Scalea Bruno Zevi
A immaginare Roma come un percorso, Valle Giulia dà l’idea di un arrivo, per l’abbondanza di luce e spazio di un luogo in cui la strada si allarga come un estuario.
Valle di fatto, oltre che di nome, la conca che separa la Galleria Nazionale d’Arte Moderna da Villa Borghese è quasi uno stadio, le cui tribune sono due scalinate che si guardano, e danno l’impressione di specchiarsi una nell’altra.
Le strisce pedonali che attraversano tutto lo slargo le tengono insieme, rafforzando il già saldo legame – urbanistica mista a fato – che le vuole dirimpettaie.
L’immagine riflessa nello specchio però, come succede nelle fantasie, è diversa: da una parte lo sguardo si arresta all’ingresso del monumentale contenitore dell’arte di Otto e Novecento; dall’altra invece il verde svetta sopra la scalinata, come una promessa.
Sono intitolati, quei gradini, a Bruno Zevi, architetto, cui tutto quello spazio probabilmente piaceva, così come a Giulio Carlo Argan – intestatario dell’esedra subito sopra – non sarà dispiaciuto quel punto in cui Roma fa la ruota come i pavoni, contesa tra arte e parco urbano inestimabile.
A volerli mischiare, si può guardare verso la scala e l’oasi retrostante attraverso il grande cerchio rosso posto fuori della galleria. Oppure spostarsi alle spalle dell’opera di Bizhan Bassiri, che si chiama Il guardiano e dalle scale domina l’area con piglio di pastore.
Fosse davvero fiume, l’imbarcazione che lo percorre sarebbe il 19, simbolo di lenta navigazione cittadina, il cui tragitto è una specie di Tevere su rotaia che porta il Pigneto ai Parioli, e viceversa.
Arte, tram e natura conducono ciascuno a qualche altrove, e lo spiazzo è dunque soltanto un punto in cui la città fiume si allarga e rallenta, per poi proseguire.
[Alessandro Mauro è l’autore di Se Roma fatta a scale (Exòrma, 2016) e Basilio – Racconti di gioventù assoluta (Augh!, 2019)]