La madre dei Florenzi è sempre incinta
“Guarda mamma, guarda qua!”. Il grido di Alessandro Florenzi da Roma, che mostra orgoglioso alla telecamera la sua medaglia d’oro, appena conquistata sul terreno di Wembley, è senza dubbio una delle immagini simbolo della recente vittoria italiana a Euro 2020. Quel suo grido semplice, spontaneo, con gli occhi pieni di felicità, uguali a quelli di un bambino davanti a un barattolo di Nutella, sembra la quintessenza di un modo di essere, di una romanità, di un’italianità, di un’umanità autentica – resa manifesta domenica sera – capace di restare elementare, basica e di emozionarsi, anche quando la vita, già a vent’anni, potrebbe corromperti e renderti cinico, con una notorietà planetaria e dei contratti da capogiro.
Alessandro Florenzi da Roma, enfant prodige conteso da due quartieri, reclamato da Acilia e da Vitinia – due zone limitrofe che se lo tirano ciascuna dalla propria parte, per illuminare col suo nome e il suo prestigio le vie grigie e anonime di quella periferia sud della Capitale – non si era certo preparato la frase storica e ad effetto. Non aveva un testo scritto da sciorinare al mondo e forse nessuna particolare idea in testa. Gli è venuta così, come verrebbe a chiunque, orgoglioso di poter gridare alla mamma quella sorta di “Tiè!” in faccia al mondo, sapendo per istinto che, per chi fa sport, una medaglia vale di più, molto di più, degli zeri sul conto in banca che ti ha fatto guadagnare il tuo procuratore.
Non credo che ci sia mamma italiana che non si sia identificata, per un momento, nella mamma di Florenzi. Né che ci sia figlio che fa sport che non si sia identificato in lui, magari ricordandosi di quando vinse il torneo di calcetto della parrocchia, o quello di pallavolo interscolastico.
È questa umanità semplice, autentica, spontanea, manifestata in mille modi nella memorabile domenica londinese dell’11 luglio, anche da persone da cui non te lo saresti mai aspettato, il messaggio più diretto e profondo arrivato in Italia dall’isola britannica.
Ti succede quando vedi due amici cinquantenni che si abbracciano e piangono come due ragazzini, che lo sai bene che sono due vip, due che da decenni stanno sulle prime pagine dei giornali, ma in quel momento non sono più Mancini e Vialli, non sono più i campioni inarrivabili e dal portafoglio gonfio, sono solo due amici, due che si conoscono da una vita e che fanno quello che avresti fatto anche tu. Con uno dei due che è pure alle prese con un brutto male, come forse sta accadendo anche a qualche tuo vicino di casa o a qualche tuo conoscente, ma che, nonostante tutto, se ne frega e vive e ride e piange e abbraccia il suo vecchio compagno di avventure, per godersi il momento.
Ti succede quando vedi Leonardo Bonucci da Viterbo, uno che, con una volgarità sfrontata e quasi irritante, grida agli inglesi: “Ce lo succhiano! Devono mangiare ancora pastasciutta!” proprio come farebbe un qualsiasi tifoso, come forse hai fatto anche tu parlando al bar con gli amici, ultrà fra gli ultrà. Al punto tale che, qualche giorno prima, durante la semifinale, una steward londinese lo aveva confuso davvero, quel Leonardo Bonucci da Viterbo, per un supporter italiano che aveva invaso il campo e perciò voleva portarselo via.
Poi ci sono anche gli eroi che mantengono davvero l’aria da eroe. Quelli come Spinazzola – folignate di nascita ma romano d’adozione, per via della casacca giallorossa indossata in campionato – anch’egli battezzato col nome di Leonardo: un novello Enrico Toti, uno che, claudicante e armato di grucce, va incontro al nemico, uno che pare messo lì apposta per titillare l’orgoglio di qualche sparuto tifoso più nostalgico e dalle antiche e mai sopite smanie irredentiste.
Infine c’è la gloria di campanile. Non solo quella patriottica, ma anche quella localistica, quella di quartiere. E se Acilia e Vitinia si contendono Florenzi, il nuorese Salvatore Sirigu, portiere di riserva, può presentarsi alla premiazione fasciato da una bandiera coi quattro mori, senza che nessuno percepisca quella dichiarazione di orgoglio sardo come una sfida antitaliana, cosa che forse sarebbe accaduta se un giocatore corso si fosse presentato abbigliato così, in caso di eventuale vittoria francese.
Anche in quella bandiera sarda, paradossalmente, c’è infatti la storia e lo spirito più universalmente italiano, quello per cui ci si batte da secoli fra vicini di casa, fra guelfi e ghibellini, fra trasteverini e monticiani, quello per cui è importante stabilire se Florenzi venga da Acilia o da Vitinia, ma in cui è proprio quell’apparente lotta fratricida a fare da collante universale.
Proprio come accade da secoli in una città simbolo del nostro paese: Siena, una piccola città divisa in ben diciassette contrade nemiche, ma che quella rivalità interna ha reso unica e coesa, orgogliosa della propria storia e della propria identità comune, che ha protetto e mantenuto, preservandola dalle mode e dalle avversità.
Il paradosso italiano, di cui Siena è un esempio, è risultato bene evidente nella serata dell’11 luglio. Si pensa spesso che il mammismo, il familismo e l’identità strapaesana siano un grosso difetto italico, un nostro limite. Si pensa anche che il campanilismo, il patriottismo, siano elementi divisivi, forieri di lotte e a volte persino di guerre. Eppure non è sempre così. Anzi è spesso vero il contrario, come ha spiegato bene, pochi anni or sono, lo storico e divulgatore israeliano Yuval Noah Harari.
Harari è un intellettuale noto per le sue idee politiche progressiste, quelle idee che solitamente confondono o addirittura fanno coincidere l’idea di patria e di nazione con le nostalgie fasciste. Harari, però, ha separato nettamente le due cose, spiegando come, senza un forte orgoglio nazionale e patriottico, il mondo sarebbe destinato a un violento caos individualista e tribale. Nella sua visione, è proprio il patriottismo quell’elemento simbolico capace di permetterci di condividere idee, emozioni, progetti, con milioni di persone diverse da noi, in tutto e per tutto, se non per la loro identica nazionalità. Un primo passo indispensabile per potere accogliere davvero la diversità e l’altro ad ogni livello.
Senza bisogno di complessi e raffinati discorsi intellettuali, un Florenzi che grida orgoglioso alla mamma, felice per la propria vittoria, un Donnarumma che para il rigore decisivo e resta inebetito e incredulo, venendo travolto dai compagni festanti, un Mancini che piange e abbraccia un suo vecchio amico, ci hanno sbattuto in faccia l’esempio, banale e concreto, che possa essere davvero così.
L’orgoglio di campanile può essere la premessa necessaria di una rinnovata e autentica fratellanza, di una socialità che ci riporta a gioire insieme, ricchi e poveri, vip e borgatari, identificandoci con altri milioni di perfetti sconosciuti. Come non accadeva da quasi due anni, in questi tempi claustrofobici e asociali, vissuti ciascuno al chiuso della propria casa, della propria individualità e, al massimo, della propria tribù, causa pandemia.
E così, proprio come in un fortunato meme girato molto sui social in questi giorni, Home è per fortuna diventata Rome, la ristrettezza della propria casa-prigione si è riallargata nella più ampia dimensione di una città, di una comunità, di un’identità culturale più vasta e vissuta in comune con milioni di altri individui.
E non è solo merito di una vittoria sul campo se sessanta milioni di monadi sono tornate ad allargarsi in famiglia, in gruppo, in paese, in nazione, in umanità.
Anche il perdente Matteo Berrettini, infatti, in quella stessa domenica londinese, ci ha fatto remare in quella stessa direzione.
Anche con lui, innanzi tutto, è scattata la rivalità da strapaese, fra chi ne ha rivendicato le origini al Nuovo Salario, chi lo ha ricordato palleggiare sui campi di Bel Poggio, all’estremo nord della Capitale, contro chi invece, sui social, ha parlato delle sue passeggiate tra le vie dell’Infernetto, a Roma sud.
Poi però, nel suo sguardo sereno, quello che ha accolto la sconfitta con sportività, alla fine, ci si è identificati un po’ tutti, senza più distinzioni di quartiere. Perché tutti ci siamo ricordati di averla anche persa, una volta, quella finale di calcetto del trofeo parrocchiale, o quella di pallavolo del torneo interscolastico. Proprio come lui a Wimbledon. Tutti, dalla Cassia a Torvajanica, dalle Alpi alle Piramidi, da Trieste in giù.
Ed è questa la cosa più bella, generata da un’indimenticabile domenica di luglio. Una giornata di vittoria tanto quanto di sconfitta. Una giornata di sorrisi e di lacrime. Di rabbia e di gioia. Insomma di emozioni e di umanità. Di vita ricominciata a vivere, in comune, con le sue contraddizioni.
E non c’è solo la madre dei Florenzi ad essere rimasta incinta. Non c’è solo quella mamma che vince. C’è anche la madre dei Berrettini, quella che perde. E poi c’è quella volgare dei Bonucci. E c’è quella emotiva dei Mancini. E quella smarrita dei Donnarumma. Ci sono tante madri incinte, nonostante il terrore del futuro e l’asocialità da pandemia. Ci sono tante mamme, diverse per storia, per stile e per metallo delle medaglie messe al collo, però accomunate da identiche emozioni.
Ci sono a Vitinia e ad Acilia. A Bel Poggio e all’Infernetto. A Roma, in Italia e un po’ ovunque.
Ci sono e ci saranno ancora. Per fortuna. Ed è bellissimo così.