L’indispensabile leggerezza della Festa del Cinema

Era l’autunno del 2006 quando, per la prima volta, su un tappeto rosso antistante l’Auditorium Parco della Musica, cominciavano a sfilare attori e registi, produttori e modelle, vip e comparse, agenti, musicisti, sceneggiatori; cioè le star, più o meno grandi, del cinema nazionale e internazionale. Quel giorno era nata la Festa del Cinema di Roma.

 
Sono passati diciotto anni esatti. Quella Festa è ormai maggiorenne, eppure c’è ancora chi la guarda con sufficienza, come una bimba immatura e capricciosa, se non proprio con un certo fastidio. C’è chi non vede l’ora di sbarazzarsene, di abolirla, oggi come diciott’anni fa e con le stesse motivazioni di allora: “È solo una brutta copia del Festival di Venezia”, dicono in molti. “La qualità dei film presentati è mediocre” aggiungono altri, e via criticando.
Questa pletora di criticoni c’era anche un anno fa, nel 2023. Poi però quell’anno capita che l’unico film italiano di successo da un decennio a questa parte – oltre tutto di una regista esordiente – cioè un film come “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, l’unico capace di fare sold out ovunque, in un’epoca in cui le sale cinematografiche viaggiano vuote, esca fuori proprio dalla kermesse romana. A quel punto i “criticoni” della Festa si trovano spiazzati, a dover predicare nel deserto, in mezzo a cori di osanna e di elogi che, partendo dal film della regista romana, finiscono per coinvolgere l’intera Festa nel suo insieme.
 
Eppure quei criticoni, in fondo, avrebbero anche pienamente ragione. La qualità media dei film presentati a Roma, in questi diciott’anni anni, è stata oggettivamente – e di molto – inferiore, a quella di un Festival come Venezia, per non parlare di Cannes, o del Festival di Berlino: zero innovazione creativa, scarsa originalità di scrittura, prodotti tutti confezionati secondo i rassicuranti ma un po’ banali canoni della produzione cinematografica e televisiva di medio livello, senza mai qualcuno o qualcosa che abbia fatto fare un sussulto, un “Oh!” di meraviglia.
 
Anche quando Roma riesce a catturare qualche grande maestro del cinema internazionale e a inserirlo in cartellone, com’è stato in questa edizione con il caso di Francis Ford Coppola, lo riesce ad accalappiare solo nella sua fase discendente e con opere di scarso fascino. Quest’anno, per dire, la “Megalopolis” di Coppola, opera che ha aperto la Festa di Roma 2024, è apparsa come un lavoro che sembra più che altro un costosissimo e delirante capriccio senile del regista, un film con poco capo e pochissima coda, una pellicola con un grande cast, ma che dà solo un microscopico piacere a chi la guarda.
 
I criticoni hanno dunque una sacrosanta ragione nel criticare spietatamente la bassa qualità media dei film presentati a Roma. Eppure, al tempo stesso, hanno tutti completamente torto quando si spingono a criticare la Festa del Cinema nel suo insieme, stigmatizzando lo spreco di risorse pubbliche e private a sostegno di una mediocre e dunque, per qualcuno, inutile kermesse. Questa Festa, infatti, non è e non ha mai voluto essere un Festival di Venezia de’ Noantri, per grandi film da presentare sotto il ponentino, non è e non ha mai voluto essere una Cannes all’Amatriciana, né una Berlino alla Puttanesca.
La Festa del Cinema non è una chicca per appassionati cinefili. La Festa di Roma è solo, fin dal suo nome, una festa, per l’appunto, un party, un’interminabile happy hour, per chi ama, vive, lavora nel mondo del cinema e della tv. Un enorme struscio glamour. Col red carpet e i corridoi dell’Auditorium come le vasche del corso principale di una qualunque città. Quel corso dove si va per vedere e farsi vedere, sfoggiando l’abito buono della domenica.
 
 
La Festa del Cinema di Roma è la versione 2.0 di quella che fu la Via Veneto degli anni Sessanta, quella della “Dolce Vita” raccontata da Federico Fellini: un luogo dove incontrare gente comune e grandi star, popolato da paparazzi e attricette in cerca di visibilità, da scrittori affermati, produttori, vecchie glorie in disarmo che faticano ad arrendersi al tempo che passa, da personaggi folkloristici, da politici di lungo corso, da vip ed influencer, tutti alla spasmodica ricerca dei propri cinque minuti di visibilità.
 
In una città che è ancora la sede della Rai e di Cinecittà, in cui il cinema e l’audiovisivo danno lavoro a migliaia, se non a centinaia di migliaia di persone, fra maestranze e tecnici, fonici e operatori, registi, attori, comparse, truccatori, scenografi, non c’è nulla di più importante e fondamentale di questo apparentemente inutile struscio d’alto bordo, in cui si va ufficialmente per vedere i nuovi film in uscita, ma il cui scopo reale è quello di conoscere e farsi conoscere, incrociarsi e scambiarsi un saluto, o magari una chiacchiera per parlare di nuovi progetti e per far sì che questa industria della creatività prosegua e continui a muovere soldi ed idee.
 
Se i film da vedere non sono un gran che, la voglia e il tempo per parlare d’altro e di futuro è decisamente di più. Quindi meglio così, che troppi bei film rovinerebbero l’incantesimo e la reale funzione della Festa. Per questo viva la Festa del Cinema di Roma, proprio per i suoi difetti, che sono paradossalmente i suoi meriti e i suoi pregi. Un po’ come avviene in genere per la città che la ospita, quella Roma sempre criticata da quasi tutti coloro che la vivono, quella Roma che di tanto in tanto qualcuno dice di voler lasciare, ma che poi resta sempre lì, invivibile e imperfetta, eternamente bella, eternamente Città Eterna, dal cui fascino nessuno resta immune e da cui nessuno scappa via definitivamente e per davvero.

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