Il signore dell’anello – 1
Il Raccordo Anulare lo conosciamo bene. Quell’anello che circonda la Capitale. Quel nuovo limes. Quelle nuove mura. Quel nuovo confine. Dentro è la civiltà. Fuori è l’ignoto, la barbarie, l’ignoranza: “hic sunt leones”.
Che poi, però, lo sappiamo tutti che non è davvero così, che Roma non è dentro ma a cavallo, che molti di noi vivono oltre quel limite, più immaginario che reale. Succede così per quasi tutti i confini, che a guardarli davvero non sono mai ben definiti, come sembrerebbero sulla carta.
Non so perché, ma io l’ho sempre amato il GRA. Forse perché è un luogo fisico e immaginario insieme. Borderline per definizione. Forse perché è un non luogo, un semplice percorso, che a farlo tutto, fino in fondo, non ti conduce a nulla e torna sempre al punto di partenza.
E qual è il punto di partenza? Dove comincia il perimetro di un cerchio? Beh, è numerato il GRA e, visto che al numero uno c’è l’Aurelia, starà lì. Per convenzione, tutto comincia da lì. Dunque, oggi, voglio essere convenzionale.
Dall’Aurelia a Selva Candida
E allora lo imbocco proprio da lì, direzione Firenze, affascinato da quel palazzone illuminato, adagiato sulla collina, che cambia di continuo luci e colori. Con le sue scritte: “Codere”, “Daikin”, “Gold Bet”, “Tenia”. Un mondo di uffici, che a vederlo da qui pare quasi incantato, uscito da una qualche favola.
Il tempo di superare una breve galleria, che già ti accorgi che i numeri delle uscite sul GRA non hanno proprio nessun senso. Sono solo un retaggio di un lontano passato, ormai superato dai tempi. Montespaccato ti arriva all’improvviso e senza nessun codice.
Ti arriva lì, con le sue viuzze strette che non hanno marciapiedi e i suoi bei villini appiccicati al Raccordo. Appiccicati così bene, che ci hanno dovuto mettere i pannelli anti rumore. Quelli con gli uccellini dipinti su, che fanno quasi tenerezza.
Un paio di chilometri ancora, poi ecco Boccea. Altri pannelli con gli uccellini e qualche curvone, prima di ritrovarti sotto a sua maestà il Papillo. Lui svetta dall’alto del monte, che pare un antico maniero.
In realtà è un hotel, neanche niente di che, confinante con un bel centro commerciale, sovrastante un apparente nulla. Però, se c’è un Signore del GRA, un duca, un re, vive sicuramente lì.
Ti prende l’occhio, il Papillo. Resti a guardarlo ammirato, quando all’improvviso la strada ti butta giù in discesa. Sembra quasi ti stia trascinando agli inferi, attraverso un interminabile tunnel, per fortuna ben illuminato.
E va giù, la strada. E giù. “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate” pensi quasi che ci fosse scritto all’ingresso, anche se, distratto, non hai visto il cartello.
Poi, quando le hai perse davvero le speranze, ecco che risale, verso la salvezza. La scopri subito dopo una grande curva in salita, la salvezza, sotto forma di area di servizio. Un tempo era un Autogrill, ma ora di Autogrill sul GRA non ce n’è quasi più nessuno. Hanno tutti cambiato marchio.
Nei bagni ci sono i soliti guardoni. Qualcuno sta anche seduto in macchina, a fingere una sosta prolungata. Nel bar, alla cassa, c’è la macchinetta automatica dei soldi, per pagare. Io le detesto quelle macchinette. Chiedo un caffè e le sigarette a una tipa bionda. Bionda senza averne l’aria, avrebbe detto Francesco Guccini. Pago con la carta, per aggirare la macchinetta.
C’è poco movimento, oggi, qui. Ma il caffè è buono. Me lo gusto lento, prima di riprendere il viaggio.