Coronavirus, l’uovo di Columbus

“Bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante” diceva il filosofo Friedrich Nietsche. Nei caotici giorni della crisi da Coronavirus, una strana “stella” ha cominciato a danzare nella nostra città: è la paradossale vicenda dell’ospedale Columbus di Roma, una storia dall’andamento così inatteso e surreale da sembrare uscita dalla penna di Eugene Ionesco o di altri maestri del teatro dell’assurdo, segno inequivocabile dell’improvvisazione che regna a livello di scelte politiche e sanitarie; ma, contemporaneamente, anche prova della genialità creativa italiana, che è spesso capace, in modo rocambolesco, di trasformare i drammi in opportunità.

Foto di Ariadna Creus e Angel Garcia diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

 

Il fallimento di una struttura d’eccellenza

Il Columbus di via Moscati, a due passi dall’Università Cattolica e dal più grande e noto Policlinico Agostino Gemelli di Roma, era ed è una delle tante “eccellenze sanitarie” di cui l’Italia può farsi vanto, un ospedale accreditato presso il Servizio Sanitario Nazionale, con personale medico e paramedico di prim’ordine, attrezzature all’avanguardia e una certa attenzione per i pazienti. Un fiore all’occhiello capitolino che sarebbe stato logico preservare con la massima cura e sostenere nel suo operato.

Eppure, vuoi per colpa dei troppi tagli alla sanità avvenuti negli ultimi decenni, vuoi per una cattiva gestione amministrativa, così come per vicende interne dai contorni non sempre limpidi – alcune delle quali arrivate nelle aule di tribunale – nel 2015 per la Association Columbus proprietaria fino ad allora dello stabile e delle attrezzature, e titolare della gestione amministrativa e sanitaria del presidio, arriva lo stop (e nel 2017 il fallimento ufficiale). L’ospedale finisce in mano a un curatore fallimentare, che ha il compito non facile di trovare chi possa scongiurarne l’altrimenti inevitabile chiusura.

Il presidio Columbus. la foto è stata pubblicata sul sito web del Policlinico Gemelli

Nell’immediato, è l’adiacente Policlinico Gemelli a intervenire, affittando la gestione del ramo d’azienda e delle mura per un periodo di quattro anni e garantendo così la continuità operativa di medici e personale amministrativo. I quattro anni, però, passano pigramente senza che nulla accada. Le numerose aste che la curatela fallimentare indice per l’acquisto della struttura vanno deserte una dopo l’altra.
Lo stesso Policlinico Gemelli sembra piuttosto indifferente alle sorti del presidio, ritenuto in fondo una sorta di “doppione” e perciò lasciato al proprio destino, con lo smantellamento progressivo di interi reparti e servizi, fra cui quello di pneumologia. Unica eccezione un’offerta di acquisto avanzata nel 2018, avvenuta però fuori bando d’asta e per un importo ritenuto inadeguato dal curatore fallimentare, con l’effetto di non produrre nessun risultato concreto.

Il 31 ottobre 2019, data di scadenza del contratto di affitto del Gemelli, le sorti per il Columbus e i suoi quasi 800 fra medici, paramedici e amministrativi, sembrano segnate: chiusura definitiva della struttura.
Ma ecco il primo colpo di scena: nella tarda serata di quel giorno fatidico, in extremis, interviene a cambiare le sorti l’assessorato alla Sanità della Regione Lazio. La Regione, infatti, prova a sbloccare la situazione, forse preoccupata per la “bomba sociale” che il Columbus potrebbe rappresentare, non solo per i tantissimi dipendenti a rischio licenziamento, ma anche per le centinaia di pazienti ricoverati in quell’ospedale e gli assistiti dagli ambulatori. Per mezzo di un nuovo accordo, il Policlinico Gemelli assume per alcuni mesi la gestione straordinaria del ramo d’azienda, al solo fine di garantire la “continuità assistenziale” dei pazienti. La sopravvivenza del Columbus è così procrastinata fino al 30 giugno del 2020.

In fin dei conti, sembrerebbe più che altro un modo per prendere del tempo, per prolungare la lenta agonia di un “paziente clinicamente morto” quale sembra essere in quel momento il Columbus, se non fosse che il destino ha in serbo un nuovo colpo di scena, stavolta sotto forma di “emergenza sanitaria nazionale”.
Con l’inizio del 2020 sta infatti per scoppiare l’epidemia da Coronavirus, che stravolge tutti i programmi e tutte le certezze, positive o negative che siano.

 

Dal disastro al “Covid Hospital”

Anche i mesi che passano dal primo novembre 2019 alla fine di febbraio 2020 trascorrono senza che nessuno si preoccupi troppo delle sorti dell’ospedale. Intanto, però, dalla Cina è arrivato in Italia il famigerato virus Covid-19. Per la Regione Lazio chiudere una struttura ospedaliera, nel bel mezzo di una gravissima crisi sanitaria, rischia ora di essere devastante, sia sul piano concreto che d’immagine, una vergogna che potrebbe finire sui giornali di tutto il mondo, quegli stessi giornali che hanno da poco esaltato l’efficienza dei cinesi, capaci di realizzare nuovi ospedali in poche settimane.
Comincia perciò una ricerca affannosa di nuove strutture da affiancare all’ospedale Spallanzani, unico ospedale romano adeguato per affrontare le esigenze create dalla diffusione del virus, ma che rischia di rivelarsi insufficiente per rispondere da solo alla crescita esponenziale del contagio.

Foto di Nenad Stojkovic diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Se ancora il 2 marzo ci si concentra su ipotesi come quella dell’ospedale San Giacomo, o del San Giuseppe di Marino; se, negli stessi giorni, i cittadini romani cominciano a firmare in massa una petizione per la riapertura del Forlanini (struttura un tempo specializzata per le malattie polmonari, ma chiusa da molti anni e ormai devastata al punto tale da rendere decisamente lento e costoso un suo ripristino), nella riunione che si svolge in Regione il 5 marzo (ultima alla quale sia ancora presente Nicola Zingaretti, prima di scoprirsi anch’egli positivo al virus), la scelta per aprire nel Lazio un Covid Hospital numero due ricade proprio sull’ospedale Columbus.

Sembra l’uovo di Colombo – anzi “l’uovo di Columbus” – capace di risolvere in un colpo solo mille problemi. Per la Regione il rischio di chiudere quella struttura e quindi di esporsi a una figuraccia planetaria è scongiurato. Per il Gemelli (che fino a giugno 2020 ha ancora il compito di gestire in via “straordinaria” il Columbus) non solo è un ottimo modo per ottenere indispensabili fondi legati all’emergenza, ma anche per accreditarsi nel nobile ruolo di “salvatore della Patria”. Per i contagiati dal virus si apre la speranza di nuovi posti letto e nuovi posti di terapia intensiva. Per il personale Columbus il rischio di licenziamento sembra temporaneamente scongiurato.
Tutto lascia quindi intravedere una geniale, anche se rocambolesca, soluzione “win-win” come direbbe chi si occupa di marketing, cioè vincente per ogni soggetto coinvolto e senza controindicazioni. Tanto che i lavori per l’adeguamento della struttura partono immediatamente, in vista di una prima apertura di alcuni reparti dedicati ai contagiati da Covid-19 prevista per il 16 marzo e una trasformazione completa dell’ospedale prevista entro il 30 marzo. Tempistiche che non sfigurano nemmeno al confronto con quelle cinesi.

“Il complesso Columbus verrà trasformato in reparto dedicato a soggetti con malattia accertata o fortemente sospetta e alla fine prevederà 80 posti in stanze singole di degenza attrezzate per la misurazione dei parametri respiratori e assistenza, più 59 letti in terapia intensiva. La struttura sarà attivata parzialmente da lunedì 16 marzo con 21 posti letto in terapia intensiva e 28 in degenza ordinaria. Dal 30 marzo, il complesso Columbus sarà completo”, dichiara il 9 marzo il professor Rocco Bellantone, direttore del Governo Clinico del Policlinico Gemelli e preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, in un’intervista rilasciata a Fanpage. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. Ma è davvero finita qui?

 

La spada di Damocle

Quello di cui ancora quasi nessuno parla è che il prossimo 2 aprile, cioè appena due giorni dopo l’apertura ufficiale del nuovo “Covid Hospital”, è prevista una nuova asta per l’acquisto del Columbus e per rilevarne il ramo d’azienda.
Cosa significa questo sul piano pratico? Significa che chiunque, in teoria, potrà fare quel giorno un’offerta per rilevare l’ospedale e il suo personale e che, in caso quel “chiunque” non fosse lo stesso Policlinico Gemelli, divenendone il nuovo proprietario e gestore, potrà decidere di cambiare le decisioni fin qui prese.
È certo probabile, alla luce degli ultimi sviluppi, che possa essere proprio il Gemelli, a quella data, l’unico davvero interessato ad avanzare un’offerta. Probabile, ma non certo. E c’è un’altra ipotesi, fino a pochi giorni fa la più accreditata: cioè che l’asta vada deserta. La curatela fallimentare a quel punto potrebbe decidere comunque di chiudere la struttura. E i pazienti in quel momento ricoverati? E il personale medico e paramedico in servizio, il cui contratto è in scadenza al 30 giugno 2020?

Nicola Zingaretti nel 2014 a Bruxelles. Foto del Comitato Europeo delle Regioni diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Insomma, niente è sicuro al momento, se non che l’accordo preso pochi giorni fa fra la Regione Lazio e la Fondazione Gemelli non tiene conto del fatto che per ora, sul piano formale, il Gemelli non è ancora il proprietario della struttura, né da luglio potrà liberamente decidere della gestione del personale di servizio se ad aprile non dovesse rilevare il nosocomio.
Quindi ciò che è stato deciso oggi, potrebbe dover essere completamente rivisto domani, con la nuova ipotetica proprietà, oppure col curatore fallimentare. E non è dunque da escludere, almeno formalmente, che il nuovo “Covid Hospital” possa durare solo lo spazio di un mattino, senza un intervento specifico della Regione.

Il personale, intanto, frastornato dallo “tsunami emergenziale” causato dallo sviluppo del contagio da Covid-19 e dal moltiplicarsi delle problematiche relative – alle quali sta rispondendo con l’impegno e l’abnegazione dimostrato ovunque dal personale medico e paramedico italiano – aggiunge in questi giorni la confusione sul destino e sulla situazione logistica del presidio sanitario, in via di rapidissima trasformazione, nonché l’ansia per il proprio futuro professionale, oltre che per la propria stessa salute, visto l’altissimo numero di contagi da Coronavirus avvenuto tra il personale medico di tutto il mondo. È un personale che opera quindi in una situazione non certo ottimale, cosa preoccupante in un momento così critico e delicato.

Riassumendo tutti i vari dati, quella del Columbus, nel più classico stile italiano, è davvero una vicenda ingarbugliata, paradossale, dove tutto è incerto, provvisorio e dove quello che oggi sembra assolutamente sicuro – con tanto di ingenti investimenti economici e di energie professionali spese per mettere in atto i progetti previsti – potrebbe di colpo essere totalmente diverso domani, col rischio di pesanti strascichi, fatti anche di contenziosi legali e di carte bollate, ancora più devastanti in un momento di grave emergenza come l’attuale.

Eppure (anche questo nella migliore tradizione italica), ogni perplessità potrebbe anche finire in una bolla di sapone, ogni cosa, quasi per miracolo, potrebbe andare per il verso giusto e il caos attuale potrebbe davvero generare quella “stella danzante” cara al buon Nietzsche.

La vicenda Columbus, insomma, potrebbe essere il primo positivo esempio di un’inversione di rotta, una sorta di cartina di tornasole capace di innescare un auspicabile “circolo virtuoso”, che può far tornare gli investimenti sulla sanità uno degli impegni centrali della nostra società. Scopriremo già a partire dai prossimi giorni se sarà davvero così.

[Per trasparenza d’informazione, occorre precisare che la moglie di Massimiliano Cacciotti lavora presso il presidio Columbus]

2 thoughts on “Coronavirus, l’uovo di Columbus

  • 5 Aprile 2020 in 5:21
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    Gentilissimi, nell’articolo sopra, si utilizza il termine “paramedico”. Termine sicuramente inappropriato nella realtà sanitaria Italiana (forse più appropriato per USA). Se con questo termine vi riferite agli infermieri, fisioterapisti ecc è necessario specificare che queste categorie sono professionisti laureati, facenti parti della categoria delle Professioni Sanitarie. Questo utilizzo improprio rileva con duplice funzione: 1)un giornalista a mio avviso dovrebbe conoscere il significato delle parole, utilizzarle nel giusto contesto e con appropriatezza. 2) I professionisti che leggono l’articolo sono offesi da termini dequalicanti e non verutieri, tanto è che le professioni sanitarie non sono il “para”di nessun altra professione. 3) Si diffonde in chi legge una non corretta informazione, sulle qualifiche così appellate. Vogliate la prossima volta studiare con attenzione i termini che usate. Cordiali saluti

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    • 5 Aprile 2020 in 10:17
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      La ringraziamo per l’utile precisazione, di cui faremo tesoro, pur consapevoli che l’utilizzo del termine da lei indicato non ha, né voleva avere, nessun valore squalificante per professioni da noi altamente considerate, né intendeva suggerire una mancanza di preparazione di livello universitario da parte di tutte le professioni sanitarie.

      Mai come in questo momento da parte nostra, come di tutta la nazione, vi è un così alto apprezzamento per l’altissima preparazione e la funzione centrale di tutto quel personale che opera a tutela della salute, personale alla cui difesa e alla cui valorizzazione è anche rivolta la pubblicazione del nostro articolo.

      Non a caso il termine da lei sottolineato appare nel testo dell’articolo inserito nel seguente contesto: “Il Columbus era ed è una delle tante eccellenze sanitarie di cui l’Italia può farsi vanto,.. con personale medico e paramedico di prim’ordine”.

      Si tratta dunque di un esplicito elogio del personale nel suo complesso e non certo di una critica, più o meno velata.

      Come lei sa, la nostra è una testata di divulgazione e pertanto il linguaggio da noi usato in tutti gli articoli non è mai stato, né mai sarà, un linguaggio tecnico o specialistico, né burocratico o amministrativo, bensì è, o perlomeno cerca di essere, un linguaggio semplice, quotidiano, a volte anche “popolare”, cioè capace di trasmettere contenuti comprensibili per qualsiasi tipo di lettore, indipendentemente dal suo grado di istruzione o dalla sua professione.

      In questo linguaggio quotidiano il termine “paramedico”, sebbene non corretto su un piano più specialistico, continua ad essere spesso usato come una efficace sintesi, a indicare l’insieme del personale infermieristico e sanitario. E’ dunque un termine che, sempre a livello di utilizzo quotidiano, risulta totalmente privo di connotazioni negative.

      In questa ottica e in questo contesto ne abbiamo fatto uso anche noi all’interno dell’articolo.

      Ci dispiace apprendere che l’utilizzo del termine possa invece avere urtato la sua suscettibilità e forse anche quella di altri lettori e pertanto di questo ce ne scusiamo con lei e con tutti coloro che possano avere avuto la sua stessa sensazione, non essendo affatto nelle nostre intenzioni squalificare nessuno.

      Nello stesso tempo, sappiamo anche con certezza che tantissimi infermieri, fisioterapisti, sanitari, non hanno trovato nell’utilizzo di questo termine alcunché di squalificante, comprendendo il contesto e le finalità per le quali l’utilizzo del termine è avvenuto, tanto che il nostro articolo è stato apprezzato e anche rilanciato sui profili social di numerose persone che svolgono queste professioni.

      Sperando che questo chiarimento possa essere stato utile, la ringraziamo per la sua segnalazione, di cui faremo tesoro di qui in futuro, pur consci della nostra buona fede e delle motivazioni poc’anzi indicate, non essendo nostra intenzione urtare la sensibilità o svalutare la professionalità di alcuno.

      Risposta

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