Roma-Parigi: la sfida infinita
La vittoria dei Maneskin all’Eurovision Song Contest 2021 è diventata un vero e proprio intrigo internazionale, degno del maestro Alfred Hitchcock. L’immagine di Damiano che, durante il momento delle votazioni, si china per un attimo sul tavolino davanti a lui, è bastata per fare scatenare i social e per indurre la delegazione della Francia – guarda caso la nazione classificatasi seconda nella competizione canora di quest’anno – a richiedere indagini per appurare se il cantante italiano non stesse sniffando cocaina in diretta tv.
Ora, la vicenda ha già così del paradossale. Innanzi tutto perché parliamo di una manifestazione canora e non di una gara sportiva, in cui l’uso di doping potrebbe portare dei miglioramenti alle prestazioni. Poi perché decenni di sesso, droga e rock and roll, sembrano dimenticati in un lampo dal perbenismo, un po’ sospetto, dello staff di Barbara Pravi, la giovane cantante francese, quell’EdithPiaf 2.0 che, al grido di “Voilà”, pare voler sbaragliare la concorrenza con l’aiuto della Var e per via giudiziaria – come ai tempi di Mani Pulite – non avendo preso benissimo il voto dei telespettatori europei, che l’hanno relegata al secondo posto.
Mentre generazioni di rocker – belli, dannati e, soprattutto, strafatti – da Janis Joplin a Jimi Hendrix, da Jim Morrison a Kurt Cobain, si rigirano nella tomba, e mentre gli immortali Rolling Stones assistono alla querelle mangiando popcorn e ridacchiando sotto i baffi, nella faccenda è intervenuto ufficialmente persino il ministro degli esteri transalpino, trasformando il tutto in un vero e proprio caso diplomatico internazionale. Damiano intanto nega e si sottopone al test antidroga – che risulta negativo – mentre i francesi per un po’ insistono e poi finiscono per arrendersi.
Da una parte c’è dunque l’Italia, terra di debosciati, senza tetto né legge, che coi romani Maneskin difende il mito del genio maledetto: un po’ Caravaggio, un po’ Rock will never die e un po’ Ma che ce frega, ma che ce importa. Dall’altra la Francia, con la sua tradizione degli chansonnier, quei nichilisti sulle sette note, quegli esseri emaciati, tristi ma engagé, emotivamente deprimenti, ma moralmente integerrimi: Charles Trenet, George Brassens, Jacques Brel. Anche se quest’ultimo era belga e all’Eurofestival non avrebbe tifato per Barbara Pravi, ma per gli Hooverphonic.
Ad ogni modo, questa pare essere solo l’ultima perla di un’antica e irredimibile rivalità fra Roma e Parigi. Una sfida infinita che, di volta in volta, si scatena in ogni campo dello scibile umano: dalle arti allo sport, dalle armi alla cucina, alla moda. Una sfida iniziata ben duemila quattrocento anni fa, ai tempi delle oche capitoline.
Ripercorriamone insieme i momenti più significativi.
Guai ai vinti!
Era il 390 avanti Cristo, quando, scendendo dalla Borgogna, giunse per la prima volta a Roma un temibile esercito gallo, guidato da un uomo detto Il corvo, meglio noto col suo nome in lingua celtica: Brenno.
Aveva già sbaragliato i romani nelle campagne della Marcigliana e ora si apprestava a mettere a ferro e fuoco la Città Eterna. Brenno non sapeva ancora che questo era solo il primo atto di una rivalità plurimillenaria.
Vuole la leggenda che un suo primo tentativo d’introdursi in città, fu sventato dallo starnazzare di alcune oche presenti sul Campidoglio, che diedero l’allarme.
Ciò nonostante, Roma fu saccheggiata. Per liberare la città, Brenno pretese dunque un riscatto di ben mille libbre d’oro. Al momento di pesare il prezioso metallo, ecco però che si fece spazio il primo sospetto di doping conosciuto nella storia dei rapporti italo-francesi. In quel caso furono i romani ad accusare la Francia – che ancora non si chiamava così – di giocare scorretto e di avere truccato le bilance, per ottenere un maggiore quantitativo d’oro.
Per tutta risposta, Brenno gettò la sua spada su un piatto di quella bilancia, per farlo pesare ancora di più, al grido di Vae victis! cioè Guai ai vinti.
È solo a quel punto che, finalmente, in città, arrivarono i nostri. Il settimo cavalleggeri del generale Custer, era in quel caso rappresentato da Furio Camillo, un valoroso soldato romano. Giunto di corsa alle bilance, gettò anch’egli la propria spada sui piatti, così da compensare il peso della spada del barbaro. Quindi si rivolse a Brenno, dicendogli: Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria, ossia: Non con l’oro si riscatta la Patria, ma con il ferro. Roba che anni di retorica dei cinegiornali Luce del ventennio, je possono spiccià casa.
Da quel momento furono botte da orbi. I romani ripresero coraggio e liberarono Roma da Brenno e i suoi. Li ricacciarono lontani, quei celti con l’erre moscia: prima nel nord Italia e poi oltralpe, dove i galli rimasero tranquilli per circa tre secoli, fino all’arrivo di Giulio Cesare.
Il De bello Gallico
È la storia del più grande successo romano fuori casa, quasi come ai tempi di Panatta quando vinse al Roland Garros. Una decina d’anni di campagne, dal 59 al 50 avanti Cristo, qualche passo falso tattico per far credere a Vercinngetorige di potercela fare, e poi Giulio Cesare che sbaraglia tutti, senza troppi scrupoli. Per quattro secoli la Francia è romana, conquistata e trasformata nel territorio, nella lingua e nella cultura. 6-0. 6-0. 6-0: gioco, set, partita.
Ai transalpini, per immaginare una qualche soddisfazione presa in occasione di quella vicenda, non resterà che aspettare duemila anni e l’invenzione del personaggio di Asterix. E pensare che Cesare, all’inizio, si era pure presentato come un difensore dei galli, uno andato lì per proteggerli dalle popolazioni barbariche che stavano per invadere i loro territori. Salvo poi fregarsene degli accordi iniziali e sgominare tutti, senza distinzioni.
Forse è stato allora che i francesi hanno cominciato a considerarci come un popolo d’inaffidabili ma simpatici cialtroni. Certamente è da allora che siamo diventati cugini, uniti da una stessa radice linguistica e dagli stessi anfiteatri, tanto da poter ancora scambiare senza problemi quello loro di Nimes con il nostro Colosseo.
La cattività avignonese
La rivincita francese arrivò a distanza di 1359 anni, nel 1309. E dire, che, solo pochi anni prima, esattamente nel 1300, il Papa Bonifacio VIII pareva aver segnato un grande punto a favore di Roma, sfidando i francesi con una formidabile operazione di marketing, che ancora oggi ci ha lasciato i suoi frutti: l’invenzione del Giubileo.
Di fronte al re di Francia, Filippo il bello, che pareva voler creare un’Europa a trazione transalpina, il buon Bonifacio rispose che no, che la capitale del mondo è Roma e che l’unica autorità che davvero conta qualcosa è quella del Papa.
Roma era talmente capitale, che da quel momento, ogni cristiano doveva per forza venire qui, almeno una volta nella vita, per avere la remissione di tutti i peccati. Pena l’inferno.
Bonifacio promosse molto bene l’iniziativa, attraverso una capillare rete di punti vendita, sparsi in tutto il mondo: le chiese e i monasteri, strutturati sotto forma di franchising. Preti e monaci cattolici, cominciarono a offrire pacchetti all inclusive e a prezzi stracciati, per chi volesse recarsi nella Città Eterna.
Un bel business per ristoranti, trattorie ed alberghi romani. È in quel momento che iniziò la gentrizzazione del centro storico della Capitale, con la trasformazione di molti appartamenti in locande, bed and breakfast e case vacanze, per ospitare i pellegrini.
Filippo il bello la prese malissimo, anche perché non aveva ancora una Torre Eiffel, né una Disneyland Paris, da offrire come attrazione alternativa ai turisti. Così si accordò con una famiglia nobile romana, quella dei Colonna e fece imprigionare il Papa, che morì poco dopo.
Da allora, per evitare nuove alzate d’ingegno, i successivi papi furono trasferiti da Roma ad Avignone, sotto il controllo francese. A Roma, intanto, come ai tempi del Covid, i proprietari di locande e bed and breakfast, si trovarono all’improvviso senza più clienti. La città cominciò a spopolarsi, riducendosi a un trentamila abitanti, dal milione che aveva ai vecchi tempi dell’impero.
In Francia, invece, gli affari andarono a gonfie vele, con la piccola cittadina avignonese che sostituì Roma nel cuore dei cattolici e dei turisti, attratti da nuovi pacchetti che comprendevano un giro in battello sui castelli della Loira e visite bucoliche fra i campi di lavanda provenzali.
Fu così per quasi un secolo, fino a quando, alla fine del Trecento – con la Francia imbarcata nella guerra dei cent’anni, che in quel momento pareva volgere al peggio – Papa Gregorio XI pensò bene di fare le valigie e tornarsene sui sette colli.
Roma e i due Napoleoni
Per quattrocento anni, i rapporti fra il Papa e il re di Francia furono relativamente tranquilli. Poi, però, a Parigi, il re perse la testa e al suo posto arrivò un imperatore: Napoleone Bonaparte.
Con Napoleone riscoppiò l’amore-odio tra franzosi ed italiens. Roma fu declassata al ruolo di cittadina di provincia e annessa all’impero francese. Il Papa fu arrestato e portato via dalla città. Erano i giorni in cui il Marchese del Grillo – nella versione di Monicelli e Alberto Sordi – s’innamorò della bella Olimpia e imparò la Marsigliese.
Però Napoleone, si sa, venne sconfitto a Waterloo da inglesi e prussiani. Ei fu. Adieu. Il Papa tornò allora serenamente a Roma, mentre a Parigi, dopo un po’ di maretta e di confusione, si presentò alle folle il nipote di Bonaparte: il quasi omonimo Napoleone terzo.
Da nemico che era lo zio, il nuovo Napoleone, del Papa ne diventò il protettore. Fu così che i romani – che nel 1848 provarono a scacciare Pio IX per proclamare la Repubblica – ebbero prima in omaggio delle belle palle di cannone made in France, per poi, qualche anno dopo, ricevere anche i proiettili degli ipertecnologici fucili Chassepot, che fecero strage di garibaldini a Mentana.
Però gli italiani sono un popolo riconoscente. Sia mai che si facciano parlare dietro e non ricambino con altrettanto amore certi deliziosi omaggi. Fu per questo che Felice Orsini provò un giorno a far saltare in aria la carrozza dell’imperatore francese. Sbagliò mira e andarono per aria solo un centinaio di parigini, fra morti e feriti.
A rimettere le cose a posto, poi, ci pensarono ancora una volta i prussiani, che, per non fare sfigurare il nipote nei confronti della fulgida carriera dello zio, pensarono di regalare una bella disfatta anche al Napoleone più giovane, in quel di Sedan.
Così i soldati francesi se ne andarono per sempre da Roma e gli italiani tolsero finalmente la panna dagli ingredienti della carbonara.
Le due finali
Trascorso più di un secolo, archiviata la “pugnalata alle spalle” mussoliniana, con l’attacco del 1940 a un esercito francese già sconfitto – un’azione militare che parve quasi una burla: senza armi, senza mezzi e senza efficacia – sbolliti i malumori per Bartali e Coppi che vincono il Tour – coi giornali che svolazzano e i francesi che s’incazzano – o per Anquetil e Hinault che si vendicano al Giro, risolti i problemi di cittadinanza per Fernandel e Totò, divisi dal confine nel film “La legge è legge”, creata infine l’Unione Europea e la moneta unica, ecco che, all’alba del ventunesimo secolo, a dividere Roma e Parigi pare essere rimasto solo il calcio.
Correndo in mutande dietro un pallone, prima, a casa loro, ci beffa Trezeguet, con un gol che ci fa perdere una finale europea che pareva già vinta. Poi, in campo neutro, ci ricompensa Zidane, con una testata che ci fa vincere una finale mondiale che pareva già persa.
Il cielo, cosi, si tinge di bleu sopra Parigi, ma di azzurro sopra Berlino e ciascuno si può prendere le sue belle soddisfazioni. Adesso, senza più né vinti né vincitori – o meglio: con tutti, a turno, sia vinti che vincitori – possiamo finalmente archiviare il passato e cantare insieme felici, italiani e francesi. Popopopopopopò!
Peccato solo che, a ricreare zizzania e a ricominciare un nuovo ciclo, ci pensino ora proprio le canzoni.