La finestra sul cortile
Chiusa a casa perché spostarsi tra regioni è proibito, e allarmistiche notizie sulle varianti del virus rendono perfino la passeggiata nell’affollato centro di Roma un po’ rischiose, mi sembra di essere tornata bambina, quando mia madre decise che a dodici anni ero diventata signorina e non potevo più uscire a giocare per strada. Le giornate d’estate senza scuola diventarono lunghissime, fino a quando non scoprii la biblioteca del vicino, che aveva tutti i libri di Verne e Salgari.
Anche oggi leggo molto, ma quando sono stanca di leggere guardo fuori dalla finestra che si affaccia su un ampio cortile interno. Il mio cortile non fa alcuna concessione all’estetica. Ogni palazzo ha un intonaco, sia nuovo, sia quel che resta di strati precedenti ormai consumati e tutti di un colore diverso. Caldaie, condizionatori d’aria, e cavi, movimentano la monotonia dei muri. In alto, svettano antenne paraboliche e camini sempre spenti. Ma giù, sul fondo e al centro del cortile, si erge una grandiosa cupola di vetro.
La cupola è un mondo intero da scoprire. Attualmente c’è lo studio della Wella, produttrice di sciampi ma anche di stile. Nel periodo tra le due guerre invece c’era la tipografia Zampini, mi dice il signor Romolo Bulla, che dovrebbe saperlo perché la sua litografia storica è proprio a fianco, a via del Vantaggio. E prima ancora? È la mia amica e vicina Ribes Sappa, una fotografa che studia il quartiere con la devozione di una vera nativa e l’intelligenza di uno Sherlock Holmes, che avanza l’ipotesi più suggestiva: sotto la cupola, agli inizi del secolo scorso, c’era lo studio del grande scultore norvegese Hendrik Christian Andersen.
[Questo post è stato pubblicato originariamente su Fogli e Viaggi]
Impossibile investigare questa ipotesi da casa. Mi avventuro fino al Museo Andersen al numero 20 di via Pasquale Stanislao Mancini, appena fuori Piazza del Popolo. Le porte della villa neo-rinascimentale che si chiama Helene come la madre dell’artista sono aperte, e dall’ingresso posso sbirciare la grande sala piena di sculture neoclassiche, gigantesche e omoerotiche, inevitabilmente “camp.” Ma cercare di entrare è futile, anche questo come tutti i musei è chiuso per il momento. Proprio lì, dice Ribes, è esposta una foto dello studio di Andersen all’indirizzo di Passeggiata di Ripetta. Facile crederci. Non esiste altro spazio su quella strada che possa ospitare i lavori monumentali dell’artista.
Andersen faceva tutto in grande: cavalli, angeli e demoni. Da gran visionario, voleva costruire una città ideale, un modello non per un paese solo, ma per il mondo. Ne aveva preparato una pianificazione dettagliata, ma Benito Mussolini, tanto per citare un possibile committente, si mostrò prima interessato poi finì per non prenderlo sul serio. Anche lo scrittore americano Henry James gli dette del megalomane, ma non prima di averlo amato moltissimo fin dal loro primo incontro proprio a Roma nel 1899, quando Andersen aveva solo 27 anni e James 56. Si videro solo sette volte ma James gli scrisse lettere appassionate raccolte da Rosella Mamoli Zozi nel libro Amato ragazzo.
I dipendenti della Wella entrano nei loro locali da via Angelo Brunetti, ma non era così un secolo fa, prima che alzassero il cortile di un piano e chiudessero l’ingresso da Passeggiata di Ripetta. Vista dall’alto, oggi la cupola sembra quasi sospesa su una piattaforma sopraelevata rispetto al livello stradale. Mi piace immaginare invece che Andersen lavorasse come in una serra di vetro. Sappiamo che James visitò Andersen nel suo primo studio a via Margutta, ma chissà se venne anche qui, sotto la cupola, quando lo scultore vi si trasferì.
Smetto di pensare a fantasmi e cerco di trovare segnali di vita vera dietro altre finestre, e ne avrei l’opportunità, data la vista che ho davanti. Chiunque entri in casa mia commenta: “È proprio come nel film di Hitchock Rear Window! (La finestra sul cortile).” Potrei essere come Jimmy Stewart, anche lui confinato a casa, ma per una frattura alla gamba, che per noia spia quelli che abitano di fronte. Ma preferirei essere la sua fidanzata Grace Kelly, che per amore resta anche lei confinata a casa, e per curiosità lo assiste nello spiare. Meno attraente è la prospettiva di essere Michelle Pfeiffer in Frankie e Johnny, donna reclusa che passa le serate a casa a guardare la vita degli altri.
Ma Roma non è New York. La metà degli appartamenti sul cortile è occupata da Airbnb, attualmente vuoti. Tutte le finestre e i balconi sono comunque protetti da persiane, chiuse dal tramonto alla mattina, serrate quando nessuno è in casa, accostate quando fa troppo caldo o troppo freddo. E poi ci sono le tende e le tendine che impediscono la vista. Solo due cucine restano meno protette agli sguardi degli altri, e qualche mattina vedo una vicina in piedi davanti ai fornelli che aspetta che venga su il caffé. Una volta ho visto una coppia anziana cha pranzava, lui e lei seduti accanto ma non sembravano parlarsi. Anche a Capodanno, quando a mezzanotte i fuochi d’artificio hanno illuminato il cielo e mi sono affacciata, c’era solo la signora del caffè alla finestra.
La mia finestra non ha né persiane né tende. Ci sarà qualcuno che mi spia da dietro le sue tendine? Mi guarda fare yoga? Stirare? Leggere seduta in poltrona? Alla fine i soli vicini che vedo sono quelli che vivono al piano di sotto o sullo stesso ballatoio. E li vedo di persona. Possiamo sfidare il coprifuoco, alternandoci, e mangiamo insieme. Grace Kelly e Jimmy Stewart cenano a Montrachet rosè ed aragoste, asporto tipico da Club 21. La Pfeiffer, single e depressa, si strozza ingoiando interi vasetti di peanut butter. Da noi c’è amatriciana, o spezzatino, o tortino di sardine, e così via, a seconda dei vicini.
Mi viene in mente che questa settimana il Club 21 ha chiuso battenti. Era a New York, a midtown, fin dal 1930, quando aprì come speakeasy e poi divenne un posto chicchissimo. Anche lí sono andata solo con la fantasia. Club 21 è la chiave interpretativa del sogno di Gregory Peck in Spellbound (Io ti salverò), dove Ingrid Bergman decifra la carta del 7 di bastoni (club in inglese) come Club 21, rivelazione che offre un alibi a Peck, sospettato di omicidio. Hitchock, che era un abituée del Club 21, gli faceva del marketing surrettizio in molti suoi film. Non è sopravvissuto alla pandemia.
[Anna Di Lellio, che è anche autrice delle foto nel post, scrive di sé: sono Aquilana di nascita, ma mi sento più a casa a New York, Roma, e Pristina. Un po’ accademica, un po’ burocrate internazionale, e un po’ giornalista. Ovviamente ho lavorato per l’Unità. Tra le mie grandi passioni giovanili c’erano lo sci, la lettura, i viaggi, il cinema e la politica. A parte lo sci, sostituito dallo yoga, le mie passioni attuali sono rimaste le stesse]
Molto interessanti i suoi articoli (Bulla ) come ex docente dell’Accademia di Belle Arti di Roma che ha studio nel quartiere .