Sospensioni e manganelli: la scuola-caserma
Nell’accanimento contro gli studenti c’è del metodo: irrigidire la disciplina a scuola come già avviene nei posti di lavoro. In un’epoca di conflitti alle “democrazie” servono soldatini pronti a obbedire senza troppe domande.
Se non vogliamo sprecare la positiva reazione dei giorni scorsi alle manganellate di Pisa, dobbiamo sforzarci di cogliere a pieno il significato di ciò che sta accadendo. Dietro a un utilizzo della forza così sproporzionato da mettere in imbarazzo anche il presidente della Repubblica e il capo della polizia, infatti, c’è qualcosa che non possiamo affrontare semplicemente cantando “Bella Ciao” e raccontandoci che il problema è il “governo postfascista”.
Quando al governo c’era l’ineffabile Mario Draghi, coi “postfascisti” unica opposizione, uno studente dell’UDS commentava le manganellate “liberali” ai cortei studenteschi così: “Se occupiamo ci sospendono, se scendiamo in piazza ci manganellano, se parliamo non ci ascoltano”. Come dargli torto? E mentre il ministro dell’Interno Piantedosi spiega Pisa con la “mediazione rifiutata dagli studenti”, la Lamorgese, che l’ha preceduta al Viminale con Conte e poi con Draghi, parlava delle “infiltrazioni dei centri sociali”. Insomma, se la scuola italiana è il Titanic, Pisa è solo la punta dell’iceberg.
Se occupiamo ci sospendono
Dieci giorni di sospensione, attività socialmente utili e 5 di condotta: è la punizione esemplare proposta dal preside del liceo Tasso a Roma per 170 studenti che a dicembre hanno occupato la scuola una settimana. Ma non è un caso isolato: a Roma tolleranza zero anche al Mamiani e al Virgilio; cinque giorni di sospensione per i promotori e tre per i semplici occupanti per 70 allievi del liceo de’ Liguori di Acerra, inchiodati con l’ausilio di “prove fotografiche”; a Modena un rappresentante degli studenti dell’ITES Barozzi rischia 12 giorni per un’intervista con “dichiarazioni denigratorie nei confronti dell’istituzione e dell’intera comunità scolastica”, almeno secondo la preside, in cui denunciava perquisizioni effettuate all’ingresso della scuola – ragazzi con le mani alzate, borse e zaini aperti, effetti personali sequestrati – e confermate dalle immagini. Anche qui nulla di nuovo: nel 2021 a Roma la preside del liceo Azzarita, ai Parioli, aveva chiamato la polizia per metter fine all’occupazione; al Ripetta, a due passi da Via del Corso, la polizia aveva malmenato un gruppo di studenti, mentre al G.B. Vico di Napoli due giorni di occupazione ne erano costati 10 di sospensione a tre studenti.
Il ministro dell’Istruzione Valditara, però, annuncia un giro di vite alla disciplina scolastica. Loda il preside del Tasso e la scuola “che insegna a rispettare le regole e a coniugare libertà con responsabilità” e visitando l’istituto Severi Correnti di Milano, dove l’occupazione avrebbe fatto addirittura 70.00o euro di danni, proclama: “Stiamo studiando una norma per far sì che chi occupa, se non dimostra di non essere coinvolto nei fatti, risponda civilmente dei danni che sono stati cagionati. È una presunzione che solo dimostrando di essere del tutto estraneo uno può vincere. Chi occupa, chi compie un atto illecito, deve rispondere dei danni. Questa è una mia riflessione personale: credo che studenti di questo tipo non possano essere promossi all’anno successivo”. Insomma le commissioni disciplinari devono funzionare come i processi per mafia: non serve provare la colpevolezza dell’imputato, è l’imputato che deve provare di essere innocente. Del resto anche il “progressista” Gramellini, che nella sua trasmissione su La7 dopo le manganellate a Pisa ha lodato Mattarella che “difende gli studenti”, col professor Roberto Vecchioni in lacrime, solo un mese prima aveva paragonato i genitori degli allievi del Tasso a “capi clan chiamati a difendere l’onore della famiglia”.
La riforma Valditara (ddl 924 bis), in discussione alla VII Commissione del Senato (iter sul sito del Senato), prevede che:
– il 5 di condotta arriverà non solo per gravi atti di violenza e reati, ma “anche a fronte di comportamenti che configurano mancanze disciplinari gravi e reiterate, anche con riferimento alle violazioni previste dal regolamento di istituto”, con conseguente bocciatura e mancata ammissione alla maturità.
– col 6 “il Consiglio di classe, in sede di scrutinio finale, sospende il giudizio” e subordina la promozione alla presentazione “di un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale assegnato dal consiglio di classe […] la cui mancata presentazione o la cui valutazione […] non sufficiente comportano la non ammissione dello studente all’anno scolastico successivo”.
– il voto di condotta peserà di più sulla valutazione complessiva degli studenti e per i maturandi “il punteggio più alto nell’ambito della fascia di attribuzione del credito scolastico spettante sulla base della media dei voti riportata nello scrutinio finale” spetterà solo a chi ha almeno nove.
– i sospesi fino a due giorni parteciperanno ad “attività di approfondimento sulle conseguenze dei comportamenti che hanno determinato il provvedimento disciplinare”, sopra i due giorni ad “attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate con le istituzioni scolastiche”.
La riforma si propone di “ripristinare la cultura del rispetto, di affermare l’autorevolezza dei docenti delle istituzioni scolastiche secondarie di primo e secondo grado del sistema nazionale di istruzione e formazione, di rimettere al centro il principio della responsabilità”, ma per Rete degli Studenti Medi, Unione degli Studenti, Movimento degli Studenti Cattolici e Movimento Studenti dell’Azione Cattolica è “il primo passo verso una scuola repressiva e senza una vera finalità educativa” e “aumentare le sanzioni non sarà mai un deterrente, le situazioni di disagio si affrontano con nuove forme di scuola inclusiva e con presidi psicologici”.
Quali regole?
Il caso del Virgilio a Roma esemplifica come venga declinato il “rispetto delle regole”. I 548 studenti su 1.083 che hanno rivendicato l’occupazione vengono suddivisi in due gruppi: a chi ha occupato per la prima volta arriva un semplice richiamo scritto, a 286 “recidivi” un “atto di incolpazione” con una minuziosa stima dei danni e la convocazione in consiglio di disciplina. È una distinzione fatta in barba al regolamento d’istituto, che definisce “recidivo” un comportamento che si ripete nel corso dello stesso anno scolastico e non in anni successivi, nonché il primo esempio di regola applicata ad capocchiam.
Secondo punto: l’atto – denunciano genitori e studenti – contiene i nomi in chiaro di tutti i 286 accusati, di cui buona parte minorenni, mentre le regole sulla privacy prevedono che “nelle circolari, nelle delibere o in altre comunicazioni non rivolte a specifici destinatari non possono essere inseriti dati personali che rendano identificabili gli alunni (ad esempio, quelli coinvolti in casi di bullismo, quelli cui siano state comminate sanzioni disciplinari o interessati da altre vicende delicate”, GarantePrivacy.it).
Terzo: il nostro sistema giuridico si fonda sul principio della responsabilità individuale. Usare la rivendicazione collettiva dell’occupazione per chiedere a 286 studenti di rispondere di 11.257 euro di danni (inclusi i sette per “un cavo hdmi rotto in aula video”…) è come rinviare a giudizio mille manifestanti perché tre di loro hanno rotto una vetrina (e buttato una cicca per terra), in questo caso con l’aggravante di non poter neanche dimostrare che i responsabili di ogni singolo danno contestato siano proprio gli studenti.
Quarto: gli studenti vengono convocati coi propri genitori per “celebrare il processo disciplinare” a gruppi da nove a 14 ogni ora – da 4 a 7 minuti ciascuno – per rispondere al consiglio di disciplina “esercitare la loro difesa” e la stima dei danni che vengono loro attribuiti è totalmente unilaterale. Un arbitrio che farebbe rivoltare anche un condominio.
Ma aldilà delle questioni di metodo ci sono due questioni di fondo: la prima è che sotto il giuridichese dell’atto di incolpazione, coi suoi “coacervi cartolari”, i “fatti originanti” e i ripetuti richiami al “rispetto”, ai doveri, al decoro e al prestigio scolastico, si nasconde la cancellazione della prima regola della democrazia (oltre che del buon senso): se più del 50% di una comunità contesta chi la dirige il problema non può essere affrontato in termini amministrativi. La seconda riguarda i danni.
Ci sono danni e danni
“Bagni distrutti, rifiuti a cielo aperto, impalcature all’interno delle aule regolarmente frequentate dagli studenti, porte divelte, banchi a rotelle abbandonati nei corridoi, cortili e spazi verdi incolti, cornicioni pericolanti, controsoffitti crollati, scale antincendio bloccate, muffe in bella vista”. Non è il Virgilio dopo due settimane di occupazione, ma la situazione in cui secondo la UIL Roma e Lazio si trovano molte scuole di Roma e della regione: “Da un censimento effettuato a inizio anno scolastico risultava che l’80% dei 1.987 plessi scolastici della Capitale non disponeva del certificato antisismico e circa sette scuole su 10 non erano a norma con la certificazione di collaudo statico e le norme antincendio”.
Nel 2017 al Virgilio una porzione di tre metri quadrati di tetto crolla, abbattendosi su un’aula e un laboratorio, vuoti per fortuna. In alcune aule i vetri delle finestre sono rotti e riparati col cartone. A settembre al liceo Manzoni una finestra a vasistas si abbatte su un insegnante che sta cercando di aprirla e finisce in ospedale e una sbarra di ferro caduta dal soffitto centra uno studente del liceo Cavour. A novembre da una finestra del Ripetta si stacca un vetro e cade su uno studente e un insegnante. Il giorno dopo stessa cosa al Rossellini, ma il vetro finisce sui banchi vuoti. A dicembre un pezzo di soffitto cade su due studentesse del Machiavelli.
A livello nazionale solo il 37% delle scuole statali dispone del certificato di agibilità e il 35,5% del certificato antincendio (Rapporto Istat 2023). Sul sito di Cittadinanzattiva si trovano l’elenco dei crolli nelle scuole da settembre e altri dati sono sul XXI Osservatorio nazionale sulla sicurezza delle scuole. Insomma il conto dei danni accertati fatti dagli edifici scolastici agli studenti (e agli insegnanti) sembra almeno pareggiare quello dei danni presunti fatti dagli studenti agli edifici scolastici, ma a chi lascia cadere le scuole a pezzi non arrivano atti di incolpazione. Le regole della scuola di Stato non sono uguali per tutti? Una cosa è certa: qui non c’è una classe politica pronta ad assumersi la responsabilità delle proprie (in)azioni come hanno fatto gli studenti.
Soldatini, prima a scuola e poi al lavoro
Come nell’Amleto, però, in questa follia c’è del metodo. Le esternazioni di Valditara, le manganellate di Pisa, le sospensioni a raffica riflettono un clima diffuso, che va oltre la scuola e supera anche i confini dell’Italia.
Nel mondo del lavoro da tempo è in atto un irrigidimento della disciplina che a volte si trasforma in una vera e propria militarizzazione. Amazon, dove si lavora come robot, controllati da algoritmi, ha programmi di reclutamento per ex militari (anche in Italia), mentre Elon Musk di recente ha detto che li cerca per la sua gigafactory Tesla a Berlino. In Italia Federsicurezza, associazione delle imprese della vigilanza privata, ha una convenzione col Ministero della Difesa per “mettere a frutto le competenze acquisite dai militari durante l’impiego nelle missioni nazionali e internazionali” assumendoli. Confidustria Teramo ha fatto altrettanto con la Regione militare Abruzzo, perché, spiega il presidente, “Si tratta di persone che hanno attitudini particolari, ad esempio disciplina e lavoro di squadra”. E così Confapi, la confederazione della piccola e media industria, nelle Marche e l’azienda di trasporti della Provincia di Bolzano. Mentre il Ministero della Difesa ha creato appositamente la piattaforma digitale Sildifesa.
La scuola italiana, che da vent’anni tutti i governi considerano una semplice anticamera del lavoro, si adegua. Da dieci anni i ministeri dell’istruzione e dell’università fanno accordi coi ministeri della difesa e del lavoro, carabinieri e marina militare per avviare progetti di collaborazione che includono anche progetti di alternativa scuola-lavoro, come quello dell’IS Giovanni Falcone di Gallarate alla base NATO di Solbiate Olona, dove i militari alla fine del PCTO regalano agli studenti dei berretti con la scritta “We are NATO”.
E mentre il ministro della Difesa Crosetto tiene a battesimo il “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione delle cultura della difesa”, il presidente del Senato La Russa chiede di introdurre una “mini naja” volontaria di 40 giorni per i giovani tra 16 e 25 anni, che fornirà punti aggiuntivi per la maturità, gli esami universitari e i concorsi pubblici e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Fazzolari propone di insegnare il tiro a segno a scuola, proposta raccolta immediatamente dalla Federazione italiana tiro a volo.
Poi ci sono gli accordi regionali. Nel 2021 in Sicilia il Comando militare dell’esercito e l’Ufficio scolastico regionale firmano un protocollo in cui si impegnano a “riservare particolare attenzione al mondo scolastico, accademico e scientifico per la diffusione dei valori etico-sociali, della storia e delle tradizioni militari”. Il libro del giornalista e insegnante Antonio Mazzeo La scuola va alla guerra. Inchiesta sulla militarizzazione dell’istruzione in Italia e il sito dell’Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e dell’università citano altri casi e non si tratta solo delle superiori.
A gennaio a Gioia del Colle il Reggimento Logistico Pinerolo celebra il 227° anniversario del tricolore. “Alla cerimonia, che si è svolta alla presenza delle autorità cittadine”, denuncia in un’interrogazione parlamentare Elisabetta Piccolotti di Sinistra Italiana, “sono state invitate anche delle scolaresche di primaria e secondaria di primo grado e ai bambini e ragazzi presenti è stata fatta sperimentare una prova di Military fitness, per la quale ai piccoli studenti – che per superarla hanno fatto anche flessioni con un istruttore, sono saliti su mezzi militari pigiando bottoni, movimentato manichini e indossato un giubbotto antiproiettile – è stato consegnato un attestato”.
In Europa le classi dominanti hanno usato la scuola per infondere nelle nuove generazioni lo “spirito militare” sin dall’Ottocento. Con la fine della Guerra Fredda quest’uso si è attenuato, ma il ritorno a un clima di guerra lo riporta in auge, tanto più dove il servizio militare obbligatorio è stato abolito. Nel Regno Unito i militari e l’industria bellica entrano a scuola per promuovere l’arruolamento, la cultura militare o la “scienza”: a Londra, in particolare nei quartieri più poveri, tra il 2008 e il 2009 viene visitato dai militari il 40% delle scuole; in Scozia tra il 2016 e il 2017 si sfiora il 70%. BAE Systems, che ha venduto armi per oltre 20 miliardi di sterline alle forze armate saudite per la guerra in Yemen, sul suo sito scrive: “Ogni anno visitiamo oltre 100 scuole per spiegare chi siamo e perché le materie scientifiche sono così importanti”. In metà dei Länder tedeschi ci sono partnership tra scuola e forze armate; i militari visitano le scuole; intervengono sui programmi e nella formazione dei docenti, attirandosi la condanna dell’ONU per alcune iniziative “rivolte specificamente ai bambini”. In Francia i protocolli Armée-Education promuovono l’ “educazione alla difesa degli studenti” e nel 2018 a capo della Direction générale de l’enseignement scolaire viene messo un colonnello. Una militarizzazione che colpisce gli studenti, ma anche i lavoratori della scuola.
Ma il ricorso a punizioni arbitrarie e sproporzionate, l’ipocrisia con cui lo Stato chiede agli studenti di rispettare regole che è il primo a calpestare e pure le manganellate sono anche un’utile lezione impartita a migliaia di studenti su come funziona quella democrazia in nome della quale oggi viene chiesto di sostenere le guerre altrui, domani forse di farle e nel frattempo di prepararsi, abituandosi a scuole, università e posti di lavoro sempre più simili a caserme. Starà a loro decidere come contrastare questa politica. A noi non lasciarli soli.