I nuovi poveri del Covid a Roma
Me lo dice subito, senza che gli chieda nulla. Basta appena uno sguardo e mi confessa di non farcela più. Intende dire con il Covid.
Ha la mascherina sistemata per bene, una giacca impermeabile, da cui fuoriesce il cappuccio della felpa. Avrà non più di 25 anni. Non ci conosciamo, se non perché compro le riviste nella sua edicola, ogni tanto. In passato c’era spesso il padre. È preoccupato per il futuro: da quando s’è diffusa l’epidemia, l’edicola ha avuto un calo impressionante di vendite. Già negli anni precedenti l’attività s’era ridotta parecchio, con la crisi dei giornali. Pensava di essersi sistemato, prendendo in eredità l’attività del padre, ed ora teme che non andrà così, che dovrà inventarsi qualcos’altro per vivere bene.
“Te pare possibile – mi dice – che prima se aprivi un bar, un’attività, te potevi considera’ uno co’ ‘na situazione bona. L’impiegato pubblico era un ripiego, adesso è il contrario”.
Mai come in questi mesi il divario tra i “garantiti” e i “non garantiti”, si è fatto stridente. Mai come in questi mesi, il divario tra chi ha dei soldi messi da parte su cui contare, e chi non ha nulla, si è fatto doloroso.
Mi tornano in mente le parole di un operatore della Caritas, domenica scorsa 13 dicembre, presso la parrocchia Giovanni Battista de Rossi, all’Appio Latino. In chiesa il rispetto delle norme per il Covid è rigoroso. All’ingresso ci si igienizza le mani ed una persona conta i fedeli che entrano: superato un certo numero, si deve attendere la messa successiva. Il parroco lascia le porte aperte e qualcuno ascolta la messa sulla soglia di ingresso. Durante le Letture, di volta in volta, sul microfono viene spruzzato un disinfettante.
Bruno, della Caritas, si alza, va all’ambone, e racconta il il Giro del Giovedì, l’appuntamento dei volontari per portare cibo, abiti e coperte a chi vive in strada, il loro gruppo passa per la stazione Tuscolana e Ostiense. Uno degli ultimi incontri è stato con una bengalese che lavorava in nero nel settore turistico: con il Covid ha perso ogni entrata, e ora dorme e vive dove può. Bruno ricorda che l’uomo aveva il volto radioso di riconoscenza, quando gli hanno messo in mano una coperta, una felpa ed un cappello. Altrettanta è stata la gioia che hanno sperimentato i volontari nel compiere questo servizio di assistenza.
A Roma, come rivela il rapporto dedicato alla povertà dell’organizzazione cattolica Caritas, in questi mesi chi aveva un lavoro precario o non era in regola, è precipitato nel bisogno, perché non ha goduto misure di sostegno al reddito.
Nei primi nove mesi del 2020, le persone che hanno ricevuto aiuto dai centri di ascolto parrocchiali sono state 21.160. Nel 48,7% dei casi si tratta di italiani, seguiti da filippini, peruviani, romeni e altre 97 nazionalità. Nel 64,4% dei casi, il rappresentante della famiglia che ha varcato per la prima volta la soglia del centro di ascolto è una donna. Sono state 7.476 le persone che si sono rivolte per la prima ai centri di ascolto delle Caritas parrocchiali nel corso dei primi nove mesi del 2020 (+35%).
Prima, nel 2019, mi spiega Salvatore Geraci, responsabile dell’ambulatorio Caritas presso la Stazione Termini, notavano in tante persone una sorta di equilibrismo: avevano una vita più o meno normale ma che per impreviste ragioni potevano cadere nella povertà. Il frutto della lunga crisi economica, quella iniziata nel 2008. Adesso quell’equilibrio s’è rotto, arrivano ai Centri di ascolto, negli Empori Caritas, spesso donne con dei figli, che magari lavoravano nel settore alberghiero, quello del turismo, tra quelli meno garantiti a Roma.
Gente che durante questi mesi chiedeva anche beni essenziali. Dice Geraci: “Persone che chiedono aiuto, chiedono aiuto con molta dignità, anche se con un po’ di vergogna. Insieme alle cose di cui hanno bisogno, chiedono relazioni e rapporti”.
[Foto Caritas]