Per una salute davvero pubblica
Il Coronavirus sta sconvolgendo il nostro mondo molto più profondamente di quanto possiamo renderci conto. Avremo tempo e modo di fare i conti: con noi stessi, con le scelte passate e quelle future, con le responsabilità vere e presunte.
Ora è il tempo di seguire le indicazioni che il mondo scientifico e politico ci sottolineano tutti i giorni. Essere cittadini, ora, significa adottare responsabilmente comportamenti adeguati al rischio.
Ma nell’immediato diventa anche capitale ribadire un concetto che, come organizzazione civica, come Cittadinanzattiva, abbiamo ritenuto il fondamento di molte nostre azioni: la salute è un bene pubblico.
Attenzione: la salute, non la sanità. Perché sono due cose distinte e diverse. La prima è un bene da tutelare; la seconda è l’organizzazione, o parte di essa, che serve a tutelare la prima.
Appare a tutti evidente in questi giorni che la carenza di posti letto in terapia intensiva, la carenza di personale medico, di infermieri, di tecnici di laboratorio, radiologi, etc etc abbiano creato e creiino molti problemi. Stiamo parlando di organizzazione, e quindi della sanità, come sistema che dovrebbe garantire salute.
Ogni sistema che si voglia chiamare tale, lavora sui numeri, sui dati, sulle proiezioni. Ci si danno delle regole e dei budget per garantire quanto si programma.
Se ipotizziamo che in un dato territorio avremo una popolazione in aumento di persone anziane, con più patologie e quindi bisognose di assistenza, ebbene in quel territorio dovremo immaginare che nei prossimi 5-10 anni, ad esempio, avremo probabilmente un aumento di consumo di farmaci, di presidi, di “costi”per assistenza domiciliare e così via. E che probabilmente i reparti di ginecologia e ostetricia di quel territorio subiranno un calo sostanziale, se non addirittura la chiusura.
Ecco, questi sono scenari accaduti nel nostro paese. Senza contare le Regioni dove si è dovuto intervenire con il commissariamento e ciò che ne consegue.
Il caso Forlanini e la giunta Storace
Il Lazio è una di queste Regioni. Stanno girando polemiche sulla struttura dell’ex ospedale Forlanini di Roma, e a un appello per riaprirlo è seguita una raccolta di firme.
A mio giudizio la campagna è strumentale e cavalcata da almeno due o tre distinte parti politiche, oltre che da interessi di corporazioni più o meno palesi. Diplomaticamente, dico che è un errore gravissimo.
Ho partecipato e firmato tre anni fa la petizione “Forlanini bene pubblico”, e non me ne pento. Perché lì era in ballo l’idea di mantenere pubblico un immobile che poteva essere destinato a uso privato, e rischiava di essere venduto a privati.
Oggi questa vicenda non ha senso. Se vogliamo ragionare dell’uso futuro del Forlanini d’accordo. Se invece ci si vuole preparare alla prossime elezioni amministrative di Roma, fate pure, non è il nostro gioco. Ma sappiate che il modo che state utilizzando è squallido.
E va anche ricordato che la Giunta regionale di centrodestra guidata da Francesco Storace produsse un buco miliardario che diede il via al percorso di commissariamento della sanità nel Lazio.
Tale situazione ha comportato – dopo la giunta di centrosinistra di Piero Marrazzo e il passaggio alla giunta (di centrodestra) di Renata Polverini – con il governo Monti, l’ìimposizione di regole nazionali che hanno costretto la Regione Lazio, sotto la presidenza di Nicola Zingaretti, al taglio di posti letto, al blocco del turn over e delle assunzioni.
La giunta Zingaretti ha compiuto sicuramente degli errori, che abbiamo puntualmente e pubblicamente segnalato, alle ultime elezioni regionali. Ma si è mossa su un terreno che è stato imposto da regole nazionali e che bisognerebbe conoscere prima di scrivere, parlare o proporre l’improponibile.
Uno degli errori più gravi è stato quello di non avere decisamente chiuso con ambienti di sottobosco. E alcuni di quelli che si sgolano oggi contro Zingaretti non li ho mai visti quando, da soli, abbiamo chiesto il commissariamento di alcune Asl del Lazio, o di evitare nomine per questo o per quel dirigente.
Ma un problema è stata anche una strategia limitata nel tempo e nella visione, troppo timida ancora nella innovazione organizzativa. Ci sono ancora pochi “dirigenti” che facciano la differenza nella visione del futuro.
Sono queste, in sintesi, le questioni che punteggiano lo scenario degli ultimi 20 anni nel Lazio.
Nuove regole
Noi vogliamo difendere la salute pubblica, lo abbiamo sempre fatto. E voglio anche una sanità pubblica le cui regole però siano radicalmente diverse da quelle degli ultimi 20 anni.
Non deve contare la sigla sindacale, il barone di turno, la sigletta partitica più o meno rilevante. Servono persone competenti che sappiano programmare un servizio sanitario, anzi socio-sanitario, per i prossimi decenni con strutture, mezzi, personale adeguato. In cui l’ospedale sia solo un pezzo del sistema, e non l’unica risorsa dove appuntare interesse e speranza, posti di lavoro e sviluppo tecnologico, clientele e generosità.
L’ospedale come pezzo di una tutto. Dove il “mitico” territorio fatto da strutture differenti e da personale insufficiente assuma sempre più un ruolo “centrale” nella riorganizzazione dei servizi. Dove le case delle persone con il loro vissuto entrino a pieno titolo a far parte della rete dei servizi socio-sanitari.
Abbiamo numeri e dati che ci dicono che i nostri anziani aumenteranno, che chi fa assistenza a casa (caregiver) ha una responsabilità ma non ha “poteri”, che intere parti del nostro territorio (le aree interne) sono e saranno governate da queste situazioni se non saremo in grado di immaginare un futuro diverso e innovativo.
Si tratta di aprire un mondo chiuso, autoreferenziale, clientelare e baronale come la sanità. Si tratta di fare l’ultimo miglio: la quarta riforma del Servizio Sanitario Nazionale.
Non intendiamo batterci per un posto letto in più in un ospedale, perché quella è una battaglia persa e che non serve a garantire il pubblico. E perché quel posto letto è preda di interessi particolari che si ammantano di “interesse generale”. Perché vogliamo e pretendiamo di più. Molto di più.
Se dobbiamo scegliere l’immagine del Servizio Sanitario Nazionale, e su questo alzare una bandiera visibile, riconoscibile e attrattiva allora sappiamo cosa scegliere: i balconi illuminati da tante donne, uomini e bambini di questi giorni alle sei di sera che cantano e si stringono gli uni agli altri, perché così il domani fa meno paura.
Scegliamo il vicino che, responsabilmente, sta a casa in questi giorni.
Scegliamo la comunità fatta da persone che vogliono il bene pubblico, e quando arriva il momento di scegliere sanno fare sacrifici per tutti. Anche per gli idioti che scappano in giro per il paese portando a spasso con la loro idiozia un virus letale.
Scegliamo la fatica di dover spiegare anche ai nostri perché no o perché si.
Scegliamo la via democratica per eccellenza che è quella dell’ascolto, del dialogo costante, faticoso, mai scontato e sempre nuovo.
Scegliamo però anche la competenza del medico, dell’infermiere, del ricercatore, dello statistico, del giornalista, di chi volete voi, ma basta che sappia fare bene il suo e riconosca che il mestiere degli altri non è il suo.
Scegliamo la sanità pubblica senza le clientele di chi ci lavora, dei baroni, dei soloni che sempre pontificano dopo aver fatto danni per decenni.
Scegliamo la responsabilità di chi ci ha sempre messo la faccia al posto di tanti che, in silenzio, hanno continuato a lavorare sapendo che un pezzo di colpa stava anche là.
Scegliamo una politica imperfetta che sbaglia ma sa correggere gli errori e riconoscere che c’è bisogno del concorso di tutti per arrivare al traguardo.
Scegliamo le imprese private che si mettono a disposizione delle comunità nel momento più duro.
Scegliamo le donne e gli uomini che ogni santo giorno mettono a disposizione di tutti la loro professionalità e vanno a comporre quello che noi chiamiamo Servizio Sanitario Nazionale. E che mille piccoli picconi hanno tentato e tenteranno di buttare giù. Con le assicurazioni integrative (di questo pochi parlano), con i pareggi di bilancio e le logiche ragionieristiche, come se stare bene o male dipendesse da un bilancio. Con l’introduzione nel lessico comune dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) che scalzano di fatto la parola “universalitico”: perché se introduce un livello, quello che non copre automaticamente diventa altro e non più “pubblico”.
Non faremo una battaglia persa per un posto letto in più, quando il gioco si fa su un altro terreno e con altri giocatori.
Se vogliamo che sia pubblica, la sanità deve essere accessibile, unica, innovativa per tutti. E lo si può fare con il concorso di tutti i soggetti.
Per renderla davvero pubblica, la sanità va ripensata nei luoghi modulabili e flessibili; nelle persone e nelle competenze multidisciplinari; nelle diverse sensibilità e storie con il sempre più attivo coinvolgimento delle organizzazioni civiche e delle associazioni di malati cronici e rari anche nella programmazione sanitaria.
Che sia pubblica, veramente, dipende da ognuno di noi. Dall’impegno costante, assiduo, martellante di ogni singola persona che ha competenze, professionalità e capacità tecniche da mettere a disposizione.
Che sia pubblica, veramente, dipende da quanto ogni persona saprà sostenere nei prossimi mesi in ordine alle discussioni che si apriranno.
Che sia pubblica, veramente, dipende da quanto ognuno di noi è disposto a fare concretamente per tenere la barra dritta sull’obiettivo senza farsi ammaliare da nessuna sirena.
Che sia pubblica, veramente è, forse anche in questa storia del Coronavirus, la risposta a una domanda di salute della nostra gente e insieme il miglior augurio per il nostro futuro.
Che sia pubblica, veramente.
Elio Rosati è segretario di Cittadinanzattiva Lazio