Il Papa, i “froci” e l’etimologia
Era forse dai tempi della breccia di Porta Pia che il Vaticano e lo Stato Italiano non si scontravano in modo così netto. O perlomeno da quando il Concordato – sia nella sua versione originale del 1929 che in quella aggiornata nel 1984 – non aveva messo fine a una lunga ostilità fra l’Italia e il papato.
Ironia della sorte, è proprio quel Concordato, ora, che pare avere riacceso le micce.
Motivo del contendere è il progetto di legge Zan, in discussione al Senato, una legge sull’omotransfobia che aveva creato già un acceso dibattito, anche all’interno di ambienti laici e progressisti. Adesso, nella questione, è intervenuta in pompa magna la Chiesa, con una lettera ufficiale, nella quale si solleva il dubbio che alcune norme della prevista legge – nata ufficialmente allo scopo di condannare tutte le discriminazioni – paradossalmente finirebbero proprio per discriminare i cattolici e la loro libertà di culto e di propaganda della fede, sancita formalmente dal Concordato, oltre che dalla stessa Costituzione italiana.
Apriti cielo! La nota vaticana ha provocato l’immediata e indignata reazione dei promotori e dei supporter della legge Zan, che hanno a loro volta attaccato la Chiesa, sia in nome della laicità dello stato, sia in nome della non ingerenza di una potenza straniera – quale formalmente il Vaticano è – sulla politica nazionale e sia in nome di altri nobilissimi e non negoziabili valori sociali e civili.
Già qui comincia ad essere evidente, dietro il filo spinato delle rispettive trincee, una prima analogia fra le modalità di approccio al problema che hanno le due fazioni in lotta. Entrambe, infatti, sono convinte di dover proteggere degli altissimi e inalienabili ideali universali dal fanatismo di una lobby avversa e fanatica, che pensa solo a proteggere i propri privilegi.
Certo, è vero che dall’una e dall’altra parte non c’è accordo sui ruoli da attribuire e che ciascun attore in gioco consideri se stesso il portatore degli alti valori e la controparte quella composta da ottusi fondamentalisti. Però il bicchiere è comunque mezzo pieno e, di fondo, resta il fatto che l’impianto mentale di base sia lo stesso in entrambi gli schieramenti. Insomma, i due contendenti parlano la stessa lingua, anche se dicono cose diverse.
Già questa è una buona notizia, in vista di un possibile accordo futuro.
In questa vicenda curiosa, così piena di paradossi, c’è poi anche chi si è spinto a dire che la Chiesa, di fatto, non potrà alla fine che appoggiare una legge nata a tutela dei gay, se non altro per interesse proprio, data l’alta percentuale di omosessuali – sebbene spesso non dichiarati – presente fra i sacerdoti e gli alti prelati.
Un’argomentazione certamente discutibile e che, da parte dei suoi fautori, viene spesso colorita dall’uso di un sinonimo hard del termine “gay”, meno politicamente corretto e molto più crudo, atto a dare maggiore forza provocatoria al discorso. Un termine il cui uso, oggi spesso censurato, è stato abituale – prima solo a Roma e poi in tutta Italia – per un paio di secoli: i froci.
Tutta colpa di Napoleone!
Nomen omen dicevano i latini, cioè nel nome c’è già il destino. E la storia, così come la cronaca, sa spesso essere molto ironica, suo malgrado. Questo è uno di quei casi. Questa è infatti una vicenda in cui il passato, l’etimologia dei termini, la loro evoluzione, sembra farsi beffe delle discussioni del presente, facendo scoprire agli acerrimi nemici di essere gemelli separati alla nascita. Vediamo subito il perché.
Dunque, come dicevamo prima, nell’attuale scontro, da una parte abbiamo le truppe cattolicissime di Papa Francesco, dall’altra il colorato mondo LGBT, animato in gran parte da quelli che, sbrigativamente e in modo a volte spregiativo, a Roma si continuano a definire “froci”. Gli uni contro gli altri armati.
Ora, a spiazzare tutti i contendenti, per uno strano scherzo linguistico e storico – di cui in pochi sono a conoscenza – c’è da sapere che il nome Francesco, cioè quello dell’attuale Papa della Chiesa cattolica e la parola frocio significano la stessa cosa. O, se vogliamo cambiare l’ordine dei fattori senza mutare il risultato, possiamo dirla brutalmente anche così: frocio è un sinonimo di Francesco, Francesco è un sinonimo di frocio.
Tutto iniziò due secoli fa, ai primi dell’ottocento, quando le truppe napoleoniche calarono a Roma per conquistarla. Prima di quella data, infatti, in città non vi sono testimonianze scritte dell’uso della parola “frocio”. Le prime tracce appaiono proprio in quel periodo, anche se con un significato diverso da quello oggi in uso.
Se è abbastanza intuitivo capire che il nome “Francesco” sia originariamente un sinonimo di “francese”, lo è meno rendersi conto che lo stesso significato originale abbia anche la parola “frocio”, per decenni usata proprio col significato di “transalpino”, di “straniero” e, per traslato, di dominatore, invasore, nemico.
Pare, infatti, che la sua etimologia sia una derivazione diretta del termine “français”, cioè appunto “francese”, pronunciato “fronsé”, attraverso una storpiatura che, sulla bocca dei romani, è diventata prima “fronsce” (l’uso del fonema “sc” è tipico di chi voglia imitare in modo ironico la pronuncia d’oltralpe), per poi slittare verso “froscio” e infine “frocio”.
È proprio col significato di “francese” che il termine appare nelle prime attestazioni scritte, che risalgono all’inizio del XIX secolo, durante l’occupazione di Roma da parte dei soldati napoleonici. Contro di loro furono prodotti stornelli, pasquinate e sonetti, come ad esempio quello che dichiara: Bigna davvero, che ‘sti froci matti / che da tutti son detti sanculotti / pensino che de stucco semo fatti / che vonno venì a Roma a fà scialotti.
Che a quell’epoca i “froci” fossero dei transalpini perfettamente eterosessuali, lo rivelano i versi di uno stornello antifrancese degli stessi anni: Fiore de pera; sto frocio che a mia fija fa la mira, ha voja de cenà l’urtima sera. Come si vede, qui il francese viene sì definito “frocio”, ma, nonostante ciò, le sue mire erotiche sono rivolte verso una figlia femmina e non verso un figlio maschio dello stornellatore.
Con la fine del dominio napoleonico, il termine cominciò però a mutare di significato. Dapprima si usò per definire un “uomo spregevole” in genere (spregevole come un invasore straniero). Infine, dalla seconda metà dell’ottocento, il significato andò restringendosi a un solo tipo di persone, cioè l’uomo spregevole per eccellenza: il sodomita passivo. In questa trasformazione progressiva, può aver giocato un ruolo importante anche l’assonanza con “froscio”, nel senso di floscio, molle, flaccido, riferito all’organo sessuale maschile.
L’uscita di questa parola da un semplice uso gergale, per entrare prepotentemente nella lingua comune, avverrà poi nel novecento, anche per mezzo del cinema e della letteratura, che col loro desiderio di riprodurre il linguaggio colorito e popolare, hanno sdoganato nell’italiano colloquiale numerose espressioni di origine bassa. Da Pasolini a Moravia, dal neorealismo ad Alberto Arbasino, il termine verrà usato in vario modo e conosciuto in tutta la penisola. “E benvenuti a sti frocioni!” sarà perciò la divertita accoglienza che riceverà, senza suscitare più nessuno scandalo, anche Lino Banfi, in un famosissimo film degli anni ottanta, quando la parola è ormai d’uso comune.
Meglio frocio che gay?
Se dunque l’ottocento è stato il momento della sua nascita e se il novecento è stato il secolo dello sdoganamento del termine e della sua progressiva perdita del valore negativo iniziale, il ventunesimo secolo ha invece invertito la rotta, riconnotando negativamente la parola “frocio” e tornando a farla nascondere nei bassifondi da cui si era emancipata.
L’arrivo di termini anglosassoni come “gay”, che col loro esotismo appaiono più asettici, oltre all’avvento di una mentalità puritana, importata attraverso l’uso dei social e dei loro algoritmi automatici – che premiano e puniscono le parole in quanto tali, indipendentemente dal contesto in cui appaiono e dal valore che chi le usa assegna loro – ha cambiato nuovamente il lessico.
“L’importazione della parola gay – dice uno dei personaggi intervistati da Gianni Amelio in un interessantissimo film-documentario del 2014 sull’omosessualità, intitolato “Felice chi è diverso” – è stato come mettere una luce al neon nelle cucine, dove tutto diventa piatto, è stato come un cemento che ha tolto la diversità dalle diversità”.
“Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune” diceva Sandro Penna in una sua poesia. Ecco dunque che il puritanesimo, con cui di recente si guarda con sospetto a termini come “frocio”, pur nell’apparente tentativo di proteggerla, di difenderla, non riesce davvero a cogliere la diversità, umiliandola di fatto.
Men che mai riesce poi a cogliere la complessità delle cose, che, invece, spontaneamente, per educazione all’accoglienza stratificata nei secoli, sa afferrare benissimo lo spirito romano, cioè lo spirito di una città che finisce per dare una connotazione positiva anche a ciò che è negativo, per accogliere tutto con uno sguardo bonario, amicale e che sa trasformare anche la parola frocio, da offensiva che era, in un qualcosa di bello, anzi di bellissimo.
Chi vive a Roma, sa bene quanto spesso quel termine venga usato non con una luce negativa, ma come un vero complimento. Al di là di espressioni idiomatiche come “Fare il frocio col culo degli altri” – dove “fare il frocio” ha una connotazione sì dolorosa ma socialmente positiva, come condizione di cui dunque è conveniente vantarsi pubblicamente – non c’è romano che non sia stato chiamato almeno una volta “A frociooooooo!” – con un numero di “o” direttamente proporzionale all’intensità del rapporto e alla durata della separazione – da un proprio amico che non incontrava da tempo e che voleva, con questa espressione, esprimere tutta la propria stima, il proprio affetto, la propria complicità.
Non c’è poi attestazione di amore più grande, assoluta, totale, intima e profonda dell’espressione romana “Essere frocio di”. “Io so’ frocio de Roma!” significa amare nel modo più completo e senza riserve la città. Il termine frocio assume qui la connotazione, completamente positiva, di persona appassionata, disinteressata, entusiasta e dai più puri e nobili sentimenti.
Tutto questo, l’algoritmo puritano di Facebook – che valuta una parola fuori dal suo contesto e senza coglierne le sfumature emotive – quello che censura biecamente alcuni termini per il solo fatto che vengano usati, non saprà mai coglierlo, perdendo così quella capacità, umana prima ancora che romana, di comprendere che nulla è buono o cattivo per sempre e in assoluto.
Tutto questo, la Chiesa cattolica, con la propria teoria della redenzione, più accogliente che punitiva, che considera come il bene si possa nascondere anche dietro strati di malvagità e vada solo portato alla luce, invece lo sa e lo mette in pratica da secoli. A differenza del rigido e protestante concetto della predestinazione, in cui tutto è già scritto, è eterno, è immodificabile. Un concetto che oggi si insinua nella censura dei social network, creati, guarda caso, dai pronipoti dei padri pellegrini, o da chi è cresciuto nell’immodificabile rivelazione del Vecchio Testamento, non ammorbidita e redenta dall’insegnamento del Cristo.
Per questo chi promuove una legge che vuole tutelare la diversità, non può che amare anche il Papa – tanto più se di nome Francesco – e la chiesa di Roma, anziché combatterla. Una chiesa che, al di là delle apparenze, ha reso la Città Eterna uno dei massimi esempi di tolleranza e di accoglienza, in cui ciascuno può essere contemporaneamente una cosa e anche il suo contrario, senza venire per questo emarginato e men che mai condannato in eterno.
È per questo che sono ottimista, nonostante gli scontri di questi giorni. Perché in fondo, almeno a Roma, in modo più o meno consapevole, lo sappiamo bene che siamo tutti fratelli. Anzi, siamo tutti froci. Quindi anche contraddittori e ambivalenti, proprio come i giacobini francesi di due secoli fa, quei “froci” originari, d’inizio ottocento, scesi come degli invasori, armati di baionette, ma che portarono in Europa e nel mondo anche gli ideali universali della rivoluzione, fatti di liberté, di égalité e, soprattutto, di fraternité.