‘Na fojetta
Le unità di misura romane differiscono spesso, per tipologia e terminologie usate, da quelle del resto d’Italia. Se per contare le quantità di denaro, a Roma esistono i “sacchi”, gli “scudi” e le “piotte”, molto caratteristica è anche la nomenclatura con cui vengono distinte le diverse quantità di vino sfuso, offerte nelle trattorie e nelle osterie della Capitale.
Tutto nasce dalle frequenti risse e discussioni che avvenivano in passato in questi luoghi, a causa della cattiva usanza degli osti di servire il vino in recipienti di terraglia o di metallo, in modo tale da poter raggirare i clienti con la cosiddetta “sfogliettatura”, cioè la non completa riempitura del boccale.
Per evitare questo malcostume, papa Sisto V decise di vietare i contenitori nei quali il vino non fosse visibile e fece fabbricare contenitori in vetro, di modo tale che si potesse controllare l’esatta taratura del vino servito.
Nel 1588 il pontefice emanò, perciò, un bando, che obbligava gli osti a utilizzare esclusivamente i nuovi recipienti in vetro, su cui è impresso il sigillo papale. Nascono così le tipiche misure delle osterie romane, che esistono ancora oggi in alcune mescite della città.
La misura più usata è quella da mezzo litro, la cosiddetta “fojetta”. Pare che la parola derivi dal provenzale “folheta”, che a sua volta si può collegare al tardo greco “phyélē” termine che aveva il significato di vaso, fiala.
Ci sono poi i sottomultipli della fojetta: il quartino o mezza fojetta da 1/4 di litro, il chirichetto da 1/5 di litro, il sospiro da 1/10 di litro, detto anche sottovoce, perché ci si vergognava a far vedere che non si avessero abbastanza soldi per ordinare del vino in più e dunque lo si chiedeva all’oste quasi sussurrando in un orecchio.
Infine i multipli: il tubbo da un litro e, per concludere, er barzillai da due litri, così detto dal nome dell’onorevole Barzilai, un politico vissuto a cavallo fra ottocento e novecento, che in campagna elettorale usava offrire il vino in questo formato.