Roma ha vinto al Circo Massimo!
Molti di voi avranno avuto modo di apprendere, via social e sui giornali, delle polemiche che il recente concerto di Vasco Rossi e l’ampio programma di eventi rock, previsto in estate al Circo Massimo, sta suscitando. C’è chi si lamenta per la musica troppo alta, chi per la paralisi di traffico che quel tipo di eventi provoca nella zona, chi per l’utilizzo di un’area monumentale nell’organizzazione di eventi che prevedono, necessariamente, un’ampia presenza di pubblico.
In un’intervista pubblicata da Repubblica – citata anche in un nostro articolo, un articolo piuttosto critico sull’opportunità di utilizzo del Circo Massimo per eventi rock – lo studioso Andrea Carandini, ha stigmatizzato l’organizzazione di concerti nell’area, sottolineando come sarebbe invece opportuno aprire un grande museo a via dei Cerchi, per valorizzare il monumento.
È come se si pensasse che le due cose, cioè aprire un museo per valorizzare l’area e organizzare eventi in quello spazio, fossero in contraddizione tra loro e inconciliabili. Anzi, non è “come se si pensasse”: ritengo che qualcuno lo pensi davvero. Ma, nel pensarlo, perde di vista lo spirito più autentico della città, il motivo per cui Roma – e più in generale tutte le città italiane, dalla storia spesso antichissima – è sopravvissuta nei secoli, restando vitale e non trasformandosi in una semplice scenografia per turisti.
È la mentalità che porta a trasformare la scalinata di Trinità de’ Monti, da sempre luogo di passaggio, d’incontro, di socializzazione e, dunque, anche di sosta, in un semplice sfondo per cartoline, freddo, asettico, distante, in cui è vietato fermarsi per non incorrere in salatissime multe. Un luogo che qualcuno suggerisce addirittura di chiudere con una cancellata.
È la mentalità che porta a considerare tutto il centro storico di Roma, come una sorta di enorme museo, di albergo diffuso, da cui sono stati via via allontanati i residenti e quello spirito popolare, quella vita vissuta, che lo ha caratterizzato per secoli. Avviando, così, un fenomeno di gentrificazione, i cui limiti sono apparsi chiari durante la pandemia, quando il centro, privato dei turisti, è sprofondato in una crisi economica e d’identità, ben più profonda di molte aree periferiche.
È per questo fenomeno che, la maggior parte dei romani, considera oggi Fontana di Trevi una cosa bella, ma da turisti, lo sfondo adatto per una foto, o per un film come la Dolce Vita, non certo un posto dove incontrarsi con gli amici.
Lo stesso vale per Piazza Venezia, o per Castel Sant’Angelo, o – tanto per restare in un clima da Dolce Vita – per Via Veneto. Tutti luoghi belli e impossibili, considerati quasi alla stregua delle scene di cartone dei film western, quelle dove si vede sempre il saloon e l’ufficio dello sceriffo, anche se, superato il portone, nessun barista e nessuno sceriffo vive e lavora lì.
Il Circo Massimo no. Quello continua a essere una “roba nostra”. Anzi, in questi ultimi anni è diventata ancora più nostra. Perché lì siamo andati, sempre più spesso, in tanti bagni di folla: per scioperi sindacali e per manifestazioni di partito, per festeggiare la Roma e per la vittoria dell’Italia, per rievocazioni storiche e per eventi artistici, per ascoltare i Genesis e per i Rolling Stones, per Laura Pausini, per David Gilmour e, qualche giorno fa, per Vasco Rossi.
Ci siamo andati noi romani, senza per questo allontanare i turisti, comunque presenti. Ci siamo andati con gli amici e coi parenti. Ci siamo andati e abbiamo fatto amicizia con quello sconosciuto che stava per caso seduto accanto a noi. E, a volte, abbiamo pure rimorchiato. E ci siamo sentiti parte di una comunità. E, guardandoci intorno, vedendo il Palatino e la bellezza del luogo, ci siamo ricordati di quanta ricchezza porta con sé questa nostra comunità. Ci siamo sentiti orgogliosi di essere romani. Proprio perché eravamo lì, al Circo Massimo, dentro duemila anni di storia.
No, tutto questo non sarebbe uguale, se lo stesso evento, lo stesso concerto, fosse realizzato all’Auditorium, o a Capannelle, o allo stadio Olimpico. Bei posti, per carità, ma che non hanno dentro tutto lo spirito di Roma, quello spirito che parte da Romolo e arriva a Roberto Gualtieri, passando per i Papi e per Cola di Rienzo, per il Belli e per Alberto Sordi, per la Pimpaccia e per Gabriella Ferri, per Ciceruacchio e per la Fornarina.
Il Circo Massimo, invece, ha tutto. È un luogo così bello e così grande da contenere, senza problemi, centomila persone e ventisette secoli. Senza considerare che è proprio per questo che fu costruito, ai tempi degli imperatori e delle corse delle bighe: per accogliere in un unico luogo tutta la città, facendole vivere in comunità un grande evento popolare, sportivo e di spettacolo. Francesco Totti, David Gilmour, o Vasco Rossi, dunque, non snaturano quell’area. Anzi, la riportano alla sua funzione originale.
Poi, per carità, si può anche decidere di portare via dal Circo Massimo ogni evento, ogni bagno di folla. Ma sarebbe come spostare da Piazza del Campo il Palio di Siena. Sarebbe come allontanare dal colonnato del Bernini l’elezione di un nuovo Papa. Sarebbe come non fare correre sugli Champs Elysées l’ultima tappa del Tour. Per preservare quei luoghi, si finirebbe per condannarli a morte, per svuotarli di senso e di vitalità.
Siena, Roma, Parigi, resterebbero bellissime, ma col fascino di città fantasma, come quei meravigliosi ruderi di civiltà scomparse, che ci parlano di un glorioso passato, privo di futuro.