Pasolini: 100 anni, la cronaca nera e una disperata vitalità
È strano parlare di Pasolini, oggi a cent’anni dalla nascita, partendo dalla fine, dalla sua morte. Eppure quel 2 novembre 1975, giorno dei morti, resta indimenticabile, come un pugno in faccia. Per Lucia Visca, come per tutti i giornalisti di quella generazione che erano arrivati nelle redazioni giovanissimi e che vedevano Pasolini come un mito, nutriti dei suoi romanzi e forse ancor più dei suoi film, quel giorno doveva rimanere come una sorta di imprinting: lei che era davvero quasi una ragazzina e che ebbe la strana ventura di finire per prima all’Idroscalo di Ostia, quando ancora quel cadavere buttato tra la sabbia, le erbacce e l’immondizia non aveva un nome.
[Questo post è stato pubblicato originariamente su Fogli E Viaggi il 5 marzo 2022]
Lucia Visca torna a riflettere su quel giorno con il suo “Pasolini 1922-2022. Un mistero italiano” (All Around edizioni) dopo averlo fatto con libri precedenti. Oggi – con lo sguardo più lontano dalle emozioni di allora e mentre tanti dei protagonisti di quella vicenda ci hanno lasciato – con una lettura più distesa in cui la morte del poeta, ammazzato a bastonate e calpestato con le ruote della sua Alfa, diventa per prima cosa il capitolo finale di un lungo rapporto tra PPP e Ostia. Rapporto tormentato, pieno di parole aspre: questa città-quartiere torna nei suoi scritti più famosi e mai come un banale luogo in cui si va al mare. Ostia è il titolo del film scritto con Sergio Citti nel quale su queste spiagge, ridotte a un mondezzaio, si compie un fratricidio. “Ragazzi di vita” si apriva col racconto di una gita al mare in tinte fosche in cui le docce “erano piene di giovanotti e di ragazzini come carcasse coperte di insetti”. E in una sua poesia famosissima, “Una disperata vitalità”, compaiono questi versi:
Solo, o quasi, sul vecchio litorale
tra i ruderi di antiche civiltà
Ravenna
Ostia o Bombay – è uguale –
con Dei che si scrostano, problemi vecchi
– quale la lotta di classe –
che
si dissolvono… Come un partigiano
morto prima del maggio ’45,
comincerò piano piano a decompormi
nella luce straziante di quel mare,
poeta e cittadino dimenticato.
Lucia Visca mette insieme queste tessere, intrecciandole ai ricordi di una giornata indimenticabile: le parole della signora Lollobrigida che aveva scoperto il cadavere prendendolo per un “fagotto de monnezza”; il ritrovamento, qualche decina di metri più in là, di una camicia di fustagno con la targhetta della tintoria e il nome Pasolini scritto sopra. E poi l’arrivo degli investigatori della squadra mobile, il gran casino combinato sulla scena del delitto tra poliziotti che calpestano prove e persino una partitella lasciata giocare a pochi metri dal corpo martoriato, appena coperto con un lenzuolo.
Quella morte – nei suoi modi così spropositati da non poter mai sembrare casuali – ha fatto scrivere ad un vecchio amico friulano, Giuseppe Zigaina, che Pasolini l’avesse in qualche modo sceneggiata, come una estrema “offerta di sé”, un cristo crocifisso a bastonate senza neppure la prospettiva della resurrezione con il nome Ostia che rimanda alla parola latina per vittima sacrificale ma anche al pezzetto di pane in cui si compie il mistero della transustanziazione . Questa lettura così estrema fa da contraltare all’altra – fortemente perseguita da tanti amici – che vedono il delitto come una esecuzione, un complotto le cui tracce sono mille volte emerse per sprazzi e mai venuta alla luce.
Lucia Visca rimette in fila tutte le incongruenze, gli errori, le confusioni di una indagine conclusa e cento volte riaperta ma che fin dalla prima sentenza stabilirà che il colpevole aveva agito “in concorso con ignoti”. Nel suo libro fin dal titolo sembra citare una affermazione di Calvi, l’avvocato di parte civile che rappresentava la famiglia e il Comune di Roma: per Calvi l’uccisione di Pasolini insieme a quella di Aldo Moro, che sarebbe avvenuta tre anni più tardi, sono gli unici misteri mai davvero risolti, in cui verità si accavallano e non trovano mai soluzione. Pasolini e Moro, non so se l’accostamento avrebbe fatto piacere al poeta che aveva scritto la durissima invettiva “Io so”. Certo che si tratta di due luoghi oscuri della nostra storia, di due svolte drammatiche. E a chiudere il volume compaiono molte testimonianze e documenti tra cui una incredibile intervista di Furio Colombo a Pasolini, raccolta poche ore prima dell’omicidio, dal titolo profetico voluto dal poeta: “Siamo tutti in pericolo”.
Mi chiedo che effetto potrebbe fare leggere queste pagine ai ragazzi di oggi, se quest’uomo che oggi avrebbe cent’anni ma che è stato fatto fuori ormai quasi da mezzo secolo, parla ancora ai loro cuori, alle loro menti
E poi nel libro c’è l’altro personaggio chiave: quel ragazzino, Pino Pelosi, fermato dai carabinieri nella notte a Ostia mentre provava a scappare sull’auto di Pasolini. L’omicida che poche ore dopo confessò il delitto con un racconto freddo e pieno di dettagli scabrosi, quasi a voler chiudere quella vicenda come una storiaccia di sesso finito male. Lucia Visca si interroga anche sul modo in cui i giornali seguirono i fatti, con un linguaggio che ci sembra lontano dalla sensibilità di oggi, erano anni in cui la privacy non esisteva e i nomi di minorenni con le loro foto finivano sui giornali tranquillamente. È la preoccupazione di una persona e di una professionista sensibile.
Scusate a questo punto una digressione personale. Perché, mentre Lucia era al Paese Sera, io ero al piano di sotto dello stesso palazzo di via dei Taurini, nella cronaca romana dell’Unità e come lei finii a scrivere del delitto. Il capocronista – che era Giulio Borrelli – mi mandò in giro sulle tracce di Pino Pelosi. Un viaggio tra Guidonia e la Tiburtina, tra i bar di borgata e quelli di ponte Lanciani e dei dintorni di piazza Bologna. Lì Pelosi e gli amici passavano le giornate. Ricordo ancora le strade non asfaltate e piene di buche, le case venute su alla rinfusa in una campagna mal coltivata, ricordo le frasi degli amici un po’ vergognosi e un po’ stupiti. Ricordo anche di una barista che mi disse: “Frequenta brutta gente, non è lui il cattivo. Il cattivo è quell’amico suo, Johnny”. Johnny lo zingaro era il soprannome di Giuseppe Mastini. Per me all’epoca non significava nulla, poi divenne famoso e tra gli eterni sospetti. Non ero un “nerista” e in fondo mi colpivano di più gli elementi sociali di questi ragazzi sbandati, i paesaggi urbani della periferia slabbrata e abbandonata a sé stessa. Non ho mai avuto teorie su questo delitto che ci aveva portato via probabilmente l’intellettuale italiano più importante del dopoguerra.
Un bel libro questo di Lucia Visca, che mette al centro i fatti – non solo i ricordi – e in qualche modo con molto pudore anche se stessa, che si definisce una “sopravvissuta” ad un evento così più grande della ragazzina appassionata di giornalismo che era allora. Mi chiedo che effetto potrebbe fare leggere queste pagine ai ragazzi di oggi, se quest’uomo che oggi avrebbe cent’anni ma che è stato fatto fuori ormai quasi da mezzo secolo, parla ancora ai loro cuori, alle loro menti.
I protagonisti di allora non ci sono quasi più, i paesaggi sociali e urbani sono radicalmente cambiati eppure dentro le sue pagine, tra i versi delle sue poesie, dentro i suoi film c’è un pensiero complesso e una terribile passione – quella “disperata vitalità” – che non si lascia schiacciare nelle interpretazioni facili o nelle definizioni “a una dimensione” (il nostalgico dell’Italia contadina, lo scrittore corsaro, il poeta splendidamente decadente…). Speriamo che questo centenario non passi invano.
Lucia Visca, “Pasolini 1922-2022. Un mistero italiano”, All Around edizioni
Questo post è stato pubblicato originariamente qui.
[Roberto Roscani scrive di sé: nato a Roma nel 1952. Dal 1974 all’Unità, dove mi sono occupato molto di Roma, di cultura e poi di politica. Appassionato di storia – la laurea ce l’ho ma talmente tardiva da essere quasi una scusa per i soldi spesi in tasse universitarie – e di architettura, tagliatore di capelli in quattro: occupazione molto in voga nel Pci dei miei anni]