La scomparsa di Roma
Quel giorno, Danny Boodman T. D. Lemon Novecento, il grande pianista, nato e vissuto, da sempre, su un transatlantico, aveva finalmente deciso di scendere sulla terraferma. Per l’occasione aveva indossato il suo cappotto più bello e si era diretto con passo sicuro verso le scalette della nave. Eppure, gettando un’occhiata al porto e alla città, si fermò come terrorizzato, scegliendo, dopo attimi interminabili di sgomento e riflessione, di tornare indietro, restando per sempre sul “Virginian”, il suo amato piroscafo.
Quello che vi ho appena descritto, è uno dei momenti più significativi di Novecento, la pièce teatrale di Alessandro Baricco, da cui il regista Giuseppe Tornatore avrebbe poi tratto il suo famoso film La leggenda del pianista sull’oceano.
In un mirabile monologo – di cui potete vedere qui la versione cinematografica – è lo stesso protagonista a spiegare il perché di quella sua sorprendente scelta:
“lo cercai, ma non c’era una fine in tutta quella sterminata città. Ora tu pensa un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono ottantotto, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito e, dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare”.
Nella nostra attuale “reclusione domiciliare”, dovuta alle misure di sicurezza seguite alla diffusione del coronavirus, ciascuno di noi, da qualche mese, è ormai divenuto a suo modo un piccolo Danny Boodman, un più o meno abile “pianista sull’oceano”, che naviga nel personalissimo transatlantico della propria quotidianità e della propria abitazione. Abbiamo acquisito i nostri riti domestici, le nostre nuove abitudini, all’interno dei nostri spazi più o meno angusti, coi nostri “ottantotto tasti” attraverso cui suonare la nostra musica. A tutti manca però (per ovvie ragioni di “distanziamento sociale”) un’autentica condivisione, una dimensione non virtuale, che si possa davvero definire comune, sociale, urbana.
Sì, certo, qualcuno alle sei del pomeriggio canta insieme agli altri, affacciandosi dal balcone. Qualche condomino gioca anche a tombola dalle finestre. E, di certo, quasi tutti ci teniamo in contatto con amici, conoscenti, parenti, colleghi, tramite social e videochiamate. Ma, praticamente, ognuno di noi ha perso un vero rapporto con la propria città.
Ci ritroviamo ormai a guardare Roma solo attraverso lo schermo di un televisore o di un pc, con i servizi girati negli ospedali, o le interviste ai posti di blocco della polizia, oppure tramite le fotografie che ci mostrano strade semideserte e gioiose paperelle che sguazzano nella vasca della fontana di Trevi. Senza però, di tutto ciò, poterne avere un’esperienza diretta, tattile, concreta.
Non solo non abbiamo modo di vedere coi nostri occhi Roma (se si esclude quell’infinitesima parte della Capitale che è rappresentata dal breve percorso che va da casa nostra al più vicino supermercato), ma è l’idea stessa di città, di spazio urbano e comune, che lentamente, in modo forse irreversibile, sta iniziando a venire meno.
Il concetto di “Urbe” (o di “Polis” se vogliamo usare la definizione greca, da cui deriva il termine “politica”) è infatti, per sua natura, un concetto che impone una concretezza, così come impone dei precisi limiti fisici e mentali. Ogni città ha una sua organizzazione, valida solo all’interno dei propri confini comunali. E sono proprio quei confini a definire la città, a dargli un senso.
Ogni città, quindi, deve avere un suo spazio concreto di vita e di azione, un suo inizio e anche una sua fine (quella che un tempo era plasticamente segnalata dalla cinta delle mura difensive), un suo specifico territorio, oltre il quale non valgono più le sue regole, ma quelle di un’altra comunità cittadina, fisicamente e culturalmente più o meno distante, che ha altre caratteristiche e un altro tipo di gestione.
Oggi però, chiusi nelle nostre abitazioni e perennemente connessi solo via web, queste distanze fisiche (e di conseguenza anche mentali, culturali, politiche, intese proprio come caratteristiche della “Polis”) sembrano aver perso di importanza e di valore.
Ci colleghiamo su Skype con un parente di Pescara: “Tutto a posto lì da te?” e ci parliamo per ore come se lui fosse qui con noi. Guardiamo poi, postate su Facebook da qualche nostro amico, le immagini delle corsie di ospedale di Madrid, così simili a quelle del nostro Policlinico da sentircele “di casa”. Abbiamo, via via, sempre più dimestichezza con le cucine che si intravedono nei tutorial per realizzare un buon ciambellone, in quei video girati forse in una casa di Pistoia, o di Como, oppure di Avellino, mentre ne abbiamo sempre meno con le cucine di Centocelle o del Flaminio, dove probabilmente abbiamo anche cenato, perché lì vive qualche nostro conoscente perso di vista in questi mesi.
Poiché il coronavirus è una pandemia che colpisce quasi tutto il mondo indistintamente, senza barriere fisiche e geografiche, è un dramma che viviamo senza contatti, barricati in casa, col mondo esterno che ci arriva quasi esclusivamente attraverso le immagini e le notizie via web, è il senso stesso di comunità urbana che sta cominciando a non avere più dei precisi confini mentali, a perdere di concretezza, di fisicità.
La nostra “città” finisce così per identificarsi, sempre di più, con il mondo intero, o meglio con ciò che del mondo ci mostra la rete, anziché con il nostro concreto spazio urbano.
Anche a livello politico, tutti gli interventi di questi mesi sembrano andare in questa direzione.
Mentre il Parlamento italiano continua fisicamente a riunirsi, non è già più così per il nostro consiglio comunale, che ha smesso da tempo di incontrarsi in Campidoglio.
Intanto, ogni decisione sembra non considerare più Roma in quanto tale, Roma intesa come città, come comunità con i suoi specifici bisogni. Tutto ha una dimensione più genericamente nazionale, in qualche caso regionale, in qualche altro internazionale, ma mai cittadina.
Anche i più importanti provvedimenti attuati espressamente dal Comune di Roma, come ad esempio la fornitura dei “buoni spesa” ai più bisognosi, risultano alla fine una semplice emanazione di scelte operate a livello di governo italiano e non qualcosa di specificamente romano.
A fronte della probabile e imminente trasformazione radicale di una città come la nostra, la cui mobilità, la cui organizzazione sociale, il cui tessuto economico, fatto in gran parte di turismo, di commercio, d’intrattenimento, necessita urgentemente di doversi adeguare alla nuova situazione post pandemia, è anche molto difficile, se non impossibile, trovare una qualche riflessione o una qualche proposta “cittadina” sul da farsi, su come riorganizzare l’Urbe, i suoi meccanismi, i suoi spazi, proprio come se la città già non esistesse più e occorresse ragionare solo in un’ottica più ampia.
A dire il vero, questa scomparsa dei confini fisici e mentali di Roma e dell’idea stessa di comunità urbana, non è un qualcosa di totalmente nuovo e imprevisto, né può dirsi causato dal diffondersi del virus e dalla successiva, alienante, “quarantena” a cui le misure di protezione ci hanno sottoposti.
Certo le nuove regole di comportamento, dovute all’epidemia, stanno accelerando questo processo, ma esso era in atto, in modo forse meno rapido e visibile, già da diversi decenni.
In un suo libro del 2011 (La fine della città, Edizioni Laterza), l’architetto e urbanista Leonardo Benevolo, già ne analizzava gli effetti e le cause (tra cui la cementificazione selvaggia, la riduzione e la scomparsa delle aree rurali, la crisi della pianificazione urbanistica, ecc.) e così si esprimeva:
“Mentre prima distinguere la città dal territorio organizzato diversamente era facile, alla portata di tutti, oggi invece abbiamo la sensazione che la differenza fra un dentro e un fuori della città sia diventata più difficile da percepire. Abbiamo davanti la prospettiva di un’esperienza storica che volge alla fine”.
È un’esperienza storica antica di migliaia di anni, fin dai tempi dei primi insediamenti cittadini attuati nel neolitico, a cui il virus potrebbe dare oggi un serio colpo di grazia. Tutte le esperienze storiche hanno durata limitata nel tempo e il concetto di città non farà eccezione. Forse, quindi, in un futuro più o meno prossimo, non potremo dunque più definirci “cittadini di Roma”.
Forse, così come avvenuto da tempo per l’economia, saremo presto solo gli abitanti di una mega “Urbe globalizzata”, un unicum planetario, indistinto e indistinguibile, di cui non sarà più possibile non solo vedere, ma anche solo concepire i confini. Un’immensa città senza nome, senza inizio e, soprattutto, senza fine.
Tutti i grandi cambiamenti portano con sé anche grandi opportunità, si dice. Sicuramente sarà così anche in questo caso. Ci sarà del buono in questa trasformazione. Certo, però, di fronte a questa nuova prospettiva (non così lontana e fantascientifica come potrebbe apparire a prima vista), davanti a questa più o meno imminente scomparsa di Roma, una scomparsa non certo intesa come distruzione dei suoi palazzi e monumenti, ma come fine di una comunità ben definita, con le sue specificità, certo, quando ciò accadrà, non ci sarà da stupirsi se qualcuno fra noi, con indosso il cappotto buono delle grandi occasioni, resterà come paralizzato, perplesso, spaventato; se risalirà di corsa le scalette della nave, finendo per rinchiudersi nel suo personale e immaginario transatlantico privato, a suonare il suo “pianoforte da ottantotto tasti”.
Proprio come fece un giorno sul “Virginian” Danny Boodman T. D. Lemon Novecento.
[La foto del titolo è di Luca Di Ciaccio. Le foto nel post sono di Igor Francescato e sono state scattate a metà marzo all’Appio. Tutte le foto sono state diffuse su Flickr.com con licenza creative commons]