A Nemi, il museo delle navi senza le navi
Per anni mi sono detto che avrei dovuto visitare il museo delle navi di Nemi. Poi ci sono finalmente andato, una domenica d’aprile, per scoprire che si tratta di una galleria “fake”: in esposizione ci sono poche copie di antichi reperti e riproduzioni neanche in scala. Ma l’edificio, aperto originariamente nel 1940 è molto bello, e meriterebbe un altro uso.
Nemi è famosa prima di tutto per le fragole.
I prelibati frutti sono il simbolo di questo piccolo Comune dei Castelli – che è rientrato da qualche tempo nel famoso registro dei “Borghi più belli d’Italia” – al punto da ispirare oltre a un liquore, il Fragolino appunto, anche lo sviluppo di tutta una serie di monili: collanine, bracciali, orecchini, anelli, eccetera, tutti con la fragolina pendente d’ordinanza.
Ma il paese, che affaccia sull’omonimo lago vulcanico – il “fratellino” di quello di Albano, di cui è molto più piccolo – è noto anche per il Museo delle Navi Romane, che si trova qualche centinaio di metri più in basso, sulle rive del lago.
Le due navi romane in questione, fatte costruire dall’Imperatore Caligola nel I secolo dopo Cristo, furono considerate quasi una leggenda per diversi secoli. Forse per via delle dimensioni insensate (erano lunghe circa 70 metri) per quello che in fondo è un laghetto, forse perché fatte affondare dal Senato romano dopo la morte dell’imperatore. Dal Cinquecento alla fine dell’Ottocento i progetti per recuperare le navi furono diversi, ma mancavano mezzi e tecnologia adeguata. Solo negli anni Trenta del Novecento vi si riuscì. E per celebrare quel ritrovamento colossale – l’ipotesi degli archeologi è che le navi ospitassero una la residenza temporanea dell’imperatore e l’altra un tempio di Iside – il regime fascista, con la sua romanità rivendicata, decise di costruire un museo ad hoc, sulle rive del lago.
Il museo di Morpurgo
L’edificio, progettato da Vittorio Ballio Morpurgo, fu costruito tra il 1933 e il 1939. A guardarlo dall’ingresso ricorda il Foro Italico, e molte altre costruzioni dell’epoca. Non è un caso. Morpurgo ha realizzato nel 1938 la prima “teca” dell’Ara Pacis (quella che Gianni Alemanno voleva difendere a tutti i costi dal ridisegno di Richard Meier nel 2006), si è occupato della sistemazione di piazza Augusto Imperatore; ha costruito edifici pubblici a Latina, ha progettato insieme a Enrico Del Debbio (autore di diversi “pezzi” del Foro Italico) la Farnesina, che in origine doveva essere la sede del Partito nazionale fascista. Ha costruito in Albania, eccetera eccetera.
Particolare storico-umano interessante: Morpurgo era di padre ebreo (ma non di madre: l’ebraismo è matrilineare). Con la promulgazione delle leggi razziali, si dichiarò aconfessionale e decise di prendere il cognome della madre, Ballio, risultando così perfettamente “arianizzato” e proseguendo nel suo ruolo di architetto di regime. Poi dopo la guerra prese il doppio cognome: Ballio Morpurgo.
Ma torniamo al museo, imponente e bello, progettato attorno agli scafi. Un edificio con ampie vetrate che ti aspetteresti custodisca piscine olimpioniche, con una vasta tribuna dalla quale si potevano osservare meglio, dall’alto, le imbarcazioni, ancora ben conservate dopo tanti secoli trascorsi nei fondali (per estrarle, era stato svuotato il lago). E una terrazza panoramica aperta ancora oggi – nei giorni feriali – con vista sul lago.
Insomma, una gran cosa.
L’incendio del 1944
Poi però la sera del 31 maggio 1944, nei giorni in cui gli Alleati stanno risalendo verso Roma, dove entreranno il 4 giugno, dopo nove mesi di occupazione nazista – nel museo scoppia un incendio.
Secondo una ricostruzione che ho letto, basata sul lavoro della commissione d’indagine istituita dopo la guerra – il fuoco fu appiccato dai tedeschi in fuga, dopo un lungo scontro a fuoco con le truppe alleate.
Le navi dunque, che erano motivo di esistenza del museo e del disegno particolare di quell’edificio, bruciano. Oggi restano pochi ceppi anneriti e qualche resto di metallo sparso. Il museo viene riaperto, poi richiuso, poi riaperto definitivamente nel 1988.
Ma che c’è dentro? In gran parte, copie di reperti custoditi in vari musei romani, come Palazzo Massimo. Poi, ricostruzioni in scala molto minore delle imbarcazioni (che sembrano barche di pescatori, in quel modo) e rinvenimenti provenienti dall’area dei Castelli Romani e dal santuario di Diana Nemorense. Nonché un pezzo di via Sacra, dopo la ristrutturazione dell’edificio. E un video, che ormai ha i suoi anni, che racconta tutta la storia, proiettato a ciclo continuo.
Vale dunque la pena di andare?
No, se cercate il museo, sì se volete vedere l’edificio di Morpurgo. Quanti saranno i visitatori? Pochi, posso immaginare, tolte le scolaresche condotte per dovere istituzionale. Quando ci sono andato io, nel primo pomeriggio, eravamo meno di dieci persone. Se dovessi trovare dei motivi per tenere aperto un museo così, in tempi di tagli a tutto il patrimonio pubblico, farei onestamente fatica. Qui però non sto proponendo di chiudere il museo. Al contrario: credo che servirebbe trovare una nuova destinazione per l’edificio di Morpurgo. “Fatene delle belle piscine”, direi, pensando appunto alla sua conformazione, da hangar. Ma non credo avrebbe un gran successo di pubblico. Eviterei di farci il museo della fragola, se a qualcuno venisse in mente: non se lo merita. Forse allora sarebbe il caso che il Comune o comunque le istituzioni coinvolte, ministero compreso, trovassero il coraggio di lanciare un bel concorso di idee, per dargli una nuova vita con solo 80 anni di ritardo.