Lazio: rosso relativo
Proprio come un anno fa. In questo marzo ventiventi-bis, Roma e il Lazio, assieme a buona parte delle regioni d’Italia, entrano in zona rossa. Da lunedì 15, negozi chiusi, scuole in DAD, col ritorno di una compagna di vita che negli ultimi tempi era stata un po’ dimenticata: la cara vecchia autocertificazione.
Colpa, a livello nazionale, dei dati sulla recrudescenza del virus, delle terapie intensive stracolme, dell’indice RT in salita esponenziale, che impongono tali misure, dolorose ma necessarie. “Nessuno si diverte a chiudere – ha dichiarato il ministro Roberto Speranza – ma il primato del diritto alla salute è l’asse che guida tutto il governo”. Parole sacrosante.
Anche l’unità di crisi regionale, guidata dall’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, era nei giorni scorsi decisamente preoccupata: “I dati del contagio sono in aumento e raggiungono i livelli di due mesi fa, con un trend di crescita rispetto alle due settimane precedenti” aveva dichiarato l’11 di marzo.
Eppure, se i dati in forte aumento sono un dato inoppugnabile in alcune zone d’Italia, soprattutto del Nord, guardando più da vicino i dati del Lazio, questo allarme così drammatico non sembrerebbe pienamente giustificato.
Come abbiamo già segnalato in un nostro precedente articolo, il 12 marzo, giorno in cui si è deciso di colorare di rosso anche la nostra regione, nel Lazio risultavano 40.314 positivi, con un incremento di 1.757 rispetto al rilevamento precedente, con 205.518 guariti e con ben 463.863 persone vaccinate, quasi il 10% su una popolazione generale di 5.879.000 abitanti. Un dato, questo, percentualmente migliore rispetto a quasi tutte le altre regioni.
I posti occupati in terapia intensiva erano poi il 25,7% di quelli disponibili, quindi al di sotto di quel 30% considerato come soglia di pericolo. Abbondantemente sotto la soglia di allarme dei 250 casi di positività ogni 100.000 abitanti, erano inoltre quasi tutte le province laziali, con Roma a quota 160 e con l’unica eccezione della provincia di Frosinone.
Insomma, la situazione sembrava un po’ meno drammatica del livello rosso che invece ci è stato attribuito, anche perché i dati non parevano differire molto da quelli delle settimane precedenti, in cui il Lazio di Nicola Zingaretti restava tra le regioni gialle. E allora come mai questo salto improvviso dal giallo al rosso, senza nemmeno passare per l’arancione?
La colpa viene attribuita al famoso indice RT, che è ora nel Lazio a 1,3, cioè sopra quell’1,25 che è il dato oltre il quale scatta in automatico il passaggio a zona rossa.
Proprio su questo dato nascono però delle perplessità da parte di quell’assessore alla sanità D’Amato, già prima citato, passato dall’allarmismo di qualche giorno addietro, a un polemico ottimismo più recente.
“L’indice RT è un valore che guarda indietro di 14 giorni – ha dichiarato D’Amato in una recentissima intervista a Repubblica – Gli indicatori che guardano avanti, come l’incidenza dei positivi sulla popolazione e i tassi di occupazione dei posti letto, sono buoni a Roma e nel resto delle nostre province”.
“C’è una forte discussione tecnica e scientifica su come migliorare il parametro RT – ha poi aggiunto – Sono intervenuti l’Accademia dei Lincei e la fondazione Gimbe. Concordo con loro, non si può decidere solo in base all’indice RT”. Come a dire: scegliere un parametro piuttosto che un altro, non è una scelta neutra, insindacabile, oggettiva, basata su criteri puramente scientifici e sanitari, ma una scelta discrezionale e, dunque, politica.
La scelta di colorare di rosso molte regioni risulta perciò, con buone probabilità, più un’indicazione di una strategia politica di moral suasion, per disincentivare comportamenti rischiosi e possibili assembramenti futuri, che un’inevitabile necessità.
Di conseguenza, quel rosso di cui si colora adesso il Lazio, in base anche a quanto dichiarato dal nostro assessore alla Sanità, non è un rosso neutro, puro, assoluto. Al contrario, potremmo definirlo un rosso relativo, parafrasando il titolo della nota canzone di Tiziano Ferro.
Personalmente trovo del tutto legittimo che un governo e qualunque altra autorità pubblica, faccia scelte strategiche, anche discutibili, sulla base non di automatismi scientifico-sanitari, ma di considerazioni e ragionamenti di altro tipo. Dico di più: non solo lo trovo legittimo ma lo trovo indispensabile, necessario, qualcosa che dà il senso stesso a qualunque organo rappresentativo.
L’importante è che ciò avvenga alla luce del sole, facendo sì che ciascuno si assuma la responsabilità politica di ogni scelta, condivisibile o no che sia da parte dei cittadini, senza nascondersi dietro a presunti automatismi oggettivi, come quelli sugli scatti di colore, che poi si rivelano, come forse in questo caso, non così oggettivi.
C’è una famosa battuta di Massimo Troisi in cui, a chi parlava del Duce come di colui che faceva arrivare i treni in orario, il comico napoletano rispondeva: “ma per questo non serviva un capo del governo, bastava un capostazione”. Ecco, allo stesso modo, oggi è bene che sia chiaro che ogni scelta, anche in materia di pandemia, sia frutto dei ragionamenti di un presidente del consiglio, della sua maggioranza, dei suoi ministri, degli altri organi politici. Altrimenti bastava un direttore sanitario.