L’imperatore che accolse gli stranieri
C’è un imperatore che fece moltissimo per integrare gli stranieri nella società romana. Sarà forse che il primo a sentirsi “straniero” probabilmente era proprio lui: Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, per gli amici e per i posteri semplicemente Claudio, quarto imperatore di Roma, il primo ad essere nato fuori della penisola italiana.
Sebbene romanissimo per stirpe e per cittadinanza, Claudio venne alla luce a Lugdunum, l’odierna Lione, nel 10 avanti Cristo. Di corporatura gracile, non sembrava affatto destinato a fare l’imperatore. I suoi problemi fisici, però, fecero la sua fortuna. Sottovalutato da tutti, rimase l’unico maschio della famiglia ad essere scampato alle purghe dei suoi predecessori Tiberio e Caligola. E così, alla morte di quest’ultimo, in assenza di rivali e di concrete alternative, si scelse lui come nuovo Augusto.
Claudio, vuoi per le sue origini, vuoi per gli studi storici a cui si dedicava con passione, si era convinto che Roma dovesse molto del proprio successo alla capacità di accogliere e d’inserire, tra i cittadini romani, uomini delle più diverse etnie. A suo dire, dunque, le personalità più importanti di Gallia, Spagna, Africa, così come gli scienziati e i letterati greci o asiatici, potevano e dovevano contribuire notevolmente alla crescita dello Stato romano.
Nel 48 dopo Cristo, si spinse anche oltre e fece un passo destinato a suscitare scandalo e a provocare le proteste vibranti del Senato romano, in maggioranza composto da conservatori e tradizionalisti. Motivo della contesa politica era l’autorizzazione che egli voleva concedere anche ai Galli di ricoprire il ruolo di senatore.
I senatori romani erano inorriditi. L’imperatore era forse impazzito? Si voleva forse consegnare le chiavi del potere a quei barbari, ai nipotini di Vercingetorige, i cui padri avevano tentato di sterminare le legioni di Giulio Cesare? Così facendo per Roma sarebbe stato un suicidio, dicevano. Ma Claudio non si scoraggiò, pronunciando un discorso destinato a rimanere nella storia.
“I miei antenati, il più antico dei quali, Clauso, di origine Sabina, fu contemporaneamente accolto nella cittadinanza romana e nel numero dei patrizi, mi esortano ad adottare i criteri da loro seguiti nel governo dello Stato, trasferendo qui quando si può avere di meglio, dovunque si trovi.
Non ignoro infatti che i Giulii furono fatti venire da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porci da Tuscolo, e per lasciare da parte gli esempi antichi, furono chiamati a far parte del senato uomini provenienti dall’Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia e, da ultimo, i confini dell’Italia stessa furono estesi sino alle Alpi, perché non solo i singoli individui, ma interi territori di popoli si congiungessero in un solo corpo sotto il nostro nome.
All’interno si consolidò la pace e all’esterno si affermò la nostra potenza, quando si accolsero nella cittadinanza i Transpadani e l’insediamento delle nostre legioni in tutte le parti del mondo ci offrì l’occasione per incorporare nelle loro file i più forti dei provinciali e dare così nuovo vigore all’impero esausto.
Ci rammarichiamo forse che siano passati tra noi i Balbi dalla Spagna e uomini non meno insigni dalla Gallia Narbonese? I loro discendenti vivono tuttora e dimostrano di non amare certo meno di noi la nostra patria.
Per quale altra ragione decaddero Sparta e Atene, pur così potenti sul piano militare, se non per aver bandito da sé i vinti quali stranieri? Ma l’accortezza del nostro fondatore Romolo fu tale che molti popoli ricevettero da lui la cittadinanza nello stesso giorno in cui ne erano stati vinti come nemici.
Su di noi hanno regnato re stranieri e la concessione di magistrature a figli di liberti e non è una novità dei nostri giorni, come alcuni credono erroneamente, ma una pratica seguita dai nostri antichi (…)
O senatori, tutto quello che oggi si crede antichissimo, un tempo fu nuovo: le magistrature prima riservate ai patrizi passarono ai plebei e dai plebei ai Latini e infine agli altri popoli d’Italia.
Anche questo provvedimento diverrà un giorno antico e ciò che oggi noi sosteniamo con esempi precedenti sarà anch’esso annoverato tra i modelli.”
La proposta di Claudio fu infine approvata. E il suo discorso, anche a distanza di duemila anni, rimane come esempio di un concetto di società che può trarre forza e non debolezza dall’integrazione, dalla multiculturalità. Una sorta di “modello Riace” ante litteram, per usare un linguaggio dei nostri giorni. Un precedente valido ancora oggi.