Casa Savoia: “Mai ‘na gioia!”
C’è un grande tesoro, chiuso in un prezioso astuccio di pelle nera, che dal 1946 è nascosto a Roma, in via Nazionale, nei caveau della Banca d’Italia. Sono le “gioie di famiglia” di Casa Savoia: quasi settemila brillanti e duemila perle, montati su collier, orecchini e spille di varia foggia. Un tesoro che – anche se non ne esistono delle stime ufficiali – ammonterebbe a un valore di svariati milioni di euro.
Proprio per questo, i Savoia hanno avviato una battaglia legale contro lo Stato italiano. L’oggetto della contesa sono gli ex gioielli della Corona, quelli che, tre giorni dopo la vittoria della Repubblica al referendum del 1946, vennero consegnati allo Stato italiano attraverso la Banca d’Italia.
Il principe Vittorio Emanuele e le principesse Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice, hanno dato mandato ai propri legali per seguire la controversia, convinti che quei gioielli possano essere rivendicati dagli eredi dell’ultimo re d’Italia. E convinti che possano tornare ai Savoia, proprio in base a quanto scritto nella Costituzione della Repubblica.
I gioielli della Corona e la Costituzione
La nostra Costituzione, nella XIII disposizione transitoria e finale, dispone che: “I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli”.
I gioielli della Corona, però, che erano di uso quotidiano da parte dei membri della famiglia reale, non vennero mai “avocati allo Stato”, cioè confiscati, a differenza dei beni mobili e immobili della casa reale. Vennero, più semplicemente, consegnati dall’avvocato Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, all’allora governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica. Consegnati, dunque, non avocati. Un’apparente sottigliezza che potrebbe risultare determinante in sede di dibattimento.
A ulteriore paradosso, la richiesta ai Savoia di quei gioielli – anche in questo caso parliamo di richiesta e non di confisca – arrivò direttamente dall’allora presidente del consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, che considerava i gioielli proprietà dello Stato e non dei reali, dato che, secondo lo Statuto Albertino, quei gioielli sono: “gioie di dotazione della Corona del Regno d’Italia”, date in uso al re per l’adempimento delle proprie funzioni.
Dunque, ricapitolando, il doppio paradosso che si è venuto a creare, è che, da una parte lo Stato Italiano ha avocato a sé i gioielli, sulla base di quanto stabilito dal monarchico Statuto Albertino, mentre ora Casa Savoia ne richiede la restituzione, sulla base di quanto scritto nella repubblicana Costituzione Italiana.
É difficile, al momento, fare delle previsioni su come si concluderà questa battaglia legale, anche perché le varie ricostruzioni sulla vicenda, fatte in questi anni, vanno ora tutte verificate su base documentale. Spesso la realtà storica di un episodio – cioè quella accreditata dagli studiosi – non coincide perfettamente con la verità processuale – cioè quella stabilita da un giudice – e questo potrebbe essere uno di quei casi.
Una cosa è comunque certa, cioè che nel verbale redatto il 15 giugno del 1946, che testimonia la consegna dei gioielli alla Banca d’Italia, sia stato scritto che: “Si affidano in custodia alla cassa centrale, per essere tenuti a disposizione di chi di diritto, gli oggetti preziosi che rappresentano le cosiddette gioie di dotazione della Corona del Regno”.
Dunque, i gioielli vanno “tenuti a disposizione di chi di diritto“. Già, ma a chi va attribuito questo diritto? Allo Stato italiano, poiché il loro uso è legato solo alle funzioni di rappresentanza, ormai decadute, del re? Oppure, trattandosi di beni privati, ai Savoia? Presto lo scopriremo.