Teatro / Caino e Abele e il crollo della famiglia. Intervista a Roberto Boris Staglianò
“Dobbiamo recuperare il dono di interpretare la complessità perché siamo molto più di un reel, di un vocale, di un mostro alla Boris Karloff“. Al Teatro Trastevere dal 7 al 10 marzo.
Opera prima di Staglianò, autore di lunga formazione, “Nelle due mani” getta una luce inquietante sulle dinamiche di una famiglia apparentemente tradizionale: un padre, una madre, due figli maschi e una nonna. Ciascuno segue un codice di comportamento o nasconde qualche segreto, così che i drammi sotterranei si intrecciano nel medesimo spazio, secondo un eterno ciclo, una routine che tende a compattare i sentimenti di amore, odio e fratellanza.
Nel confronto spiccano i fratelli Caiòn e Abe, in precario equilibrio tra bene e male, avversario e insieme sostenitore dell’altro, la cui ambivalenza, in un susseguirsi di imprevisti, funge da leva nella incombente crisi familiare.
Chi, meglio dell’autore, può spiegare tali scelte drammaturgiche?
Roberto Boris Staglianò, come potrebbe riassumersi?
“I due nomi mi sono stati dati, in tempi differenti, da due persone a cui sono stato e sono molto legato. Il primo, Roberto, lo scelse la mia nonna paterna, Chiara. Una figura di riferimento centrale ed importantissima. Boris è il nome della consapevolezza, dell’età adulta. Un dono di Sabrina Dodaro, direttrice della scuola La Scaletta, in onore a Boris Karloff. Ho deciso di tenerlo e di farlo mio perché nella storia dell’attore britannico c’è un paesaggio simile al mio. Molti lo ricordano come interprete di film horror e di mostri, a me piace pensare che, come lui, c’è qualcosa di più da scoprire in me. Mi piace pensare che nella mia, nella nostra ‘mostruosità’ c’è molto di più. C’è umanità, vulnerabilità ed etica.”
L’opera prima ‘Nelle due mani’ ha avuto un percorso articolato, tra esperienza personale di scrittore e fasi di laboratorio di drammaturgia. Tecnica e fantasia, regista e autore: un’avventura?
“La fase di scrittura è stato un processo lungo e articolato. Qualcosa di più di un’avventura. Sento la necessità di ricordare persone a me care e importanti come Roberto Scarpetti e Giulio Baraldi e, soprattutto, Elvira Frosini e Daniele Timpano. Due maestri luminosi nella mia crescita umana e professionale. Grazie a tutti questi incontri ho imparato che la teoria è niente senza una pratica orientata alla concretezza, alla dedizione e alla resistenza, per trasformare un sogno in una passione.”
Lei scrive che ‘ogni personaggio è coinvolto in una partita a due con il suo simile’ e che trae ‘ispirazione dalla storia biblica di Caino e Abele’. Quali motivi l’hanno spinta a cimentarsi in un perenne duplice ruolo, o meglio, ruoli che si invertono?
“Da tento tempo, forse dall’età della maturità, ho avvertito la necessità di esplorare e scrivere sulla famiglia e sulle relazioni tra fratelli. In un modo spontaneo. Forse perché non ho mai avuto troppa simpatia per le figure archetipiche e per i ruoli predefiniti, fissi ed immutabili. La distruzione dei miti è certamente più interessante della loro conservazione, anche se non ci si improvvisa a farlo. Credo che i ruoli non si invertano, come in una possessione diabolica. Il bene, il male coabitano dentro di noi e da questo nasce la complessità di comprendere l’imprevisto e l’imprevedibile.”
Nella messa in scena utilizza un elemento tipicamente cinematografico: lo specchio. Intende mirare al riconoscimento e alla catarsi dello spettatore, in una visione finalmente univoca? O spingerlo oltre, nelle infinite combinazioni dell’ambiguità?”
“Punto tutto sulle infinite combinazioni dell’ambiguità. Sulle infinite combinazioni dell’umana esistenza. Il riconoscimento della complessità ancora prima della catarsi. Siamo disabituati a farlo, viviamo tempi in cui una canzone dura due minuti e mezzo, un video o una nota audio dev’essere inferiore al minuto. Dobbiamo recuperare il dono di interpretare la complessità perché siamo molto più di un reel, di un vocale, di un mostro alla Boris Karloff.”
Allo spettatore, dunque, va l’ultima parola: confrontarsi con i personaggi allo specchio per scoprire se, tra le intersezioni dell’umanità rappresentata, non vi sia qualche segmento di se stesso.