La città morta
Sta rimbalzando in questi giorni sui media, tra le polemiche, la vicenda del cosiddetto cimitero dei feti, quella lunga fila di croci bianche con su scritto un nome (della madre) col pennarello che, quasi per caso, è stato scoperto al cimitero Flaminio di Prima Porta, anche se uno spazio analogo è presente a Roma anche al cimitero Laurentino, col nome poetico di “giardino degli Angeli”.
Tutto è nato dalla denuncia di una donna, all’insaputa della quale era stato seppellito proprio lì il feto dopo un aborto terapeutico. È lecita una procedura simile? E ha senso violare in questo modo la privacy delle donne che si sono sottoposte a un intervento di aborto? Sono le prime domande che ha suscitato la vicenda.
Indipendentemente dalle posizioni sull’aborto, c’è però un elemento su cui quasi nessuno si è ancora soffermato. Il cimitero dei feti, infatti, non è una novità creata di questi giorni, ma risale addirittura al 1939. Un regio decreto di quell’anno regolamenta la questione e stabilisce la possibilità di sepoltura dei “prodotti abortivi”, ed è stato ripreso e aggiornato poi da normative più recenti. Inoltre, gli accordi stipulati dal Comune di Roma per la creazione di quel “Giardino degli Angeli” del Laurentino, risalgono a quasi un decennio fa eppure, durante tutti questi anni, la presenza di quelle sepolture così controverse è passata pressoché inosservata. Perché?
Uno dei motivi è certamente il rapporto sempre più distaccato della città coi propri luoghi di sepoltura. Un rapporto ai limiti della rimozione del ricordo. Se un tempo solo gli eretici e le prostitute venivano seppelliti lontano, fuori le mura, proprio per cancellarne la memoria, mentre agli altri defunti si riservavano tutti gli onori e si costruivano bellissimi monumenti sepolcrali spesso collocati in aree centrali della città, oggi si tende ad allontanare sempre di più l’idea della morte, anche in senso fisico.
Lo storico francese Philippe Ariès, autore del famoso “Storia della morte in Occidente”, parlando di questo rapporto sempre più a distanza fra la nostra società, i defunti e i loro luoghi di riposo, ha definito selvaggia la morte per come è considerata nella nostra società. Col termine selvaggia Ariès indica una morte sconosciuta, lontana, minacciosa, da contrapporre alla morte addomesticata, e quindi familiare, delle epoche passate. Il suo collega Alessandro Barbero si è spinto anche oltre, arrivando a parlare di una sorta di abolizione della morte che si sta attuando ai giorni nostri. La morte è un tabù, qualcosa da nascondere e, così, anche i luoghi che della morte sono la rappresentazione finiscono per essere dimenticati.
Eppure, non c’è nulla che più di una tomba o di un cimitero racconti meglio la storia di una società, di una città e di chi l’ha abitata in passato. Questo vale anche e soprattutto per una città plurimillenaria come Roma, ricca di sarcofaghi, di monumenti funebri e di cimiteri meravigliosi. Vengono in mente “i sepolcri” di Ugo Foscolo e di come, fra sette e ottocento, si desse enorme importanza ai luoghi di sepoltura. Non a caso è proprio quello il periodo in cui, nella città eterna, nacquero i primi veri e propri cimiteri, per come oggi li concepiamo, a partire dal più grande e famoso: il cimitero del Verano.
All’arberi pizzuti
C’è chi dice che l’espressione romanesca annà all’arberi pizzuti (cioè finire al cimitero, e dunque “morire”) derivi da quei giganteschi cipressi ancora oggi presenti nel camposanto e visibili anche dalle rampe della Tangenziale Est. Il cimitero comunale monumentale Campo Verano, questo il nome ufficiale, è situato lungo la via Tiburtina, in una zona che per secoli è stata usata come luogo di sepoltura, tanto che al suo interno è ancora presente una necropoli romana, quella delle cosiddette Catacombe di Santa Ciriaca. La costruzione del cimitero attuale iniziò nel 1805, dopo l’editto di Saint Cloud, che impose la sepoltura dei defunti fuori le mura della città. Fino ad allora il concetto stesso di cimitero cittadino quasi non esisteva. I defunti romani venivano seppelliti nelle chiese, o nei giardini dei monasteri, o a volte in altri luoghi dell’Urbe, ma di certo non era mai stata concepita l’idea di un unico grande camposanto al servizio di tutta i cittadini. Il progetto originario fu affidato all’architetto Giuseppe Valadier. A quel progetto ne seguirono altri più recenti, dato che i lavori continuarono per oltre un secolo e mezzo, con incessanti opere di ampiamento, che si conclusero solo negli anni Sessanta del Novecento, dopo la nascita del cimitero di Prima Porta.
Ad accogliere oggi i visitatori del Verano è un grande ingresso monumentale, con quattro statue raffiguranti la meditazione, la speranza, la carità e il silenzio, realizzate nel 1880 da Virginio Vespignani. Varcata la soglia è poi tutto un susseguirsi di steli, di tombe, di piccoli e grandi monumenti funebri, innalzati in ricordo di personaggi noti e meno noti. Al Verano riposa il romano per antonomasia, cioè Giuseppe Gioacchino Belli, ma anche, nella sua parte ottocentesca, numerosi eroi risorgimentali, alcuni famosi come Goffredo Mameli, l’autore del nostro inno nazionale, altri meno noti come Rosalia Montmasson, unica donna ad aver partecipato alla spedizione dei mille.
Passeggiando per il cimitero, l’idea stessa di romanità, così come è stata vissuta e si è modificata negli ultimi due secoli, è rappresentata ad ogni passo: Trilussa, Ettore Petrolini, ma anche Mario Brega, Gabriella Ferri, Lando Fiorini, Remo Remotti, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, sono tutti ospiti del Verano. E poi ancora la politica, romana e nazionale: Palmiro Togliatti, Giorgio Almirante, Luigi Longo, Giulio Andreotti, Armando Cossutta, Renato Nicolini, Ernesto Nathan, Nilde Jotti, Pietro Nenni. Numerosissimi sono anche i personaggi dello spettacolo, non solo cittadino, qui sepolti: da Edoardo e Peppino De Filippo a Vittorio De Sica, da Roberto Rossellini a Vittorio Gassman, a Marcello Mastroianni. Fino ad arrivare a nomi che evocano alcuni noti fatti di cronaca, spesso tragici, della nostra storia recente o meno recente, come quelli di Marta Russo, di Wilma Montesi o di Nicola Calipari.
Il Cimitero degli Inglesi
Negli stessi anni in cui partivano i lavori di costruzione del Verano, cominciava anche la storia del cimitero acattolico di Testaccio, quello che molti romani conoscono ancora oggi come “il cimitero degli inglesi”. Nell’ottocento, infatti, molti membri della comunità anglosassone presente a Roma, essendo di religione anglicana, dunque non cattolici, venivano seppelliti qui, facendo nascere questa denominazione. A giustificare il nome popolare del cimitero, sono anche due delle tombe più belle presenti all’interno: quelle dedicate ai poeti inglesi Keats e Shelley.
È agli inizi dell’Ottocento che al cimitero si tenta di dare una sistemazione organica e ufficiale, dedicandolo a sepolture di persone di religione diversa da quella cattolica. Però, proprio come nel caso del Verano, erano già diversi secoli che si provvedeva a seppellire i defunti in quella zona, soprattutto quelli di nobile casato che non volevano subire l’onta di venire sepolti in fosse comuni, insieme a prostitute ed eretici, nell’area dell’attuale muro torto, all’epoca adibita allo scopo. La prassi era così diffusa che, già nel 1671, una deliberazione del Sant’Uffizio acconsentì che ai “Signori non cattolici” cui toccava di morire in città, venisse risparmiata l’onta di una tumulazione nelle fosse del muro torto e che potessero essere sepolti altrove.
La zona accanto alla Piramide fu scelta da molti nobili inglesi perché era un’area meta delle loro gite fuori porta, un’area ricca di monumenti ma anche di verde e in cui, come facevano anche molti popolani romani, quei benestanti signori stranieri andavano spesso a svagarsi durante il loro soggiorno cittadino. Ancora oggi il cimitero ha l’aria di un’amena area di passeggio, più che di un triste luogo di lutto, fra alberi secolari, statue, lapidi e piante che svettano su un prato, ovviamente mantenuto all’inglese.
“Uno straccetto rosso, come quello arrotolato al collo ai partigiani e, presso l’urna, sul terreno cereo, diversamente rossi, due gerani. Lì tu stai, bandito e con dura eleganza non cattolica, elencato tra estranei morti”. Sono i versi di “Le Ceneri di Gramsci” di Pier Paolo Pasolini, che descrivono la tomba del padre del comunismo italiano, Antonio Gramsci, sepolto in questo cimitero. Soprattutto a partire dal ventesimo secolo, infatti, il cimitero acattolico divenne sempre meno “inglese” e sempre più “autoctono”. Qui verranno sepolti alcuni illustri e “italianissimi” personaggi, come il poeta Dario Bellezza, lo scrittore Carlo Emilio Gadda, o la giornalista Miriam Mafai. Nel 2019, poi, anno della sua scomparsa, sono state portate nel cimitero acattolico di Roma anche le spoglie del più noto scrittore italiano degli ultimi decenni: Andrea Camilleri, il creatore del commissario Montalbano.
Tra Ventesimo e Ventunesimo secolo
Con l’enorme sviluppo della popolazione romana, più che quintuplicata nel corso del ventesimo secolo, il cimitero monumentale del Verano ha cominciato a divenire insufficiente ad accogliere le salme dei tanti cittadini della capitale. È per questo che, fra secondo Novecento e primi anni Duemila, Roma ha visto nascere due nuovi grandi cimiteri, uno nella parte nord (il cimitero Flaminio) e un altro in quella sud della città (il cimitero Laurentino).
Il cimitero Flaminio, a Prima Porta, è oggi il più grande cimitero d’Italia. Ampio 140 ettari, è una vera città nella città, con al suo interno templi dedicati alle principali religioni professate a Roma (cattolica, ortodossa, ebraica, islamica), oltre al cosiddetto “Giardino dei Ricordi”, una collina riservata al rito della dispersione delle ceneri. La sua consacrazione ufficiale è datata 1941, ma è solo a partire dagli anni Ottanta e Novanta che ha realmente cominciato a rimpiazzare il Verano come principale luogo di sepoltura dei cittadini romani.
Concepito in stile monumentale, i più significativi dei “monumenti” che lo arricchiscono, sono però, nei fatti, i nomi dei tanti personaggi importanti nella storia italiana del Novecento, che qui hanno trovato riposo. Da Enrico Berlinguer ad Amintore Fanfani, da Umberto Nobile a Pietro Mennea, oltre a Luigi Comencini, Renato Rascel, Francesca Bertini, Domenico Modugno, Giorgio Chinaglia. Non mancano poi, come all’interno del Verano, alcuni personaggi che più di altri sono divenuti dei veri simboli della romanità più popolana e verace. Fra questi spiccano forse Franco Lechner, meglio noto come Bombolo, re incontrastato dei b-movie degli anni Settanta e Ottanta, ma soprattutto Elena Fabrizi, l’indimenticabile Sora Lella.
Nel 2002 Roma inaugura infine il più recente dei suoi cimiteri, il cimitero Laurentino, dedicato ai cittadini dell’area sud della città. Ciò che balza subito all’occhio è che, in base a una precisa normativa, fin dalla sua costruzione, a questo cimitero siano state assegnate le spoglie esclusivamente dei cittadini provenienti da alcune zone della città, escludendone tutti gli altri (salvo particolari deroghe). A differenza di quanto accadeva in passato, dunque, non è più la propria religione, o la propria professione (come, ad esempio, nel caso delle prostitute, destinate alle fosse comuni) a decidere se la sepoltura della salma fosse destinata in uno o in un altro luogo della città, bensì la propria residenza in vita.
La storia del Laurentino è ancora troppo breve per renderlo un luogo di particolare interesse per chi non abbia lì sepolte le spoglie di un proprio caro. Tanto che anche nel sito ufficiale del cimitero, il principale motivo di attrazione per i visitatori dell’area, decantato da chi gestisce quel camposanto, è indicato proprio in quel “Giardino degli Angeli”, inaugurato nel 2012 e dedicato ai bambini mai nati, di cui si parlava all’inizio di questo articolo.
I cimiteri minori
Oltre ai più grandi e famosi, a Roma esistono oggi numerosissimi altri cimiteri, per così dire minori, da quello di Ostia Antica al cimitero di Castel di Guido, dal cimitero di Cesano a quello di Isola Farnese e poi ancora quelli di Porto, di Maccarese, il San Vittorino, la Parrocchietta e Santa Maria di Galeria.
Ma soprattutto esistono alcuni piccoli cimiteri che potremmo definire tematici, di particolare interesse per una visita, come ad esempio il Cimitero di guerra del Commonwealth, realizzato nel 1947 a Testaccio, in via Zabaglia, per ricordare i morti inglesi e delle colonie britanniche, scomparsi durante la Seconda guerra mondiale. Tra i più belli e antichi fra questi cimiteri a tema c’è sicuramente il Cimitero Teutonico. Ubicato in Vaticano, fra la basilica di San Pietro e la sala Paolo VI, tradizionalmente accoglie tutti i personaggi di rilievo di origine tedesca e fiamminga che abbiano prestato servizio alla Chiesa e che siano morti a Roma. Al suo interno c’è anche una “cappella degli svizzeri”, affrescata dai discepoli di Raffaello e dedicata alle guardie svizzere morte durante la difesa di Roma dai Lanzichenecchi, nel 1527.
I cimiteri di Roma sono dunque spazi spesso poco conosciuti e poco frequentati, ma ricchi di storia, di fascino, di bellezze, di ricordi. Sono però anche (ed è forse inevitabile, data la loro natura) dei luoghi densi di segreti, di leggende, di misteri. Uno di questi misteri, cronologicamente piuttosto recente, riguarda proprio il cimitero teutonico. È infatti in questo luogo sacro che sono collocate, fra molte altre, le tombe ottocentesche della duchessa Carlotta Federica di Meclemburgo-Schwerin, moglie del re Cristiano VIII di Danimarca, e quella della principessa Sofia di Hohenlohe-Waldenburg-Bartenstein. Forse questi nomi altisonanti e difficili da pronunciare vi diranno poco, però nel 2019 essi balzarono prepotentemente alle cronache cittadine e apparvero su tutti i giornali della Capitale, quando, dopo alcune “soffiate”, qualcuno suggerì che dentro quelle tombe si celassero in realtà i resti di Emanuela Orlandi. Quando furono effettuati i rilievi, le tombe risultarono però entrambe vuote. Oltre a non chiarire nulla sulla vicenda della povera Emanuela, quelle ricerche aprirono dunque un nuovo inquietante enigma: che fine avevano fatto i resti delle due nobili teutoniche? Una domanda a tutt’oggi priva di risposta. Un nuovo segreto, che va ad aggiungersi ai tanti di cui è ricca la storia della nostra città.
[La foto del titolo, “Il Grande Volo sul Verano”, è di Simone Tagliaferri ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]