Via la Polvere dal caso Marta Russo
Di tutta la vicenda di Marta Russo, la studentessa colpita una mattina di maggio del 1997 da un colpo di pistola su un vialetto dell’Università La Sapienza, e morta pochi giorni dopo in ospedale, io, che in quegli anni facevo il cronista, spesso di nera – ma del caso non mi occupai mai – ho un solo ricordo preciso. Una breve conversazione con un dirigente della Squadra Mobile che ci era venuti a trovare in redazione all’Unità qualche mese dopo, e che disse, più o meno: “Sappiamo per certo che sono stati loro. E non ci sfuggiranno. Li faremo condannare”.
“Loro” erano Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, i due assistenti di Filosofia del Diritto che alcune settimane dopo la morte di Marta Russo furono arrestati con l’accusa di averla uccisa.
Ma ora Scattone e Ferraro, da anni scomparsi dalle cronache da anni, sono tornati. Di loro, e dell’indagine che ha portato alla loro condanna, parla il podcast “Polvere”, un’interessante audio-inchiesta curata da Chiara Lalli, una docente universitaria e scrittrice, e Cecilia Sala, una giornalista.
Otto puntate, per circa 5 ore di registrazione, che ho ascoltato in due giorni. La trovate ad ascolto libero su Huffington Post, su Spotify, Google, Apple, Storytel e su Emons, che ha prodotto il podcast con Miyagi.
Lalli e Sala hanno una tesi, e lo spiegano dalla prima puntata. L’inchiesta giudiziaria fu condotta male, con l’ossessione di trovare rapidamente un colpevole: gli inquirenti commisero diversi errori, prendendosela con due persone che quasi sicuramente non c’entravano nulla. E la “prova esclusiva” della particella di polvere da sparo ritrovata su un davanzale, che orientò le indagini sull’Istituto di Filosofia del Diritto, non era in realtà tale, come indicarono anni dopo i periti nominati dai giudici.
Nel 2003, Ferraro e Scattone, che si sono sempre proclamati innocenti, furono condannati in via definitiva dalla Cassazione: Scattone prese 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo aggravato, perché avrebbe materialmente sparato; Ferraro 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento. Mentre uscì di scena l’usciere Francesco Liparota, inizialmente condannato per favoreggiamento.
el 1999, al processo in primo grado, l’accusa aveva chiesto per Scattone e Ferraro 18 anni, con l’accusa di omicidio volontario in concorso. I giudici, però, avevano condannato Scattone a 7 anni per omicidio colposo e Ferraro a 4 anni per favoreggiamento. Nel 2001 le condanne furono in sostanza confermate, con l’aumento delle pene a 8 anni per Scattone e 6 per Ferraro.
La pistola non fu mai ritrovata, né fu ritrovato il bossolo. Nella condanna dei due furono fondamentali le testimonianze, modificate in realtà più volte, di due donne: l’assistente universitaria Maria Chiara Lipari e la segretaria Gabriella Alletto. Ma tutto partì dal ritrovamento della famosa “particella”, che servì a identificare da dove sarebbe stato sparato il colpo di pistola che raggiunse la studentessa. Su quell’elemento, e grazie poi alle dichiarazioni iniziali di Lipari, seguite da quelle di Alletto, gli inquirenti ricostruirono ( o costruirono) le presenza nella famosa aula 6 e poi le responsabilità. E una terza donna, Giuliana Olzai, diverse settimane dopo il fatto, testimoniò di aver aver visto Scattone e Ferraro insieme, all’Università, che si davano alla fuga.
Ferraro e Scattone furono subito presentati come i colpevoli e i media italiani accettarono la condanna preventiva. Ferraro e Scattone erano antipatici, quasi strafottenti, questo me lo ricordo bene. Ce li presentarono come due mezzi esaltati, appassionati di Nietzsche (e perciò di destra, per definizione), alla ricerca del “delitto perfetto”. L’accusa non trovò un movente, e riuscì a sostenere che il movente fosse da ricercare nella sua stessa assenza, perché gli imputati volevano dimostrare che si può uccidere qualcuno che non si conosce, senza alcun motivo, e farla franca. La condanna per omicidio colposo, e non volontario, contraddisse di fatto il teorema.
Gli inquirenti costruirono un bel quadro a cui i giornalisti, che dipendevano dagli inquirenti per le notizie, aderirono in gran parte senza problemi (non è una critica, ma una constatazione: feci lo stesso anch’io in altri casi, mi rendo conto). Anche se alcuni, come Giovanni Valentini o Giuseppe D’Avanzo, allora entrambi a “La Repubblica”, si schierarono col movimento innocentista sostenuto da decine di intellettuali.
Ovviamente non è una storia solo romana, quella di Marta Russo, che si guadagnò subito le pagine delle cronache nazionali. Per il mistero che circondava l’episodio; perché si era sparato in un campus universitario, anni dopo la fine del terrorismo; e infine perché si metteva mano, con quell’inchiesta, all’Università dei baroni, che uno degli inquirenti definì “un verminaio”, e un altro paragonò, ma in peggio, alla mafia.
Dopo il caso di Marta Russo, tra i frequentatori dell’Università si diffuse il timore. Chi poteva dirsi al sicuro? Non che vi fossero stati atti di violenza od omicidi, nell’ateneo, ma erano stati assassinii mirati. Nel 1985 era stato ucciso, dalle Brigate Rosse, il professor Vittorio Bachelet, un giurista. Nell’85 era toccato al suo collega Ezio Tarantelli, economista, caduto sempre per mano delle Br. Marta Russo, invece, era una come tanti. Forse è questo che definisce il suo omicidio come un “atto di terrorismo”, nel senso che provocò terrore, al di là delle intenzioni dell’autore, o degli autori.
L’inchiesta di Lalli e Sala non contiene clamorosi colpi di scena, ma riporta i fatti, fa parlare i testimoni e i protagonisti – non tutti hanno accettato di comparire: non c’è Alletto, non c’è Lipari, non c’è Scattone – allinea le incongruenze, propone riflessioni. Si spinge alla fine a ipotizzare una strada alternativa per le indagini che porta alle cosiddette “Nuove Brigate Rosse”.
Non so se e quanto oggi il podcast possa appassionare chi quella storia, per questioni anagrafiche – sono passati 23 anni – non la conosceva se non per sentito dire. Personalmente mi ha catturato, anche se non sono mai stato un cultore della cronaca nera o dei “gialli dell’estate”. Mi ha ricordato però quanto è importante nutrire i dubbi, quando di mezzo c’è la vita delle persone, e non trascurare mai i dettagli.
[L’immagine del titolo è una rielaborazione della foto di Beverly Yuen Thomson diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]
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