, 777 miliardi di euro contro 3,718. Ai quotidiani sono andati soltanto 465 milioni (ai periodici 222).

Riassumendo: calano le vendite, cala la pubblicità sui giornali, aumenta, parecchio, quella digitale e sul web. Non soltanto in Italia, in tutto il mondo, è bene specificarlo (negli Stati Uniti, per esempio, le copie vendute sono passate tra il 1989 e il 2020, in media da 62 milioni a poco più di 20 milioni). Ma è anche bene aggiungere che il caso italiano è piuttosto drammatico, rispetto ad altri Paesi europei. 

Per fare un esempio: secondo i dati ACPM in Francia (Paese che conta 8 milioni di abitanti in più rispetto all’Italia) il primo quotidiano nazionale per vendite è “Le Monde”, con oltre 458.000 copie (e 500 giornalisti), il secondo “Le Figaro”, con quasi 350.000 copie. Il primo tra i regionali è Ouest-France, con 624.000 copie. Importante: in Francia, due terzi delle copie di quotidiani vendute sono ormai in digitale.

Una differenza da tenere in conto, è anche la propensione alla lettura di libri: se in Italia il 40% degli intervistati (sopra i 6 anni) dice di aver letto almeno un libro nell’ultimo anno, in Francia questa percentuale sale al 92% (sopra i 15 anni).

 

Un tanto al clic

I minori incassi dovuti agli acquisti e alla pubblicità hanno portato dunque a tagliare il numero dei giornalisti delle singole testate e a puntare soprattutto sulla pubblicità web, compresa quella di Google ADS e simili, che frutta denaro in base al traffico. Più visitatori, cioè più clic, più soldi. Questo meccanismo è alla base, probabilmente, delle scelte editoriali di alcuni grandi quotidiani, che vengono criticati perché danno ampio spazio ad argomenti futili, provocatori, oppure scioccanti per creare un maggior traffico, esattamente come fanno testate native digitali (per esempio, fanpage.it, che pure pubblica a lato inchieste e pezzi di informazione rigorosa). 

E dunque, torniamo a “Repubblica”: nel maggio 2022, dati Audiweb, era il sito di quotidiano più seguito in Italia, con 3.524.434 utenti unici al giorno. Il vero pubblico del giornale oggi è quello, non semplicemente chi compra una copia del quotidiano. Il digitale si basa sulla conversazione con il lettore. I lettori, quando vengono sul sito e scelgono certi argomenti, è come se ti dicessero cosa vogliono. Sono indicazioni su cui lavorare per produrre storie in linea con i loro gusti”, ha detto Maurizio Molinari, direttore di “Repubblica”, in un’intervista a “Prima Comunicazione” che ha avuto l’effetto di scatenare lo sciopero dei suoi giornalisti. 

 

Il ritorno delle 3 S (più i gattini)

Una regola non scritta dei giornali è sempre stata quella delle 3 S che servono per far vendere: sangue, soldi e sesso. Non tutti i quotidiani l’hanno seguita, alcuni lo hanno fatto solo in parte. Ma oggi, non avendo trovato un modello di business che funzioni meglio, oltre a tagliare i costi soprattutto risparmiando sul personale, per assicurarsi clic e quindi soldi dall’advertising online, i giornali hanno rispolverato la regola delle 3 S in versione 2.0, aggiungendo alla bisogna influencer, cinghiali e gattini, gente che fa i bisogni in pubblico, storie di cuore, beauty e tante “storie virali” per rincorrere i social.

 

La precarizzazione dei giornalisti

La velocità del digitale, poi, ha compresso ancor di più la qualità, sacrificando i tempi di verifica delle notizie. Anche perché nel frattempo i posti di lavoro, come dicevamo, sono stati tagliati. E rischiano di esserlo ancora.

Di sicuro, per i giornalisti, c’è un peggioramento delle retribuzioni – in termini di potere d’acquisto, ma in certi casi anche in termini assoluti – e delle condizioni di lavoro. All’Ordine di categoria risultano iscritti circa 30.000 professionisti e 75.000 pubblicisti, ma secondo l’Agcom nel 2018 erano complessivamente circa 36.000 quelli attivi (in termini di potere d’acquisto). 

I principali quotidiani – e le principali riviste – per comprimere i costi stanno attuando da anni esodi incentivati, prepensionamenti, applicano “contratti di solidarietà” e utilizzano vari ammortizzatori sociali, e soprattutto usano moltissimi collaboratori, cioè precari, perché costano meno.

Quanta guadagna un giornalista?
Lo stipendio medio di un giornalista italiano è, secondo il sito Jobbydoo.it, di “38.000 euro lordi all’anno (circa 1.950 € netti al mese), superiore di 400 € (+26%) rispetto alla retribuzione mensile media in Italia”. Nella realtà, però, dice lo stesso sito, che non cita fonti, “la retribuzione di un giornalista può partire da uno stipendio minimo di 10.000 € lordi all’anno, mentre lo stipendio massimo può superare i 200.000 € lordi all’anno”. Un giornalista professionista dipendente può guadagnare senza qualifiche 60.000 euro (cioè il 58% in più della media). Mentre un freelance guadagna il 48% in meno della media dei giornalisti.

La condizione dei freelance è spesso drammatica, perché il prezzo delle collaborazioni si è via via abbassato. Nel 2021, denunciava per esempio il sindacato dei giornalisti (FNSI) parlando del quotidiano “Il Mattino” (come  “Il Messaggero”, proprietà del gruppo Caltagirone), “gli articoli fino a 2.500 battute, quindi la maggior parte dei pezzi, passeranno dalla cifra, già bassissima, di 9 euro lordi a 7 euro”.

Nonostante questo, però, va ricordato che accedere alla professione di giornalista è sempre più una questione di censo. Perché ormai si diventa giornalisti professionisti senza il tirocinio professionale ma passando attraverso le scuole di giornalismo. Quelle riconosciute dall’Ordine dei giornalisti sono 11 (di cui 3 a Milano e 2 a Roma), nella stragrande maggioranza dei casi private. Oggi costano dai 10.000 ai 20.000 euro circa, senza contare le spese per i fuori sede. Proporzionalmente meno di un tempo, ma nel frattempo il mercato del lavoro si è ristretto, e i giornalisti sono divenuti sempre più precari, destinati ad affrontare anni di stipendi bassi o saltuari – mantenendosi con il sostegno dei genitori o altri lavori o lavoretti – fino al momento dell’ipotetica assunzione.

Il giornalismo digitale è vivo (e lotta con noi)

Quello dei quotidiani – nel senso in cui li intendiamo ancora oggi, cioè sviluppati sul vecchio modello cartaceo – è un settore probabilmente destinato a diventare sempre più una nicchia, come nel caso dei dischi in vinile, se già di fatto non possiamo considerarlo tale.
Il digitale e la rete possono fornire un’informazione e un giornalismo di qualità. Già da anni, ci si può costruire un proprio palinsesto fatto soltanto di materiali (che siano articoli, video, podcast, infografiche etc) di qualità gratuiti*.

[Gratuiti perché gli utenti non li pagano direttamente; ma anche se sono finanziati dalla pubblicità, c’è sempre un costo che qualcuno pagherà: per esempio, chi acquista prodotti o servizi degli sponsor]

Anche chi conosce poco le lingue straniere ha la possibilità di leggere, almeno per sommi capi, i media e i giornali stranieri, grazie alla possibilità di traduzione automatica offerta dai browser e dai siti (che ormai ha buoni standard). 
Ma è anche vero che la fruizione online è completamente diversa: si catturano “frammenti di informazione” – un po’ come sfogliando tanti giornali si leggiucchiava qui e lì – ci si ferma spesso solo sui titoli e sui “catenacci” (il che spesso provoca anche malintesi, se non sono fatti bene) e sui video, che sono diventati un formato importante per presentare le notizie e le infografiche.

 

Un altro modello di business?

La questione, appunto, resta quella della mancanza di un modello di business solido diverso, che consenta agli editori di informazione di incassare somme sufficienti almeno a coprire i propri costi, compreso quello di un lavoro retribuito in modo dignitoso. 

Si è sempre detto che i giornali sono i guardiani della democrazia, e alcuni studi indicano una stretta correlazione tra presenza di un’informazione indipendente e impegno civico nei territori. Alcuni anni fa, lo statunitense Granito Center for the Impact Economy ha messo anche a punto un Coefficiente d’Impatto dei Quotidiani (Newspaper Impact Rating, NIR) per misurare la rilevanza e l’impatto sociale dei giornali, su quattro categorie principali. Secondo alcuni, uno strumento simile – che però fino a oggi è stato scarsamente applicato – potrebbe non solo 1. convincere le persone a pagare per contenuti giornalistici di qualità, ma anche 2. attirare investimenti di aziende interessate oltre che al profitto economico pure al proprio impatto sociale e ambientale, e infine 3. stimolare la “filantropia”, cioè donazioni (per questo, però, dovrebbero trasformarsi in aziende editoriali non profit). Insomma, l’idea è quella di giornali – ma forse è meglio dire media – che funzionano come community, più che come aziende classiche.

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