Caro vecchio Ponte Milvio: in sezione con Berlinguer
Roberto Roscani, giornalista del quotidiano l’Unità – nella cui redazione entrò a 18 anni, nel 1974 – racconta la storia della sezione del Partito comunista italiano a Ponte Milvio e del suo rapporto con Enrico Berlinguer, di cui ricorrono i 40 anni dalla morte. Il testo è stato pubblicato originariamente su Fogli E Viaggi, in occasione di una mostra e di un’iniziativa dedicata allo scomparso segretario del Pci.
Saranno stati i primi anni Settanta. Non ho una data precisa, magari già alla fine dei Sessanta. Berlinguer e la famiglia si trasferirono ad abitare a via Ronciglione, una bella traversa della Cassia Antica, coi pini sul marciapiede a riempire di gobbe l’asfalto della strada. Come voleva la tradizione venne a iscriversi alla sezione Ponte Milvio. La mia sezione. Non so se fosse già stato eletto segretario, ma tutti sapevano che sarebbe stato lui il successore del vecchio Luigi Longo.
Che cosa faceva il segretario del Partito nei panni di un semplice iscritto di una sezione? Poco, inevitabilmente poco. Non veniva certo alle assemblee. Ma non si è mai perso un appuntamento con le elezioni. Ora vi sembrerà una cosa strana, ma il Pci non ha mai permesso una campagna elettorale personale. Le preferenze non erano una cosa che si ottenesse coi santini, e neppure con i comizi. Era la federazione a scegliere chi doveva parlare nelle occasioni pubbliche e i candidati venivano mandati in giro secondo calendari rigidissimi. Quel che si sapeva era che sulle quattro preferenze della Camera una, quella del capolista, era fissa. Bisognava votarlo, punto e basta. Altre due erano di candidati “forti” che si voleva far arrivare in Parlamento e ogni sezione riceveva un fac simile della scheda con tre nomi stampati (fisso il capolista, variavano gli altri due in modo comunque da assicurare un numero congruo di preferenze). Il quarto nome era nelle mani della sezione: si sceglieva (dopo averne parlato nel direttivo) di sostenere un candidato, magari perché era della zona o magari per l’impegno profuso in qualche battaglia politica (chessò, la casa, una precedente esperienza in consiglio comunale, un particolare legame col territorio…).
Comunque alla fine c’era sempre da consegnare agli iscritti e ai “simpatizzanti” (la parola è chiara, ma forse va spiegata, visto che all’epoca esisteva una sorta di rete che legava una sezione alla gente del quartiere e, accanto a quanti avevano la tessera in tasca c’erano anche quelli che sapevi con certezza che ti votavano e condividevano delle idee e che magari un giorno avresti convinto a iscriversi) l’elenco coi quattro nomi da scrivere sulla scheda elettorale.
Che cosa faceva il segretario del Partito nei panni di un semplice iscritto di una sezione? Poco, inevitabilmente poco. Non veniva certo alle assemblee. Ma non si è mai perso un appuntamento con le elezioni.
Inevitabilmente – preceduto il giorno prima da una telefonata della Federazione che ne annunciava l’orario di arrivo – si presentava Berlinguer. Senza strombazzamenti, insieme al suo autista e magari a un altro compagno della scorta, arrivava in sezione e noi eravamo in strada ad aspettarlo. Parlava a voce bassa, sorrideva, fumava le sue solite sigarette. Il segretario e qualche compagno dei più vecchi l’accompagnava dentro la sezione. Ricordo ancora che chiedeva sempre qualcosa, s’informava su come era andata la campagna elettorale. Non era un gesto formale. Stava lì a sentirsi fare dei racconti soprattutto sui problemi, sulle difficoltà. Su quali erano i punti difficili nel conquistare il voto. Eppure erano anni “buoni”, anni di crescita del partito, ma la vecchia abitudine di cominciare dai problemi piuttosto che dai segnali positivi, nel Pci (almeno nella sezione di Ponte Milvio, almeno quando si stava all’interno, ché quando si parlava in pubblico era un’altra storia) c’era sempre. Era, prima di andare al seggio, un appuntamento che gli portava via una mezz’oretta, circondato da una ammirazione e da un calore che col tempo sarebbero cresciuti.
Il giorno del voto per una sezione era una gran baraonda. Almeno una quarantina di compagni erano nei seggi a fare gli scrutatori (in scuole da un capo all’altro del quartiere), altrettanti facevano la staffetta per vedere se tutto andava bene, per portare una busta di carta con dentro un panino e una bottiglia d’acqua, per raccogliere seggio per seggio la percentuale dell’affluenza. Molti altri erano in sezione per assicurare quella che avremmo chiamato una vigilanza in un giorno delicato. L’arrivo di Berlinguer era una sferzata. Rispondeva pacatamente, stringeva le mani, accettava di farsi fotografare (allora non c’erano i cellulari, ma qualcuno portava la macchina da casa), dava rassicurazioni ma non diceva mai che sarebbe andato tutto benissimo. Era – visto con gli occhi di oggi – un altro dei mille doveri di un segretario del Pci eppure lo faceva con una specie di tranquilla serietà, guardandosi in giro a “spiare” le facce di questi compagni, soprattutto dei ragazzi, coi suoi occhi come tagliati da una piega del sopracciglio che lo facevano sembrare triste anche quando triste non era.
Inevitabilmente – preceduto il giorno prima da una telefonata della Federazione che ne annunciava l’orario di arrivo – si presentava Berlinguer. Senza strombazzamenti, insieme al suo autista e magari a un altro compagno della scorta, arrivava in sezione e noi eravamo in strada ad aspettarlo. Parlava a voce bassa, sorrideva, fumava le sue solite sigarette.
Prima di andarsene chiedeva: “Chi devo votare?”, prendendo il fac simile coi nomi e guardandoli. Ogni volta qualcuno gli spiegava chi fosse il “carneade” scelto dalla sezione che non aveva alcuna possibilità di essere eletto e lui ascoltava serio. Non posso giurare che nell’urna mettesse proprio quei nomi, ma credo di sì. Un partito è fatto anche di riti, l’importante è che non siano regole paralizzanti. Quella non lo era. E in qualche modo la percepivamo non come una mancanza di libertà ma come una sorta di “democrazia collettiva”, come se non si dovesse scegliere chi votare di gusto proprio, ma almeno aderendo a una scelta compiuta insieme ad altri. Malgrado il suo esempio io spesso dimenticavo il fac simile e votavo come volevo.
Ecco, questa era la sezione di Berlinguer. Ma per me era semplicemente la sezione di Ponte Milvio, quella che frequentavo fin da ragazzino e di cui conoscevo tanti particolari. Ad esempio quale fosse stata la prima sede, che aveva una storia un po’ strana. Era a Palazzo Brasini, affacciata su via Flaminia Vecchia davanti al Cinema Aurora (non c’è più, ora c’è uno strampalato albergo di lusso dalle cui finestre si dovrebbe vedere ancora la marrana che scorre verso il Tevere).
Palazzo Brasini era la dimora un po’ medievale un po’ coppedè che Edoardo Brasini si era costruito. Architetto fascistissimo, Accademico d’Italia, si faceva fotografare con la feluca e lui col razionalismo architettonico italiano non aveva nulla a che fare. Era pomposo ed eclettico, aveva piazzato il suo castello nella periferica Ponte Milvio, aveva realizzato la chiesa di piazza Euclide ai Parioli e per completare la sua personale idea di città chiese e ottenne di costruire un ponte sul Tevere. Si chiamava Ponte delle Aquile, ora si chiama solo Flaminio. Le aquile ci sono ancora, come il travertino bianco e strani cilindri tozzi e mozzi insieme a grandi colonne che hanno in cima delle lanterne. Brutto, è brutto. E ha avuto una vita difficile: per anni è stato chiuso al traffico perché non si reggeva in piedi e poi in quegli anni nasceva e moriva nel nulla: Corso Francia non c’era e il villaggio Olimpico neppure. Brasini – ironia della sorte – aveva realizzato su ordine di Mussolini il palazzo di via IV novembre dove – dopo la Liberazione – si insediò la prima redazione dell’Unità.
La sezione a Palazzo Brasini me la ricordo un po’: dalla porta sulla strada si salivano delle scale per raggiungere un paio di stanzette al primo piano. Ora c’è un centro massaggi tailandese (se non è già fallito) e, per qualche anno, appena entrati nel cancello della dimora, c’era Baloon, abiti cinesi ma con qualche pretesa di signorilità. Ormai Ponte Milvio è tutto movida. Ma in quella strada per anni da ragazzo andavo a vendere l’Unità. Nelle case su via Flaminia Vecchia c’erano famiglie operaie che compravano il giornale ma ti obbligavano a bere il rosolio. Case operaie, coi cessi ricavati dai terrazzini. Quella sezione messa dentro la casa dei ricchi era un pugno, una rivendicazione. Non durò molto.
Ma una cosa mio padre me l’ha raccontata. Il giorno dell’attentato a Togliatti, nel 1948, mentre l’Italia sembrava sull’orlo di una crisi irreparabile, i Brasini avevano una festa di gala. Il segretario della sezione salì le scale del palazzo per dire che la festa sarebbe stata una offesa. Anche i Brasini (il patriarca era ancora vivo) capirono e mandarono tutti gli ospiti a casa.
Forse per paura, forse per rispetto.
La sezione di via Flaminia Vecchia occupava un territorio nel quartiere a cavallo tra il cuore di Ponte Milvio, che non è la piazza ma i tre grandi lotti di case popolari costruiti nel 1931, e il sobborgo ancora più periferico di Tor di Quinto fatto di casette, baracche, costruzioni abusive. E incarnava le due anime del Pci di quel pezzo di Roma fuori porta. Quella solidamente comunista degli operai, dei tranvieri delle case popolari e quella fatta di edili, cicoriari, inurbati da poco che durante la resistenza aveva militato con Bandiera Rossa, l’anima trotzkista della resistenza romana. I due pezzi di Pci (perché alla fine qui Bandiera Rossa aveva scelto il Pci e non era roba da poco considerando quanto fosse stalinista il partito di allora) convissero ma ma con qualche sospetto reciproco. Mio nonno Gaetano non ha mai amato quelli di Bandiera Rossa: non si fidava di loro, ma non era una questione ideologica, diffidava perché erano disorganizzati, un pezzo di proletariato sempre in bilico per diventare lumpen.
Ma parliamo un po’ di mio nonno: era di Comacchio, nato nel 1902 era arrivato a Roma come marinaio di leva ed era finito a fare l’attendente a un ammiraglio che aveva una casa in città e una fuori porta, sulla Flaminia. L’attendente era una sorta di domestico gratuito, un benefit per gli alti gradi delle forze armate. Gaetano Bellini finì per vivere tra i domestici di quella villa e qui conobbe mia nonna che veniva invece dalla Maremma toscana (da Roccastrada per l’esattezza, il comune delle miniere di Ribolla) mandata a servizio dalla famiglia.
Mio nonno si era avvicinato al Pci nel 1922 e la villa, persa in quella che è oggi città e che allora era campagna, ospitò una riunione segreta dei dirigenti comunisti (il partito era ancora legale ma ci si incontrava con estrema riservatezza perché gli arresti erano all’ordine del giorno) a cui partecipò anche Gramsci. Curiosamente lui non me l’ha mai raccontato, ma i suoi amici lo dicevano a tutti. Comunista e marinaio era finito al ministero della Marina Militare al Flaminio, ormai civile a fare il fochista: teneva accesa la caldaia a vapore del riscaldamento e faceva l’idraulico. Che fosse comunista i fascisti lo sapevano, così quando arrivava il Primo Maggio e si temeva qualche manifestazione propagandistica (una bandiera rossa, una scritta sui muri…) la polizia lo tratteneva per una giornata. Quando arrivò il momento della verità, dopo l’8 settembre e con la città occupata dai tedeschi, fu un membro dei Gap di Roma Nord. Questo distaccamento aveva come commissario politico un intellettuale fiorentino: era Vasco Pratolini che avrebbe scritto Metello o Cronache di poveri amanti, ma anche un bel racconto intitolato Il mio cuore a Ponte Milvio. Pratolini viveva nella cantina di mio nonno. I vicini di casa nel secondo lotto di case popolari probabilmente se ne erano accorti, ma nessuno lo denunciò e lui saliva a casa da mio nonno per fare riunioni e i due strinsero un’amicizia che durò a lungo e quel libro ne è una testimonianza.
Alla Liberazione Gaetano Bellini insieme a Bruno Storti (sarebbe diventato segretario della Cisl anni dopo) fu nominato commissario del ministero. Durò pochissimo: arrivò il 1948, la Dc stravinse le elezioni, l’epurazione che contro i fascisti non fu mai fatta (a torto o a ragione fu Togliatti a firmare l’amnistia) la fece il ministro degli Interni Scelba, ma contro i comunisti. Mio nonno fu licenziato e si dovette improvvisare da operaio a imprenditore. Fu paradossalmente la sua piccola fortuna.
Ma in sezione l’egemonia di compagni che avevano fatto la Resistenza non durò a lungo: sì, c’erano i miti come il vecchio Buò, partigiano addestrato dagli alleati all’uso degli esplosivi e paracadutato a Nord, ma quando la mia generazione arrivò alla politica c’erano già altri dirigenti, una generazione di mezzo che aveva visto la guerra quando aveva ancora i calzoni corti. Buò, però, me lo ricordo bene perché un giorno (sarà stato il 1968, forse il 1969) andammo a trovarlo nella sua casa al primo lotto. Eravamo i ragazzi della Fgci e gli chiedemmo se era possibile abbattere l’obelisco del Foro Italico, quello con scritto sopra Mussolini Dux, che ci sembrava una offesa. Lui ci guardò pensoso, disse che sì, si poteva fare con un po’ di plastico al posto giusto, ma che no, non si doveva fare. Noi ci accontentano di lanciare delle bottiglie piena di alcool e anilina che disegnarono sul marmo di Carrara delle grandi macchie rosse. Rimasero lì per anni.
Degli anni della Resistenza restavano memorie e anche leggende. C’è voluto che mio padre sfiorasse i 90 anni perché mi raccontasse di quando cercò un vecchio poliziotto “non ostile” per far ritrovare un carro armato tedesco che i gappisti avevano catturato e sotterrato in attesa dell’ora X. L’ora X non arrivava e quel tank era diventato ingombrante e rischioso. Bisognava risolvere il problema senza coinvolgere il Pci. E ci riuscì.
Dai primi anni Sessanta la sede si trasferì a via Prati della Farnesina. È la sede di oggi ma la sezione che ricordo io era grande la metà di quella di oggi. La seconda metà arrivò tempo dopo, all’inizio dei Settanta, e ci sembrò di aver fatto passi da gigante. La stanza delle riunioni all’inizio era quella triangolare e ci si entrava in trenta quaranta, stretti come sardine, molti in piedi addossati al muro. Fumavano (fumavamo) tutti e l’aria era irrespirabile, ma allora nessuno ci faceva caso. Sui muri i ritratti di Gramsci e Togliatti ma soprattutto un grande manifesto a colori di Stalin.
Che ci faceva Stalin alla parete dopo il XX congresso del Pcus e l’VIII congresso del PCI che erano avvenuti nell’ormai lontano 1956? Spiegarlo oggi è praticamente impossibile, Stalin è davvero l’opposto di quello che noi sognavamo. Recentemente leggendo un bel libro di Martin Amis, “Koba il terribile”, mi è capitato di ripensarci. Amis fa un ritratto spaventoso e del tutto veritiero di Stalin, del suo crudele dispotismo, dell’eliminazione minuziosa di tutti gli oppositori interni al Pcus e lo stritolamento di ogni forma di libertà, persino di vitalità, del popolo sovietico. L’autore inglese, il cui padre era stato un iscritto al partito comunista inglese e aveva frequentato il fior fiore dell’intellighenzia comunista del suo paese, esprime dolore davanti al fatto che quegli uomini, così brillanti e intelligenti, riuscissero a scherzare su Stalin. Noi facevamo qualcosa di simile e insieme qualcosa di diverso. Il quadro era un segnale di un approccio alla politica non pacificato, non irreggimentato era come dire: i ritratti alle pareti li decidiamo noi e non un congresso. Eppure non credo che fossimo in una sezione stalinista, il contrario. Ricordo ancora una occasione importante quando alla riunione doveva partecipare Verdini, della segreteria della Federazione Romana, che era il vice del segretario di allora, Renzo Trivelli. Lo accogliemmo con un fumetto che usciva dalla bocca di Stalin: “Verdini, attento, l’uccello che vola troppo in alto cade precipitosamente”. Era una presa in giro della rapidità della sua ascesa. E lui fece tutta la riunione e intervenne sotto a quel fumetto. Era una critica da sinistra alla segreteria cittadina fatta per bocca di Stalin.
Oggi sembra assurdo ma la questione di Stalin alla parete (era un ritratto invero molto bello e un po’ assurdo in cui Koba indossava una giacca bianca, aveva la pipa stretta in una mano, era in piedi dietro una scrivania) arrivò fino al 1989 quando si dovette decidere sul cambio di nome. E – paradossalmente – furono i compagni che volevano mantenere in vita il Pci a chiedere che fosse tolto mentre quelli del “Sì” lo difendevano ancora rivendicandone il significato storico per la sezione.
La sezione viveva nel quartiere come “un pesce nell’acqua”, avrebbe detto il vecchio Mao e neppure il ’68 la colse di sorpresa. Le scuole (il tecnico Bernini e il liceo Tito Lucrezio Caro al Villaggio Olimpico) erano i nostri “terminali” col movimento studentesco. Al contrario di quanto avvenne in molte altre sezioni del Pci a Ponte Milvio una parte importante di quella rivolta giovanile avvenne tra le nostre pareti. Il vecchio ciclostile marca Gestetner (all’inizio ne avevamo uno che andava a manovella, ma stampavamo così tanto che poi passammo a un aggeggio moderno di colore grigio che stampava a una velocità prima impensabile) vomitava a centinaia di pagine al giorno gli scioperi, i collettivi e le assemblee di quegli anni che non sembravano finire mai. Una generazione di ragazzi arrivò alla politica e arrivò al Pci in quei frangenti. Poi l’apertura dello stabilimento Fiat sula Flaminia (oggi c’è un grande deposito dell’Atac) diventò un’altra delle nostre sfide. La fabbrica (in realtà non costruivano vetture, ma vi lavoravano meccanici specializzati, riparatori, collaudatori) era arrivata con la solita tecnica Fiat: operai selezionati e raccomandati dalle parrocchie, fuori dal circuito sindacale. Ci mettemmo anni insieme agli operai comunisti che vi lavoravano a sindacalizzare lo stabilimento e a creare una cellula del Pci in quei primi Settanta così bollenti. Volantinaggi alle 6 di mattina quando entrava il primo turno, picchetti non proprio pacifici quando c’erano gli scioperi importanti.
La sezione viveva nel quartiere come “un pesce nell’acqua”, avrebbe detto il vecchio Mao e neppure il ’68 la colse di sorpresa. Le scuole (il tecnico Bernini e il liceo Tito Lucrezio Caro al Villaggio Olimpico) erano i nostri “terminali” col movimento studentesco.
Si viveva in sezione, si cominciava al mattino davanti alle scuole, si finiva la sera tra una riunione e l’altra fino alle 10,30, in tempo se ci si riusciva ad andare in qualche cinemino di seconda visione o a mangiare una pasta da Naso storto (era il soprannome del proprietario del ristorante di via dei Prati e il naso storto ce l’aveva davvero, con un’aria da vecchio boxeur). Si discuteva di tutto, dalle conclusioni dell’ultimo Comitato Centrale alla campagna elettorale per le amministrative. E poi la domenica mattina la diffusione dell’Unità casa per casa era la nostra messa laica.
Ponte Milvio, la vecchia Ponte Milvio della piazza, dei lotti di case popolari, di via Flaminia Vecchia (per non parlare dei borghetti abusivi di via dei Fabi o di via Morlupo) era diventata una enclave tra Vigna Clara sulla Cassia e Tor di Quinto (sì, chi ci abita l’avrebbe ribattezzata Collina Fleming perché quel Tor di Quinto puzzava troppo del viale con le puttane che bruciavano i copertoni la notte). Noi ci sentivamo un territorio libero, quasi un’isola felice, gli altri, i nuovi ci guardavano letteralmente dall’alto in basso. Eppure eravamo noi il cuore del quartiere.
Che – alla fin fine – l’egemonia su questa strana e ibrida zona l’avesse ancora Ponte Milvio con la sua sezione del Pci lo prova il fatto che Vigna Clara e Tor di Quinto non sono mai stati dei quartieri neri come la Balduina o il Flaminio. E anzi, la “meglio gioventù”, i figli di quegli architetti, professori, medici, registi cinematografici, giornalisti, dirigenti ministeriali, grand commis statali finiva sempre per passare per la sezione del Pci con quella sua assurda stanza triangolare.
Sarà per tutte queste anomalie che a lungo la sezione rimase una specie di isola nel partito romano. Tanto rispetto, tanta ammirazione ma mai nessuno di Ponte Milvio negli organismi dirigenti. Ci volle Petroselli per cambiare le cose.
Di quegli anni tra Sessanta e Settanta ricordo le mille manifestazioni per il Vietnam, quelle per la Grecia dopo il golpe dei colonnelli, quelle per il Cile di Allende soffocato da Pinochet. Passammo giornate febbrili nel settembre del 1973 tra picchetti, la mattina presto, davanti alle scuole e alle fabbriche fino a una notte intera passata a serigrafare un manifesto artistico (che portammo alla manifestazione all’Adriano dove ascoltammo per la prima volta gli Inti-Illimani tra pianti e speranze – vane – che qualcosa potesse ancora spezzare il golpe cileno.
Andava tutto bene? No, non sempre. E se ricordo ancora con affetto Peppe Loi (il fratelle di Nanni che condivideva con lui quell’aspetto alla Jaques Tati) che finanziò di tasca sua una biblioteca dentro l’ultima stanza della sezione e ci stimolò a studiare e a formare i ragazzi che arrivavano, mi rimprovero il fatto che nella nostra furia da ragazzi capivamo poco ciò che si agitava tra quelli più giovani e più timidi. Così finimmo per radiare dalla Fgci una giovanissima e gentilissima ragazza, Margherita, perché ci aveva confessato di essersi fumata uno spinello. Sarebbe passato poco tempo e la droga, non gli spinelli, sarebbe diventata un problema drammatico anche nella nostra generazione, anche tra i compagni con cui avevamo condiviso la militanza.