Le cose che ho lasciato a Roma
La prima volta che vedo Roma ho otto anni e ho viaggiato dalla Sicilia con i nonni. Abbiamo mangiato talmente tanto, in 12 ore di treno, che ricordo ancora il senso di nausea, l’odore di carburante e similpelle delle poltrone nel naso.
Quella tratta, quelle ore, ci sarà un periodo che le farò ogni due settimane, intorno al Duemiladue, grazie a dei biglietti a prezzo scontatissimo delle ferrovie dello Stato. Incontrerò un mucchio di gente, sui treni. Ci dormirò persino, con un occhio solo, nei vagoni. Ma questa è un’altra storia.
Quello che ho lasciato a Roma, a conti fatti, è quello che ho trovato subito, a otto anni, con lo stomaco in subbuglio, che a pensarci adesso non si sa se per la nausea o per l’emozione.
È uno dei nasoni, le fontanelle, mia nonna che tira fuori un vero bicchiere, lo riempie, beve e dichiara “bella l’acqua di Roma”. Non dice buona, ma bella e io lo capisco perfettamente che è l’aggettivo giusto, perché è perfetta, limpida, sgorga sincera, senza posa. È generosa.
Quello che trovo è un posto generoso in un modo così aperto, nei sorrisi, nelle battute dei baristi, che io, che vivo nel terrore di rivolgere la parola agli sconosciuti, trovo sospettoso.
A ripensarci adesso Roma è il posto dove io sono diventata io
Quello che ho lasciato a Roma è sparpagliato per terra nell’ultimo appartamento che ho abitato, sulla Prenestina, proprio di fronte al ristorante africano dove ho mangiato l’anno scorso. A due passi dal centro sociale Snia Viscosa.
Io ho adorato quella strada e il tram, e pure il fatto che passasse sulle rotaie, sotto un ponte, che dava l’aria metropolitana. Ricordo un servizio di piatti arancione e la consapevolezza che no, non ho abbastanza spazio per portarmeli via.
Ho anche la consapevolezza che se lascerò Roma sarò capace di lasciare qualsiasi altra cosa, non perché c’è un nasone, una fontanella proprio all’inizio della via (e ogni volta, l’immagine di mia nonna tornerà senza posa), ma perché l’amore viscerale, il desiderio che fin da subito ho avuto di attraversare questa città come se fosse mia l’ho rivisto solo una volta, in un bambino che conosco bene, che guardò il Charleston, il ristorante dentro il mare – non sul mare – di Mondello e davanti a quella magnificenza di architettura liberty disse “io lo voglio, ma non ci voglio entrare ogni tanto, voglio le chiavi, voglio che sia mio”.
A conti fatti a Roma lascio il desiderio. Proprio la spinta, la passione. Che pure ho mantenuto, ma per andare a Roma, per decidere, senza soldi, senza una formazione adeguata, di “abitare a Roma” ho consumato fino alle ossa.
Quello che ho lasciato a Roma è ancora lì, su quel pavimento, un paio di jeans, che ho indossato solo due volte, con il risvolto leopardato, ché allora non si chiamava animalier e qualche libro che non mi era piaciuto, abbandonato con la segreta speranza che venisse adottato. Era il tentativo di non essere provinciale, tipico di chi viene dal Sud, che diventa la peggio, perché sente di avere cose da dire e dimostrare.
Quello che ho lasciato a Roma è un cappotto bianco cerato, che indosso per attraversarla con il motorino (non ricordo neppure a chi ho lasciato quel motorino) ha un enorme cappuccio imbottito che mi fa sembrare un’esploratrice pronta a salpare su una rompighiaccio.
A ripensarci adesso Roma è il posto dove io sono diventata io. Non perché ho imparato il mestiere e ho avuto incredibili opportunità, Roma è stata anche crudele con una boccalona, come dicono loro, come me.
A conti fatti a Roma lascio il desiderio. Proprio la spinta, la passione. Che pure ho mantenuto, ma per andare a Roma, per decidere, senza soldi, senza una formazione adeguata, di “abitare a Roma” ho consumato fino alle ossa
Ma perché lì ho imparato a cavarmela, a non essere distratta, concentrarmi, sono stata costretta a imparare come trattare con gli sconosciuti, perché cercavo lavoro, ho fatto vita di redazione, centinaia di interviste, articoli, incontri. Perché dovevo convincere la gente ad affittarmi la casa, affidarmi compiti, tutto questo immersa in una precarietà spaventosa, in una città costosissima.
A Roma sono diventata io, perché sono diventata, di riflesso, molto palermitana, perché cucinavo il cavolfiore, che noi chiamavo broccolo, divinamente, davo lezioni non richieste di dialetto e non esiste mio amico che non abbia convinto a dire piccioli invece di soldi, perché affermavo la mia diversità territoriale. Perché la scoprivo, insieme a questa tristezza di essere palermitana e esser scappata dopo le stragi del ’92.
A Roma ho incontrato un sacco di artisti, attori, musicisti e soprattutto scrittori e ho pensato “posso farcela”, perché li incontravo in osteria, nei pub, perché mangiavamo e bevevamo insieme. Perché leggevamo insieme. Perché ho capito cosa significava questo lavoro: vita, pura, semplice, vita.
A Palermo sono stata felice, certe volte. A Roma no. Sono stata molto di più. Certe volte ho pensato “ma vedi questa vita, queste strade trafficate, queste passeggiate lunghissime, nel centro, da piazza del Popolo fino al Colosseo, mi fanno sentire capace di fare cose belle”
A Roma ho lasciato i giri per i negozi dell’usato, il freddo pungente del lungotevere quando vai a correre sull’isola Tiberina, una libreria a Trastevere, una minuscola mansarda dove abitai per un anno e mezzo, senza citofono ché per venirmi a trovare dovevi annunciarti a voce e strillare fino a quando non mi affacciavo da una finestra a oblò.
A Roma comincio a leggere poesie, e soprattutto a crederci. Non so, forse perché crederci a Palermo era più difficile, nelle strade costellate da lapidi e targhe ricordo di morti di mafia. Ma non credo. A Palermo sono stata felice, certe volte. A Roma no. Sono stata molto di più. Certe volte ho pensato “ma vedi questa vita, queste strade trafficate, queste passeggiate lunghissime, nel centro, da piazza del Popolo fino al Colosseo, mi fanno sentire capace di fare cose belle”.
Belle, come l’acqua dei nasoni di Roma. Credo sia questo modo di affrontare la vita, affannosa e luminoso, piene di incredibile fiducia, che lascio a Roma. Ma non per sempre. Non per sempre. Certe volte mi sorprendo a pensare, “un giorno, Roma, tornerò” (avrò le chiavi, come per il Charleston).
Perché Roma mi fa questo effetto qui, mi fa sentire in un mondo possibile, mi commuove.
Durante l’ultima visita, poco prima che scoppiasse la pandemia, ho mandato una foto a una mia cara amica, era una foto abbastanza banale: ho ritratto l’ingresso di casa sua. Anche lei non abita più in quel vicolo. L’ho cercato. Ci tenevo. Appena ho rivisto il portone mi sono emozionata, manco avessi otto anni. Mi sono rivista lì, dopo aver posteggiato il motorino, con il cappotto cerato con il cappuccio imbottito, pronta a salpare su una rompighiaccio.
[Daniela Gambino è una scrittrice e giornalista, nata a Palermo, dove è tornata ad abitare dopo un lungo perioodo trascorso a Roma. Tra i suoi ultimi libri: Conto i giorni felici, Abbi cura di te, 101 cose da fare in Sicilia]
[La foto del titolo è di Andrea Paraggio ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]
Ti capisco Daniela … e ti ho nel cuore.
Anche io, per la pandemia, non ho più potuto incontrare Roma.
E mi manca, come può mancare un amore che è stato grande ed all’improvviso scompare.
Ciao.
Guido
A Roma ho lasciato una vita intera. Ho adorato i tramonti all’arco di Giano, il fischio dei merli nel giardino della clinica dove sono nati i miei figli, i panini morbidi del bar Castellino quando era davvero Castellino; le visite in solitaria, a Novembre, quando chiese e monumenti erano tutti miei. La bellezza del Bernini e di Caravaggio scoperti a 17 anni. I teatri di Roma con Cecov, Ionesco. E il bar del tennis dove incontravi Bosetti e la Carrà. Le mie care librerie dove mi perdevo con Virginia Wolf, Calvino, Malaparte, Deledda, Steinbeck, Pasolini, Fogazzaro, Hugo, De Cespedes, il mio amato Cime tempestose e il buio oltre la siepe. Oceani di parole meravigliose. Sopra tutto e soprattutto ho lasciato l”amore, che non era più mio, nel giardino degli aranci.