Contro le playlist alla radio
In questi giorni, a Radio Capital è partita la nuova stagione del programma pomeridiano Capital Records con due significative novità: la conduzione a quattro mani di due indubbi professionisti come Luca De Gennaro e Mixo e la scelta di mettere da parte ogni playlist, improvvisando invece la scaletta secondo gli umori dei conduttori, esattamente come accadeva qualche decina di anni fa, all’epoca delle prime radio libere. Un esperimento che riavvicina la radio alle sue radici e che spero venga presto copiato anche da altre emittenti.
C’era una volta il dj coi suoi dischi da casa
Nei primi anni delle radio libere, infatti, il concetto di playlist – cioè una lista selezionata di brani da suonare durante la giornata, secondo una rotazione spesso settimanale: quelle che invece su Spotify e altri siti musicali, e anche qui su Roma Report sono compilation – era pressoché inesistente: chi si trovava dietro il microfono sceglieva da sé la musica da trasmettere, spesso portandosela da casa, e la conosceva alla perfezione. Le radio erano una sorta di jukebox, il conduttore o dj programmava i dischi a che gli erano più consoni, e l’emittente di turno era un contenitore di quasi ogni genere musicale, dal rock al soul, dal jazz alla disco. In questo modo, gli ascoltatori si affezionavano non solo allo stile di conduzione di ogni singola voce ma anche alla musica scelta, sicuri che in quella fascia oraria sarebbero andati in onda solo determinati dischi o un certo tipo di musica.
Negli anni in cui la maggior parte dei conduttori doveva barcamenarsi fra giradischi, cassettine e ogni tipo d’imprevisto (internet apparteneva ancora alla fantascienza), poteva capitare, come successe a me, d’essere chiamati all’ultimo momento per sostituire uno speaker malato (ero facile da reperire perché abitavo vicino alla sede della radio), arrivare trafelato pochi minuti prima della diretta e fare incetta al volo di una manciata di dischi non programmati dal conduttore precedente. In pratica, la scaletta della trasmissione veniva improvvisata. Anche in situazioni normali, sceglievo nella discoteca della radio un pacco di dischi, in genere LP secondo la disposizione d’animo del giorno, da modificare man mano in base alle scelte degli ascoltatori che telefonavano durante il programma. Il contatto con l’esterno era solo uno: il telefono, ogni tanto arrivavano delle lettere, l’ordine tassativo era soddisfare le richieste musicali anche nelle trasmissioni che non le prevedevano per mantenere alto l’audience.
Quanto a me, cercavo di instaurare un feeeling con gli ascoltatori, sorta di contatto telepatico, cercando di interpretarne gli umori, spesso riuscendo nell’intento. Poi, poteva capitare che ricevessi dalla medesima persona per due volte di seguito la richiesta dello stesso brano da suonare ad alto volume durante una festa a casa sua e facessi presente che quella era una radio, non un jukebox e forse sarebbe stato meglio che il disco se lo fosse comprato!
Radio Milano International
Col passare del tempo le case discografiche, si accorsero di quell’importante strumento promozionale e iniziarono a fornire dischi gratuitamente, vincolando la radio di turno a trasmetterli ciclicamente: cominciò così a farsi strada il concetto di playlist. Radio Milano International, per esempio, adottò nei primi anni Ottanta la 70 Up, composta da 70 brani secondo lo stile americano. Per molti disc jockey fu un vero shock, abituati com’erano a scegliersi i dischi da soli.
Anche Radio Luna Roma applicò una playlist rock and soul – in seguito solo rock – di soli 50 brani. Tutto il giorno andavano in onda solo quelli, una scelta avveniristica in ambito locale che molti non compresero ma che distinse l’emittente nel panorama sempre più omologato che andava delineandosi. Se prima, infatti, era indispensabile per ogni conduttore informarsi sulle tendenze musicali del momento, con l’avvento delle playlist – serie di dischi decisi da altri, programmati con diverse rotazioni in strutture vincolate da logiche commerciali – la figura del disc jockey fine conoscitore di musica andò pian piano scemando.
Come ha detto recentemente Renzo Arbore: “Non ci sono più i dj, quelli che scelgono in autonomia la buona musica e poi sanno lanciarla nei programmi. Eppure, i dj radiofononici sono fondamentali per rompere gli schemi”. D’altro canto senza l’onere (ma soprattutto l’onore) di redigere le scalette, oggi il conduttore di turno è investito di maggiore responsabilità perché deve darsi un gran da fare a intrattenere gli ascoltatori senza cadere nei soliti luoghi comuni, senza dare l’idea d’essere lì solo per timbrare il cartellino, e infatti non tutti riescono. Fare radio significa dedicarsi con passione, se non esprimi più nulla di nuovo, alla lunga l’ascoltatore se ne accorge. Scegliere i dischi da mandare in onda, evitare il conformismo, fa bene alla radio.
[La foto del titolo è di Wonderferret ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]
ribadisco la fiducia Renzo Arbore
Non ascolto più le Radio di ieri e chi si ostina a lavorare in maniera artigianale come una volta. Mi stanno benissimo le playlist delle “Major” e non soffro di mentalità in bianco e nero, ma nello stesso tempo, che non si continui a criticare la Radio di oggi. Rispetto per tutti e chi NON vuole ascoltarle o le DETESTA, cambi stazione e BASTA UNA VOLTA PER TUTTE. Grazie. Sono davvero stanco di questa storia. E’ più moderno Renzo Arbore di tutte le critiche di oggi. Viva la Major.