Ca**i, culi e altri turpiloqui

“Sto ca**o di territorio… per tenere il culo su questa ca**o di sedia…” È il 21 luglio del 2022 e queste frasi volgari riecheggiano nell’aula consiliare del Municipio X, in quel di Ostia. A pronunciarle è, nientemeno che il presidente Mario Falconi, durante un consiglio municipale.

Al termine del discorso completo, si conteranno ben cinque fra ca’**o e ca**i, oltre a un culo e un va**anculo. Apriti cielo! O tempora, o mores! “Di questo passo dove andremo a finire?”, protestano in molti. E a qualcuno viene da pensare che parole così siano il segno di un degrado tutto contemporaneo, proprio dei nostri tempi moderni, in cui nessuno rispetta più l’autorevolezza di un ruolo e di un luogo, lasciandosi andare a vergognosi turpiloqui.

Eppure, in realtà, di contemporaneo quel turpiloquio non ha proprio nulla. Anzi sono molti i precedenti di personaggi, anche di altissimo livello, che si sono lasciati andare, nei secoli, a varie scurrilità in pubblico. E questo accadde già a partire dall’epoca d’oro della politica e della cultura italiana, che fu il basso medioevo e il rinascimento. Come ci ha più volte ricordato il più noto medievista italiano: Alessandro Barbero.

Quando, nel 2009, quello stimatissimo storico torinese, mandò alle stampe un suo libro intitolato: “La voglia dei ca**i, e altri fabliaux medievali”, sapeva bene dello scandalo che un titolo del genere avrebbe provocato negli ambienti accademici e non solo. Ma il suo intento provocatorio prevalse e per nobili ragioni.

Fra Salimbene da Parma

Barbero, con quel titolo, voleva infatti dimostrare come il linguaggio di personaggi di alto livello – intellettuali, artisti, imperatori, politici, papi, vescovi – durante il medioevo, fosse molto più libero e, tutto sommato, anche molto più autentico del nostro. Un linguaggio pieno di parolacce e di oscenità.

Ne è un esempio la famosa scoreggia citata da Dante nella Divina Commedia, a chiusura del canto XXI – “Ed elli avea del cul fatto trombetta” – oppure il contenuto erotico di molte novelle del Boccaccio, nonostante l’autore, ricordiamolo, fosse un prete, o ancora le Cronache di Fra’ Salimbene da Parma, stimato consigliere del Papa, che non si vergognava affatto nel definire i suoi compagni di monastero dei “piscia in tonaca”.

Giacomo Leopardi

Per arrivare poi ai Fabliaux medievali, cioè delle novelle francesi di grande successo, una sorta di best seller mondiale dell’epoca, di cui, quella forse più famosa, s’intitola, per l’appunto: “La voglia dei ca**i”.

A parlare del turpiloquio dei grandi della letteratura e della politica, relativamente a secoli più recenti, ci ha poi pensato anche Valeria Arnaldi, che nel 2021 ha pubblicato un libro dal titolo inequivocabile: “E chi non te lo dice! I migliori insulti della storia”.

Qui, ad esempio, scopriamo aspetti poco conosciuti di Giacomo Leopardi, che un giorno arrivò a dire: “La vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un ca**o con gli stranieri!”. Oppure del primo ministro italiano Francesco Crispi: “Bisogna che io pianga la mia coglioneria!”. Fino al famoso “Merde!” pronunciato dal generale francese Cambronne.

Particolare dell’affresco di San Clemente

Ma, torniamo per un attimo al medioevo: proprio a Roma, nella basilica di San Clemente, in un affresco dell’XI secolo, raffigurante i miracoli del santo, il turpiloquio è persino messo nero su bianco sulle pareti di un luogo sacro.

Fili dele pute traite” si legge accanto ad alcune delle figure dipinte. Cioè “Figli di puttana, tirate!”, una esortazione che il prefetto Sisinnio, lì rappresentato, rivolge ai propri servitori, che stanno trasportando una colonna.

Forse Mario Falconi, quando ha pronunciato il suo discorso, non conosceva tutti questi nobili precedenti, non conosceva affatto l’affresco di San Clemente, né le parole di Crispi, né quelle di Fra Salimbene, ma ora che conosce tutto ciò – perlomeno se leggerà questo articolo – potrà rispondere meglio e con più serenità alle tante critiche che, nel frattempo, gli stanno piovendo addosso.

Insomma: niente di nuovo sotto il sole. Nemmeno sotto il sole di Ostia.

 

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