Quei 3 minuti in via Fani che cambiarono l’Italia
Appuntamento in Via Mario Fani, a quest’ora il sole picchia ancora forte a Roma. Andrea Pomella mi aspetta dall’altro lato della destra. Alle sue spalle c’è una siepe e adesso il ristorante Celestina alla Camilluccia, in quell’oramai lontano 16 marzo 1978 c’era invece il bar Altobelli, e lì davanti erano posizionati i 4 brigatisti che spuntarono fuori subito dopo che la Fiat 128 con a bordo Mario Moretti inchioda all’angolo con via Stresa, bloccando la Fiat 130 su cui viaggiava Aldo Moro e, dietro, l’Alfetta della scorta.
Sono bastati tre minuti, per uccidere i cinque uomini che proteggevano il presidente della Democrazia Cristiana, diretto alla Camera dei deputati per il voto di fiducia al quarto governo presieduto da Giulio Andreotti. Andrea Pomella nel suo bel romanzo Il Dio disarmato, edito da Einaudi, racconta quei tre minuti che hanno cambiato la storia d’Italia, insieme alle ultime otto ore di Aldo Moro, da quando solo in casa attende il ritorno del figlio Giovanni.
Mi colpisce subito la differenza tra la via Fani così com’è e quella che ho nella testa, prodotta dal ripetersi di quel nome nel tempo, come pure dalle immagini fotografiche e televisive (penso alla cronaca, oramai storica, del telegiornalista Paolo Fraiese che è ripresa nel libro). Un’impressione che comunico ad Andrea Pomella. Lui mi dice sì, che è così, anche per lui è così.
Del resto, andando a riprendere Il Dio disarmato, dopo la conversazione avuta con l’autore, ritrovo delle pagine dedicate a quest’effetto: “La prima volta che sono andato a via Fani tutto mi è sembrato molto piccolo (…) ogni volta che mi che passeggio sul marciapiedi di via Fani, mi ritrovo fra due grandezze equidistanti ma diverse dimensioni: alla sinistra c’è la memoria delle fotografie e delle immagini televisive del ’78, una memoria che mi fa immergere in una realtà spaziale smisurata, in un cui è concentrata non una strada, non un quartiere, e neppure una città, ma un’intera nazione, una folla di sessanta milioni di individui…”.
Capisco dalle sue parole che lo sguardo scelto è quello della giusta distanza, tra il grande e il piccolo, un trovarsi in mezzo tra due tempi e spazi che restano mobili, legati come sono alla memoria e alla percezione degli eventi. In altre parole è un romanzo che non cerca “una verità storica” o “giudiziaria” ma si affida alla letteratura, alla narrazione che diventa quella di un essere umano, in questo caso Aldo Moro e della sua Via Crucis. Ovviamente non mette da parte quanto si sa del suo omicidio e rapimento, evita tuttavia le teorie e le speculazioni, per muoversi nelle “zone di luce”.
La prosaica realtà di una via diventa lo scenario di uno snodo fondamentale della Repubblica italiana, al tempo stesso l’emersione dall’anonimia ha bisogno della letteratura, e gli esempi potrebbero essere il Calvino del Sentiero dei nidi di ragno, Cercas con Anatomia di un istante o Gli anni di Ernaux. Per Pomella il compito del narratore “è simile a quello di un astronauta in procinto di giungere sulla soglia di una stella morente per osservare ciò che non può essere osservato, e quindi svelare ciò che ci viene nascosto”.
Il Dio disarmato è un libro importante, con uno scarto deciso, rispetto al tran tran quotidiano delle uscite editoriali, e conferma la differenza che può fare un autore che ha qualcosa da dire e sa come dirlo.