Il pensiero dell’orario unico
A leggere i giornali sembrerebbe un’ottima notizia. Almeno tutti la presentano così, come un ritorno alla normalità. Fatto sta che, da metà settembre, cioè da quando ricominciano le scuole, si ritorna ai bei vecchi tempi dell’orario unico.
Entrata per tutti fra le otto e le otto e trenta, come prima della pandemia. La cosa riguarda anche tutti gli studenti delle superiori. E tutti si dicono felici. Tutti tranne me. E ora mi domando se sono il solo. Perché se c’era una cosa buona che questo Covid aveva portato a Roma, forse l’unica, era proprio l’orario scaglionato di entrata nelle scuole.
L’unica novità da mantenere, con quel pizzico di minore ingolfamento del traffico che, grazie a questa strategia “d’emergenza”, si verificava la mattina in città. Certo, i primi giorni c’era stato qualche disagio, qualche problema organizzativo, qualche questione da risolvere con le attività pomeridiane dei ragazzi per chi usciva più tardi. Ma giusto i primi giorni.
Poi ci si era organizzati. E il vantaggio di trovare, ogni mattina, delle situazioni d’ingolfamento del traffico romano, a volte drammatiche, ma mai tragiche com’era stato in precedenza, dimostrava che il gioco forse valesse la candela.
Parlo anche per esperienza diretta, essendo padre di una liceale che, oltretutto, fa anche attività sportiva a livello agonistico. Le era capitato l’orario di entrata alle 9,40, ovviamente con relativa uscita alle 15 inoltrate, ma questo non le aveva impedito di fare una normalissima vita, di studiare, d’incontrare gli amici, né aveva in alcun modo pregiudicato la sua attività sportiva.
Eppure, sempre a leggere i giornali, pare che il ritorno all’orario unico sia dovuto alla necessità di spegnere le molte polemiche sorte: “in relazione soprattutto all’orario d’uscita inoltrato, che faceva perdere agli alunni ore di studio e sport”. Mah, se lo dicono loro. Sarà mia figlia un’eccezione, visto che quei problemi lei non li ha avuti, chissà.
Certo, per un genitore abituato ad accompagnare in macchina i figli, le 9,40 erano un orario scomodo. Probabilmente successivo al proprio orario d’ingresso al lavoro. Ma questo era anche un modo per disincentivare quel tipo di accompagnamento, privilegiando i mezzi pubblici. D’altronde si poteva lasciare l’orario scaglionato almeno per i liceali, ragazzi più grandi, dunque autonomi e capaci di prendere un bus.
Non si parla tanto di disincentivare il mezzo privato? Non si parla di risparmiare sull’energia e sul consumo di carburanti? Beh, questa era una misura semplice ed efficace per ottenere l’obiettivo, in concreto e non a chiacchiere. A questo punto viene un sospetto: non è che forse ottenere davvero l’obiettivo “in concreto e non a chiacchiere” non interessa a nessuno?
Però la cosa che mi ha stupito di più, più di quello indicato finora, è scoprire che queste decisioni – che incidono in modo profondo sulla città, sui cittadini e sui servizi romani- sia le decisioni precedenti di scaglionare le entrate, sia quella attuale di tornare all’orario unico, non le ha prese il nostro sindaco. A decidere è stato il prefetto Matteo Piantedosi.
Ora, probabilmente la normativa prevede questo, dà al prefetto e non al sindaco questa autorità. Però, a questo punto, viene da chiedersi una cosa: se le decisioni più importanti per Roma – che poi vanno a determinare conseguenze a pioggia, cambiando radicalmente le esigenze nel numero di mezzi pubblici necessari in circolazione, nella viabilità, nell’organizzazione di uffici e servizi cittadini – le prende un prefetto, che è una carica non elettiva, a che serve perdere tempo a eleggere un sindaco?
Tanto vale lasciare fare tutto al prefetto, risparmiarsi la fatica di andare di tanto in tanto ai seggi e, soprattutto, risparmiare lo stipendio del sindaco Gualtieri e dei suoi consiglieri, oltretutto recentemente raddoppiato. Anche perché quando leggo, sui soliti giornali, che, a seguito della decisione di tornare all’orario unico: “non ci saranno linee speciali aggiuntive né fondi extra dedicati al trasporto scolastico”, capisco che la priorità è risparmiare. Allora cominciamo a risparmiare tagliando i servizi non essenziali, tipo l’amministrazione politica capitolina.
Poi dice che uno diventa populista…