Un supereroe candidato sindaco
Una cosa, in questi quattro anni, i romani l’hanno capita: l’onestà è valore irrinunciabile per governare Roma, ma da sola non basta. Tra poco meno di un anno la città più difficile del mondo andrà al voto, e l’unico candidato sindaco sostenibile è un supereroe. Forte di un consenso vasto e trasversale alle mille mila categorie della comunità capitolina, che è vasta, variegata, e solo apparentemente indifferente e scanzonata. Di sicuro, oggi molto nervosa.
Per comprendere la portata di questo dato, e di quanto la Capitale sia una città pressoché eterna nei suoi costumi, potrebbe essere opportuno un parallelo con alcuni dati storici.
Anche nel primo secolo a.C., l’Urbe non era molto diversa da oggi. Anzi, era molto molto somigliante. E anche allora la questione più importante era il consenso. Giulio Cesare fece una rapida scalata al potere che lo portò ad essere console nel 60 a.C. ed infine dittatore, grazie ad un vasto e trasversale consenso, radicatissimo nei ceti popolari, straordinario tra le truppe, discreto tra alcuni patrizi, che non guasta. Senza una potente legittimazione, il primus inter pares della classe politica cittadina, allora come oggi, sarebbe zoppo.
Ma, guadagnato il consenso, e quindi la carica, il sindaco si deve misurare su chi la città la governa da decenni, i Dipartimenti, cioè i funzionari ed i dirigenti. In un Comune, i dipartimenti corrispondono ai ministeri in un governo nazionale. Il primo cittadino deve conoscere profondamente il funzionamento di questi centri di potere, perché deve guidarli, dettando regole e pianificando interventi che dovranno essere realizzati dai tecnici, dagli amministrativi. Difficile, anzi difficilissimo. Perché nel corso degli ultimi tre decenni si sono avvicendati alla guida della città ben pochi (o zero?) rivoluzionari capaci e competenti: qualche competente in mala fede, che ne ha fatto un prostituta; qualche “marziano” uscito da palazzo senatorio con un seggiolino eiettabile, mentre precipitava il suo aereo, con alla guida il PD in veste di kamikaze; una brava ragazza totalmente priva di una vera visione di città, incapace di districarsi nei gangli intricatissimi degli uffici amministrativi, e dunque ingenua vittima sacrificale di alcuni tecnici e dirigenti bravi, bravissimi, soprattutto a far di conto per se stessi.
Quindi, ricapitoliamo: un candidato che piaccia, e che sia bravo.
Cesare, per tornare indietro nel nostro parallelo millenario, era davvero magnetico e bravo. Ma, abbacinato dallo strapotere ottenuto, pensò di poter governare la città facendo la spola con l’Egitto, dove Cleopatra fu capace di offrirgli emozioni più intense del potere e del successo, cosa che pochissime donne al mondo sono mai riuscite a fare. Imparate, donne. Ma la città lo punì, perché delegare quasi completamente l’amministrazione di Roma, impero esteso per il 90% del mondo allora conosciuto, a funzionari più o meno fedeli, era davvero impresa impossibile. I funzionari romani ed i governatori delle province col tempo costruivano un tale centro di potere e una tale autonomia che praticamente tutti fecero poi una rapidissima ascesa politica; o, peggio, finirono col dare filo da torcere alla loro stessa città. Vi basti sapere che un certo Cafo, messo ad amministrare la Puglia, finì col comportarsi da sovrano assoluto, compiendo prepotenze e abusi, tanto che il termine “cafone” nella nostra lingua deriva infelicemente dal suo nome, divenuto, per i poveri pugliesi, un vero incubo.
Dunque, un sindaco bravo, ricco di consensi, e che sappia stare sul pezzo. Impraticabile la strada di un’alleanza tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle, in questa complessa realtà. Su Roma, i due partiti non sono mai stati così lontani. Non ci sarebbe accordo che tenga. E trovare un’intesa oggi sul nome di Virginia Raggi, significherebbe per i democratici, che ancora risentono dell’aria mefitica della vicenda Mafia Capitale, togliere definitivamente le tende dal Campidoglio, lasciando sugli scranni in pelle rossa il triste avviso “torno subito”.
Il centrodestra, che negli ultimi anni, in città, ha prima strizzato l’occhio ai populisti e agli estremisti di destra, e poi li ha presi sottobraccio, non avrà difficoltà a soffiare sul malcontento e sul disagio, soprattutto quello delle borgate romane, e sulla difficile situazione economica dell’era post-apocalittica dovuta al Covid. La storia ci ha ben insegnato quanto sofferenze e mal di pancia nei ceti popolari abbiano sempre steso tappeti rossi all’estremismo. Fino a qualche anno fa, Matteo Salvini a Roma non avrebbe mai potuto pensare di trovare uno spazio politico. Oggi, invece, ha davanti a sé una prateria. Quindi, non è importante chi sarà candidato, perché ci sarà Salvini, che scenderà provvidenzialmente nelle piazze romane, a dire cose. Cose che piacciono. Ed alla fine i suoi elettori forse non ricorderanno nemmeno il nome del candidato sindaco, come è già successo in Emilia, con la candidata governatrice della regione, la leghista Borgonzoni, sparita nell’ombra lunga del suo leader nazionale. Tuttavia, a Roma la situazione è diversa rispetto alla regione Emilia, e l’ex ministro dell’Interno può contare su una fetta sempre più grassa di estremismi di destra, che gli fa da stampella.
Anche qui, urge richiamare qualche antenato illustre. Nel periodo di grande disagio che i romani vissero nel primo secolo a.C., epoca di guerre civili, in cui ambizioni sfrenate e lotte intestine, ridussero la loro vita precaria e difficile, inevitabilmente arrivò l’uomo forte, a sistemare le cose. Augusto nel 31 a.C. aveva placato le acque sconfiggendo la flotta navale di Antonio e Cleopatra, che minacciavano Roma dalle coste dell’Egitto. Aveva, a modo suo, con le dovute proporzioni (che Augusto mi perdoni il giocoso raffronto), “fermato gli sbarchi”. Era forte e carismatico. Aveva salvato Roma.
Ma, se lo osserviamo col dovuto distacco, egli, giovane promettente, capace e carismatico, finì con lo sfilare ai romani la loro sudatissima Repubblica, con l’esautorare dolcemente ed in modo indolore il potente senato, e con l’aprire le porte all’epoca imperiale. Un po’ come dire “non c’è più bisogno di bisticciare su chi fa il leader democratico, ora mettiamo un bel monarca assoluto”. Per quanto si possa guardare ad Augusto con ammirazione, riconoscendogli il merito di aver dato a Roma un’età d’oro, è stato colui che in modo molto sapiente, ha saputo sottrarre a Roma la sua antica democrazia repubblicana. Equilibrato e capace a tal punto da non far sentire ai romani alcun dolore, perché fu in grado di dare altre gioie, prima fra tutte la lungamente agognata serenità.
Salvini non ha per le mani nessun candidato neppure minimamente somigliante ad Augusto, ma quand’anche ne tirasse fuori uno dal cilindro, dubito che Roma possa vivere una “nuova età augustea”. Semplicemente perché, nel corso di questi venti secoli e mezzo, l’uomo forte al comando, che risolve i problemi e spazza via le angustie, dal princeps Augusto in poi, è stato sempre più forte e sempre meno capace.
Il nuovo sindaco di Roma dovrà essere dunque onesto (me è un prerequisito fondamentale per qualsiasi mestiere al servizio dello Stato), capace e godere di un ampio consenso. E, compito più complicato fra tutti, saper ricucire i disparati ceti sociali della capitale, subito dopo aver rammendato il centro e la periferia. In una città che dagli anni Cinquanta, in poi, ha dilagato, urbanizzando e riempiendo ogni spazio possibile ed immaginabile. Partorendo le ben note periferie romane, non più accrocchi di baracche, ma enormi quartieri suburbani. E non secondo un principio regolato e strutturato. No. Chi aveva terra, ci costruiva. I piani regolatori arrivavano dopo, col fiatone, insieme ai tanti condoni. E nuove caste prendevano vita: i palazzinari. Quelli che con la crescita della Suburra ci sono diventati ricchi. Quelli che con gli accordi con la politica hanno costruito imperi. Io costruisco un quartiere, ma intanto finanzio la tua campagna elettorale da sindaco, perché so che hai ottime probabilità di essere eletto. Per cui, quando entri nella macchina dei bottoni, io vengo a reclamare il mio pezzo di città. Tuttavia, ab origine, questo principio non era malato. Io ti do il permesso di costruire, tu mi garantisci l’urbanizzazione dei quartieri, contraccambiando con la creazione di spazi, di parchi, di piste ciclabili, di infrastrutture, di strade, di servizi. Solo che nel tempo questa cosa ci ha un po’ preso la mano. Ed il principio di base è stato inquinato dalle lotte di potere e dall’avidità. Ma aspetta, è stato forse lo stesso nella Roma antica. Anche qui, con le dovute proporzioni, ci fu questa stortura.
Una città molto difficile. Dove l’ambizione di potere e l’avidità hanno mangiato a mozzichi la storia recente. Che poi, l’ambizione è anche legittima, se una volta raggiunto il comando, si è in grado di gestirlo. Non è ambizione, se una volta arrivati nella stanza dei bottoni, si premono a casaccio: è perversione.
E questo concetto di vuota e folle ambizione, così moderno, fa venire in mente un episodio che viene raccontato sul personaggio di Cesare. Attraversava un piccolo villaggio delle Alpi con i suoi compagni, che, guardandosi intorno, paragonavano sorridendo quella frugale realtà montana alla grande Roma. Cesare li ascoltava in silenzio. E alla fine commentò: “Dite pure ciò che volete. Io preferirei comunque essere il primo qui che il secondo a Roma”. Pensiamoci bene. Fosse la volta buon che il primo è pure il più bravo?
Cultura, lungimiranza politica e la capacità di collegamenti che in pochi saprebbero fare. Conoscendoti poi, proporrei te come candidato sindaco e questo per le tue non poche doti, prima fra tutte: una grande e comprovata onestà. Brava, bravissima.