Di musei, ecomusei, pandemie e altre delizie
La situazione dei musei è sotto gli occhi di tutti e tutte. Lo tsunami pandemico ha messo a dura prova un sistema che, nel bene e nel male, costituiva un perno essenziale della nostra vita culturale. Ci vorrà tempo per uscire da questa crisi e da qualche tempo si fanno sentire voci che reclamano una revisione del sistema stesso, evidenziandone i problemi strutturali e disegnando modelli alternativi.
In questa selva di ragionamenti (a volte un po’ scomposti), molte voci hanno suggerito di guardare agli ecomusei come modello del museo del futuro e come fonte di ispirazione per una nuova visione culturale tout court. Onestamente non so dare un giudizio nel merito su questi ragionamenti, quello che mi preme segnalare è che, al di là delle ragioni e dei torti, mi sembra che la questione si stia ponendo in modo sbagliato, cavalcando una retorica ideologica che oppone i musei agli ecomusei.
Gli ecomusei si differenziano dai musei tradizionali per tantissimi aspetti, ne cito alcuni: non “gestiscono” una collezione ma un patrimonio; non si sostanziano in un edificio ma in un territorio; non si rivolgono a un pubblico (visitatori) ma alle comunità locali.
Credo che dovremmo fare un ragionamento diverso, adottando un metodo meno frettoloso. Direi di partire dalle certezze: gli ecomusei sono musei. Ecco, alla luce di questo dato di fatto, possiamo bypassare di slancio tutti i ragionamenti oppositivi e magare concentrarci sulla valutazione di quegli elementi di discontinuità/innovazione propri degli ecomusei che forse possono costituire l’apporto in valore aggiunto (e non in sostituzione) al sistema museale e culturale in generale. Se siete d’accordo, proverei a seguire questo approccio.
Gli ecomusei si differenziano dai musei tradizionali per tantissimi aspetti, ne cito alcuni: non “gestiscono” una collezione ma un patrimonio; non si sostanziano in un edificio ma in un territorio; non si rivolgono a un pubblico (visitatori) ma alle comunità locali.
Queste differenze strutturali derivano dalla natura assolutamente inedita di questa istituzione, che si connota non tanto per la sua “cristallizzazione fisica” (l’edificio, la collezione, l’esposizione), quanto per il suo essere un processo partecipato di riconoscimento, cura e gestione del patrimonio culturale (materiale e immateriale) di un territorio, nella prospettiva di favorirne lo sviluppo sostenibile.
Gli ecomusei, insomma, sebbene condividano con i musei la natura istituzionale e la mission di salvaguardia e valorizzazione culturale, se ne distinguono per la natura liquida, la vocazione comunitaria, l’approccio negoziale, la visione interdisciplinare e olistica.
Se mi passate l’immagine iperbolica, il museo è un Tempio, l’ecomuseo è un Bosco Sacro.
Questa natura diffusa, prossima e informale ha consentito agli ecomusei di trovato più agevolmente un spazio di agibilità nello scenario pandemico. Se il “sistema museale” cadeva sotto i colpi di restrizioni, paure e vincoli, il “sistema ecomuseale” si adattava ai medesimi strali modellandosi alle nuove esigenze, cambiando gli strumenti, attualizzando le metodologie, rispondendo con soluzioni condivise con le persone che vivevano il territorio. Il tutto con un approccio che, in ambito informatico, definiremo “agile”: progettare per fasi, prediligere l’interazione e la collaborazione, prototipare prima di realizzare, saper cambiare in corsa ed evolvere in base al dialogo/negoziazione. A questo si aggiunge la capacità, propria di un ecomuseo, di proporre esperienze di partecipazione, ricerca ed esplorazione – realizzabili anche in remoto – cucite da una narrazione coinvolgente, mai standardizzata nella forma e nella durata.
A ben vedere questa prospettiva operativa è ben distante dal modello tradizionale di gestione dei luoghi istituzionali della cultura. Questo si fonda su protocolli precisi, su un approccio decisamente top-bottom, sull’immutabilità dei processi istitutivi, sulla rigidità dell’exhibit. Questa “pesantezza” non è riuscita a reggere l’urto di uno scenario sociale completamente stravolto, che di fatto a reso impraticabile l’esperienza museale e straordinariamente complessa l’attività di ricerca e tutela. A ciò hanno dato il colpo di grazia le recenti “innovazioni” introdotte un po’ ovunque: sostenibilità economica del museo, replicabilità del format espositivo, standardizzazione dell’esperienza di visita.
Gli ecomusei si differenziano dai musei tradizionali per tantissimi aspetti: non “gestiscono” una collezione ma un patrimonio; non si sostanziano in un edificio ma in un territorio; non si rivolgono a un pubblico ma alle comunità locali
Molti musei (e aree archeologico-monumentali), da “templi delle muse”, si sono trasformati in centri polifunzionali di artentainment e culturtaiment, introducendo di fatto una filiera produttiva che ha determinato una dipendenza totale dagli elementi quantitativi: tempo, persone, soldi, pubblicità etc. Sia chiaro: niente in contrario con sperimentazioni di questo tipo, che sicuramente hanno aumentato la platea dei visitatori dei musei (ma anche di aree archeologiche e monumenti). Rimane il fatto che lo schiacciamento su un modello evidentemente quantitativo ha comportato una fragilità strutturale che la pandemia ha messo a nudo con crudele violenza.
Gli ecomusei, viceversa, hanno reagito alla sfida pandemica in modo veramente brillante. Di recente con la Rete degli Ecomusei italiani ci siamo confrontati su questi punti, evidenziando che a fronte di una totale assenza della componente istituzionale (avete mai sentito parlare di “ristori” per gli ecomusei?), la maggior parte realtà, pur avendo sofferto pesantemente in termini di visite, hanno rafforzato il loro ruolo di organismi di rifermento per la comunità, aumentando tra l’altro gli ambiti di ricerca e registrando interesse da parte di una popolazione che prima non li aveva mai considerati. In questo contesto un caso particolare sono gli Ecomusei Urbani, che sfruttando un bacino d’utenza di prossimità più ampio hanno retto meglio l’urto concentrando l’attività nelle esplorazioni urbane, rimodulando la ricerca, mettendo a disposizione gli spazi per attività di sostegno alle comunità.
In buona sostanza, gli ecomusei hanno avuto la capacità di reinventarsi, polarizzando le attività in quei settori che potevano essere portati avanti anche nel contesto pandemico, declinando lo spazio “espositivo” in casa del quartiere/municipio, sviluppando in modo più intenso la progettualità, l’ascolto e lo storytelling del territorio.
Per l’Ecomuseo Casilino il 2020 è stato un anno record: non solo ha aumentato i suoi visitatori, ma ha raddoppiato i finanziamenti, l’offerta culturale, le ore di formazione, gli interventi di salvaguardia, il coinvolgimento dei cittadini
In questa prospettiva l’ecomuseo che dirigo, ovvero l’Ecomuseo Casilino ad Duas Lauros, è un caso di studio interessante, perché nel 2020 ha aumentato tutti i razionali: dalle visite ai fondi raccolti, dalle ore di formazione agli interventi di tutela.
La nostra strategia per contrastare il blocco dovuto alla pandemia è stata quella di puntare sulla progettazione, sul racconto e sulla formazione.
A livello progettuale abbiamo finalizzato una serie di attività prototipate nel corso degli anni, formalizzandole in progetti esecutivi da proporre al finanziamento. Abbiamo progettato nuovi strumenti operativi per la partecipazione delle comunità, pensando già a creare qualcosa che potesse bypassare future restrizioni alla mobilità personale: abbiamo per esempio puntato sul digitale, creando una piattaforma di censimento partecipativo e racconto collettivo; abbiamo sviluppato un’app per consentire alle persone di poter fruire il territorio in autonomia e, sempre in autonomia, poter proporre narrazioni, risorse o inviare materiali.
In termini “narrativi” abbiamo potenziato il racconto del patrimonio, sfruttando le nuove tecnologie, ideando nuove tipologie di visita, moltiplicando i giorni e i turni di esplorazione, declinando all’aperto esperienze indoor che attualmente le restrizioni impediscono.
Infine abbiamo investito nella formazione di nuovi operatori, nelle attività di restituzione e disseminazione, in campagne di comunicazione e abbiamo aumentato le collaborazioni con enti, istituzioni e soggetti locali.
Abbiamo sostenuto iniziative a supporto delle persone che avevano maggiormente bisogno, abbiamo modificato progetti in corso d’opera per adattarli alle nuove condizioni, abbiamo sostenuto economicamente l’iniziativa di enti e associazioni locali e abbiamo investito nel potenziamento dell’accessibilità e della dotazione strumentale dei nostri centri di interpretazione.
L’era dei grandi centri culturali, degli iper-musei, dell’ossessione per il “luogo della cultura” è finita
Tutto questo ha portato a registrare un 2020 da record. L’Ecomuseo Casilino, infatti, non solo ha aumentato i suoi visitatori, ma ha raddoppiato i finanziamenti, l’offerta culturale, le ore di formazione, gli interventi di salvaguardia, il coinvolgimento dei cittadini.
La capacità di adattare l’attività e l’iniziativa, la ricerca e la progettualità alle mutate condizioni socio-economiche ci ha consentito di essere antifragili, di rispondere alle esigenze delle comunità in modo puntuale, di aumentare nonostante tutto la capacità dell’istituzione di svolgere la sua missione di salvaguardia e tutela.
Appare chiaro che questa responsiveness sia molto più semplice per una realtà piccola come la nostra e, forse, non può essere portata ad esempio in contesti museali importanti dove esistono dei vincoli legati al bilancio, alle risorse umane, alla normativa vigente. Non pensiamo, come abbiamo purtroppo avuto modo di leggere, che sia qui la soluzione al problema.
Quello di cui siamo convinti, però, è che un epoca sia definitivamente tramontata. L’era dei grandi centri culturali, degli iper-musei, dell’ossessione per il “luogo della cultura” è finita. Dobbiamo renderci conto che, soprattutto dopo la ratifica della Convenzione di Faro, sta affacciandosi all’orizzonte qualcosa di radicalmente nuovo, che fa delle prossimità la sua declinazione spaziale, dell’orizzontalità la sua prospettiva di governance, della dilazione il suo orizzonte temporale, della flessibilità la sua struttura portante. E se gli ecomusei non sono necessariamente tutto questo, condividono con questa visione tantissimi elementi.
Se è quindi sbagliato pensare di sostituire gli ecomusei ai musei, è sicuramente vero che nel mondo ecomuseale ci sono molte delle risposte alle domande che curatori e direttori di musei si stanno ponendo in questi mesi. Riconoscerlo sarebbe importante. Magari partendo proprio dal MIC, che potrebbe finalmente voltare pagina e abbandonare l’ormai vecchio e consunto modello dei LUQ, per immaginare nuovi strumenti per la creazione di un sistema museale nazionale capace di rispondere alle mutate condizioni.
Claudio Gnessi è il presidente dell’Ecomuseo Casilino ad Duas Lauros, un’istituzione museale territoriale fondata nel 2012, riconosciuta di interesse regionale nel 2019, che nasce come risposta organizzata e autodeterminata alla variante di PRG (denominata Piano Particolareggiato Casilino) che prevedeva la cementificazione di un ampio settore del Comprensorio Archeologico Ad Duas Lauros (Municipio Roma V).
Fondato da associazioni e cittadini dei quartieri del Pigneto, Tor Pignattara, Centocelle, Quadraro Vecchio, Gordiani e Prenestino, l’Ecomuseo Casilino nasce per restituire alle comunità locali (senza distinzione di origine, cultura e credo) il diritto di essere curatrici delle narrazioni del proprio territorio, di essere protagoniste nei processi di sviluppo e pianificazione, di essere soggetti e non oggetti del discorso. L’Ecomuseo Casilino, facendo leva sui principi del diritto al patrimonio e del diritto alla partecipazione, sostiene la costruzione di un modello di sviluppo locale fondato sulla salvaguardia, promozione e cura del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico dell’area.
L’Ecomuseo svolte un attività di ricerca su assi interpretativi (antropologia, storia, arte, archeologia etc.) concordati con le comunità e che vengono utilizzati per interrogare il territorio e far emergere le diverse risorse patrimoniali. Il combinato disposto di assi interpretativi e risorse patrimoniali costituisce il fascio dei percorsi ecomuseali, ovvero il tessuto connettivo del territorio di riferimento, la narrazione corale dello spazio quotidiano che si aggiorna costantemente nell’interazione con i luoghi, le persone e le relazione che gli uni stabiliscono le altre. L’Ecomuseo elegge il territorio a spazio espositivo, rifiutando di costringere il complesso dei percorsi e delle risorse entro un luogo chiuso e limitato.
Per questo le attività principali dell’Ecomuseo Casilino sono le esplorazioni urbane, le attività didattiche outdoor con le scuole, i laboratori open air e la scuola di formazione per facilitatori ecomuseali.