La stagione dei capperi
Capperi sulle Mura Aureliane? Se vi meravigliate, è che forse non avete mai osservato con attenzione quelle pareti di mattoni, tufo e marmo che per secoli hanno protetto la Città Eterna e che oggi restano una memoria discreta del passato.
Quei cespugli – ma in realtà sono arbusti, con rami lunghi – arrampicati tra le rupi o le mura, dalla primavera inoltrata all’inizio dell’autunno producono vistosi fiori chiari. Quello che si mangia e si apprezza di più è di solito il bocciolo, di quel fiore, una specie di capsula verde che va raccolta velocemente e poi messa sotto sale.
Diversi romani che abitano lungo i quasi 13 chilometri delle mura rimasti in piedi lo sanno bene, e in questo periodo si armano di pazienza, di un sacchetto e di una scala, alla bisogna, per farne scorta. Una specialità locale, insomma, ma senza marchio Doc o Dop, Igp – come invece i capperi di Pantelleria – o Igt.
Eppure, sarebbe un’idea. Come ormai qualche decennio fa c’era un presidente Acea che voleva imbottigliare l’acqua di Roma e venderla nel mondo in forza del fascino turistico, così si potrebbe suggerire oggi al Campidoglio di organizzare la raccolta dei capperi, e di venderli poi in barattolini, magari con il Colosseo come simbolo (è un po’ abusata l’immagine, è vero: ma in fondo funziona sempre e comunque la “capparis spinosa” cresce anche sull’Anfiteatro Flavio)…
In fondo il cappero è un pianta ribelle e anarchica, cresce dove vuole, e glielo perdoniamo perché è bella, profumata e produce quelle prelibatezze. Ma non fa benissimo alle mura antiche, perché le radici si insinuano in profondità e minacciano la tenuta della costruzione. E quindi ciclicamente bisogna estirparle. Ma loro tornano, da secoli. Un po’ come quell’erba cresciuta durante il lockdown un po’ ovunque, dalle scalinate di periferia fino a Piazza Navona, a ricordarci che a Roma la natura fa parte della città.
[La foto è di Lorenzo Pirrotta]