Una volta in via Vigna Jacobini
Oggi fanno ventiquattro anni esatti. Ed è praticamente la prima volta che ne parlo. La primissima che ne scrivo. Perché quel palazzo al civico 65 lo conoscevo bene. Ci sarò entrato un migliaio di volte lì. E conoscevo bene i titolari di quella tipografia che per qualche tempo venne considerata il diavolo incarnato. Prima di venire definitivamente assolta, perlomeno.
Era un palazzo degli anni Cinquanta, su una strada piuttosto sgarrupata. Prima di arrivare lì c’era una vecchia catapecchia semi abbandonata. Se davvero si fosse pensato a un crollo lo avrei immaginato lì. Cominciai a frequentare il palazzo all’inizio degli anni Novanta. Erano ancora gli albori del computer e il web lo usava solo l’esercito degli Stati Uniti.
Lavoravo nella redazione di un giornale che stampava le sue copie proprio lì, in via Vigna Jacobini, in quella tipografia. Lavoravano bene, con scrupolo e competenza. Portavo lì un bel borsone di roba, con gli originali delle foto da stampare, gli impaginati fatti a mano su vecchi “menabò”. Di solito parcheggiavo lontano, che la strada era stretta e difficilmente ci trovavi un posto libero.
Lasciavo la macchina su via Portuense, non distante dallo Spallanzani, poi mi facevo un pezzo di strada a piedi e scendevo giù, al seminterrato, dove c’erano i macchinari. Oppure al secondo, o al terzo piano, dove avevano gli uffici. Il titolare lo trovavi fisso alla scrivania, dodici ore al giorno, dall’alba alle dieci di sera, come buona parte del personale, d’altronde.
Lungo le scale incontravo spesso qualcuno, qualcuno che abitava lì intendo. Persone semplici, gentili, che magari salivano con le buste della spesa. Anziani. Famiglie. Non ho mai fatto amicizia con nessuno, questo no. Ero lì per altro, d’altronde. Ma pareva gente per bene, quei tipi di una volta da vecchio quartiere popolare.
Ogni volta che andavo lì, nella tipografia, mi fermavo a parlare per orette buone, per spiegargli il lavoro, per ascoltare consigli, per risolvere problemi. A seguire il mio giornale, di solito, c’era un ragazzo, uno di quelli che aveva cominciato a imparare le nuove tecniche computerizzate del lavoro. Uno bravo. Poi, a metà degli anni Novanta mi disse che raggiungeva la donna a Firenze e andava a cercare lavoro lì. Non l’ho più visto.
Qualche mese dopo me ne andai anche io. La mia collaborazione col giornale era finita. Cambiai redazione e tipografia di riferimento. A via di Vigna Jacobini non ci misi più piede. Fu via di Vigna Jacobini, però, a venire a trovarmi a casa, tre anni dopo, da un TG. Il palazzo era crollato e la colpa, dicevano, era della tipografia.
Rimasi a bocca aperta. Dicevano che era successo di notte. Un disastro per i residenti che erano tutti lì a riposare e non avevano potuto salvarsi. Una fortuna per il personale della tipografia, che a quell’ora era assente. Ascoltai dei nomi che conoscevo bene, indicati come imputati di un processo, per via di macchinari tipografici che avevano fatto cedere lo stabile.
Mi chiedevo come si potessero immaginare colpevoli persone che sapevo coscienziose, che, oltretutto, trascorrevano in quel palazzo almeno dodici ore al giorno, tutti i giorni. A volte anche di più. E che solo il destino ha voluto che si salvassero, per via dell’orario notturno del crollo. Ma so anche che la vita è strana e che non potevo certo escludere del tutto che le cose fossero andate davvero così.
Lo ha però escluso la sentenza finale di un processo durato ventuno anni, conclusosi solo nel 2019, con sentenza di assoluzione del titolare della tipografia, perché il fatto non sussiste. La Corte di appello di Roma ha riconosciuto che l’attività tipografica non ebbe alcun effetto nocivo sulla struttura dell’edificio. il crollo dell’edificio fu causato da errori progettuali nella fase costruttiva, con il sottodimensionamento dei pilastri di sostegno e una scarsa qualità del calcestruzzo.
In pratica quei morti di via Vigna Jacobini, sono tra le tante vittime di quel “sacco di Roma” degli anni Cinquanta, quando si corse a costruire ovunque, tanto e male, senza alcun controllo e senza alcuno scrupolo, con la compiacenza di un sindaco, Gaetano Rebecchini, i cui figli hanno seduto a lungo in Parlamento, i cui nipoti presiedono importanti associazioni di imprenditori edili.
Quei morti di Vigna Jacobini non avranno alcun risarcimento da nessuno. Non potranno sfogarsi coi titolari della tipografia – magra ma umana possibile soddisfazione – considerati oggi fra le vittime e non più fra i probabili colpevoli, né potranno rivalersi coi vecchi costruttori. Molti hanno perso la vita. I pochi sopravvissuti hanno perso tutti i propri averi.
Così va il mondo, così va Roma, questa Roma costruita in fretta e male, che indica per anni falsi colpevoli che risultano poi essere innocenti e chiude un occhio, in modo compiacente, su chi ha delle colpe, spesso premiato socialmente ben al di là dei propri meriti, salvo poi ammettere qualche pecca solo quando è ormai troppo tardi per poter fare davvero qualcosa.
Via Vigna Jacobini. Roma. Italia.