Le bacheche del Messaggero
Forse non c’è romano, o perlomeno non c’è romano che abbia più di quarant’anni, che non si sia fermato almeno una volta in via del Tritone, per leggersi gratis l’ultimo numero del Messaggero nelle bacheche esposte davanti l’ingresso di quel quotidiano: “il giornale di Roma, da sempre” come diceva anche una vecchia pubblicità.
Quello che pochi sanno, però, è che proprio quel luogo, con quelle bacheche, sia legato a due degli eventi più tragici della storia novecentesca di Roma e d’Italia, come l’attentato di via Rasella e il rapimento di Aldo Moro. Due momenti diversi, distanti quasi quarant’anni, senza alcun legame fra loro che non sia quella location, in entrambi i casi protagonista fondamentale degli eventi.
L’attentato di via Rasella
È il 23 marzo del 1944, sono le due del pomeriggio e un gruppo di partigiani sta attendendo in via Rasella l’arrivo imminente del battaglione Bozen delle SS, per far esplodere una bomba al suo passaggio. I partigiani hanno studiato attentamente il piano. All’epoca non esistono i telecomandi, né i timer. Per far esplodere la bomba occorre innescare fisicamente una miccia poco prima dell’esplosione.
A farlo sarà Rosario Bentivegna, capo di quel nucleo di partigiani, travestito da spazzino per dare meno nell’occhio e non destare sospetti. Nel piano, ovviamente, viene prevista anche la successiva fuga. Per evitare che l’attentatore venga subito identificato, serve che qualcuno attenda Bentivenga nelle vicinanze, con un cappotto o un impermeabile, per farglielo poi indossare, coprendo così la sua divisa da spazzino, rendendolo meno riconoscibile.
Ad attenderlo, con un impermeabile in mano, ci sarà Carla Capponi, la sua fidanzata venticinquenne, che lo aspetterà per qualche minuto nei paraggi. O almeno questo prevede il piano. Ma il battaglione Bozen, quel giorno, è stranamente in ritardo. L’attesa si sta prolungando oltre il previsto e Carla Capponi, per destare meno sospetti, si avvicina alla sede del Messaggero per fingere di essere ferma lì solo perché vuole leggere il giornale affisso alle bacheche.
In realtà nemmeno deve fingere: c’è stata un’eruzione del Vesuvio nei giorni precedenti e Carla legge la notizia con autentico interesse. Intanto la colonna delle SS tarda moltissimo. Passa mezz’ora. Passa un’ora. La donna a quel punto si allontana un po’ dalle bacheche, passeggiando verso piazza Barberini, per sembrare più credibile. Passa un’ora e mezza. Non sapendo come vincere l’attesa snervante, la donna torna a leggere il giornale.
Quando lo fa, si accorge che i due poliziotti in borghese, che sono di guardia all’ingresso della sede del Messaggero, l’hanno notata. Forse sospettano qualcosa, forse vogliono solo fare i pappagalli con quella bella ragazza che da oltre un’ora sta gironzolando dalle loro parti. Si avvicinano e attaccano bottone. Carla Capponi fa la ritrosa, dice che sta aspettando il suo fidanzato e si allontana rapidamente dalle bacheche.
Sono quasi le quattro del pomeriggio. Il battaglione Bozen finalmente arriva in via Rasella. Rosario Bentivegna accende la miccia e corre verso via del Tritone. Carla Capponi lo vede, lo raggiunge e gli infila l’impermeabile. Ma anche i poliziotti del Messaggero notano quello strano comportamento della coppia e corrono minacciosi verso di loro. Passa un tram in quel momento, che li nasconde per un attimo alla vista dei poliziotti. È proprio l’attimo in cui la bomba esplode e, nella confusione che ne segue, i due partigiani riescono a fuggire.
Il rapimento di Aldo Moro
Sono passati più di quarant’anni, è la primavera del 1978. Da due giorni è stato rapito dalle Brigate Rosse il presidente della Democrazia Cristiana, l’onorevole Aldo Moro. I brigatisti sono ansiosi di fare conoscere al mondo le proprie intenzioni e perciò stilano un primo comunicato, a cui allegano anche una fotografia dell’onorevole Moro per dimostrare che il noto politico è effettivamente nelle loro mani.
Per rendere pubblica la notizia, infilano il comunicato in una busta, lo nascondono in un sottopassaggio oggi chiuso e che all’epoca era in Largo Argentina, sopra una macchina da fotocopie che si trovava in quel tunnel e, da una cabina pubblica, chiamano rapidamente la sede del Messaggero, per indicare il luogo in cui trovare il comunicato e farglielo così pubblicare.
La mattina dopo, però, su quel giornale non c’è scritto niente. La cosa è strana. Le Brigate Rosse sono costrette a chiamare nuovamente la sede del Messaggero per capire il motivo e scoprono che i giornalisti non avevano capito bene dove cercare e quindi non avevano trovato la busta. Un po’ indispettiti, i brigatisti spiegano allora con maggiore dovizia di dettagli l’ubicazione del plico e il comunicato viene così trovato e successivamente pubblicato.
È a quel punto che, da parte delle Brigate Rosse, dovendo a breve fare ritrovare un secondo comunicato, si studia una nuova collocazione. Si pensa, perciò, di metterlo in un punto in cui i giornalisti del Messaggero non possono assolutamente sbagliarsi e non trovarlo. La sera del 26 marzo del 1978, la busta con il secondo comunicato delle BR, viene infilata proprio dove quarantaquattro anni prima si era fermata Carla Capponi: sotto le bacheche che si trovano davanti la sede del Messaggero.
E così, per una serie di coincidenze, quel luogo di Roma torna ad essere protagonista di un altro importantissimo momento della storia. Oggi quelle bacheche sono ancora lì. Certo, la crisi dei giornali cartacei lascia supporre che forse, tempo pochi anni, esse verranno staccate da quel muro.
Sempre meno persone si fermano a leggere in quelle bacheche l’ultimo numero cartaceo del giornale. Probabilmente, fra qualche tempo, nemmeno verrà più pubblicato quel giornale cartaceo, mantenendo solo la sua versione digitale.
Quando ciò avverrà, però, non sarà solo l’ultimo numero di un quotidiano a sparire, ma anche un pezzo importante della storia di Roma.