L’insostenibile leggerezza dei sindaci
C’era una volta il cosiddetto “partito dei sindaci”. Erano gli anni novanta e i vari Rutelli, Bassolino, Orlando, Cacciari, parevano fare ombra, per dinamicità, forza, proposte innovative, anche al parlamento e al governo italiano. La nuova legge sull’elezione diretta dei primi cittadini, aveva dato grande slancio al ruolo di sindaco: vicino alle persone e contemporaneamente alla ribalta nazionale. Fu una botta d’adrenalina. La trasformazione positiva della politica italiana, pareva dovesse avviarsi da lì.
Poi, poco a poco, la spinta iniziale si esaurì. Passarono gli anni, cambiarono i nomi, cambiò lo scenario d’insieme. Finché, quasi senza accorgersene, il ruolo di sindaco tornò ad essere quello di secondo piano che era stato fino agli anni ottanta. Invisibile, nonostante la fascia tricolore, Chi sa dirmi, al volo, chi sia oggi il sindaco di Napoli? O quello di Torino? Un tempo non era così. Da Milano a Palermo, si snocciolavano a memoria tutti i nomi, proprio come avveniva per quelli dei giocatori della nazionale di Bearzot.
Dunque, adesso, a Roma, da nove mesi, è arrivato Roberto Gualtieri. Anche se in pochi si sono accorti del passaggio di consegne, quello che lo ha fatto entrare negli uffici che furono di Virginia Raggi. Tanto più che i cinghiali continuano a scorrazzare per le vie dell’Urbe. I cumuli d’immondizia, accanto ai cassonetti, continuano ad essere imponenti composizioni creative, che meriterebbero forse gli onori di un museo.
Persino l’ufficio comunicazione del sindaco, se nell’epoca d’oro di Virginia confondeva il Colosseo con l’Arena di Nimes, oggi, per non essere da meno, sulle card Atac, disegna un San Pietro che pare il Duomo di Firenze. I Tmb romani vanno ancora a fuoco, come accadeva a quelli sulla Salaria di una Raggi che fu. Così, la vita di Roma scorre sempre placida e in lento disfacimento, proprio come dieci mesi fa.
A parte qualche polemica, per la scelta – per ora solo un annuncio – di voler costruire un inceneritore, di Roberto Gualtieri non c’è traccia. Al punto che qualcuno si è spinto a dire che lui, in realtà, non esista, che sia solo una leggenda metropolitana, proprio come i coccodrilli nelle fogne, come l’Araba Fenice, come Keyser Soze. Su questo, però, voglio rassicurarvi. Mi è capitato, personalmente, d’incontrarlo in un paio di occasioni. Quindi sì: Gualtieri esiste, è vivo e lotta insieme a noi.
Che tipo di lotta faccia, insieme a noi, quello però ancora non l’ho capito bene. Più che un lottatore, sembra quasi un monaco zen, colui che, grazie alla sua saggezza, sa piegarsi, come una canna di bambù, ad ogni refolo di vento. Quel vento che, intanto, alimenta un incendio che distrugge mezza Centocelle e fa crollare un po’ di alberi a Balduina.
A onor del vero, in questo, non c’è nulla di peggio – o di meglio – rispetto a chi lo ha preceduto. L’ultimo sindaco capace di lasciare un segno sulla città, fu infatti il buon Walter Veltroni – erano i primi anni duemila – l’uomo dal migliore ufficio stampa del globo terracqueo, amato e osannato da giornali e cittadini, salvo scappare alla chetichella dal Campidoglio, a mandato non ancora concluso, quando a Roma rischiava di profilarsi la mala parata.
Di lui si ricorda una Capitale col Pil che cresceva il doppio rispetto al resto d’Italia, si ricorda un grande Auditorium che lui inaugurò (ma che era opera di Rutelli), si ricorda la Galleria Giovanni XXIII che lui inaugurò (altra opera di Rutelli), si ricorda la Città dello Sport che lui non inaugurò mai (opera sua, non di Rutelli) perché mancarono i fondi per completarla, mentre la Vela di Calatrava restava un rudere nel deserto dell’imbocco della Roma-Napoli, a imperitura memoria.
Dopo di lui, il diluvio. Anzi, la nevicata. Quella che è rimasta come unico momento degno di nota, nella vita da sindaco di Gianni Alemanno, anche grazie all’imitazione di Max Pajella che ne scaturì. Poi venne Ignazio Marino. Alemanno e Marino: due sindaci travolti da grandi scandali e da orride malefatte – almeno a leggere i giornali dell’epoca – salvo scoprire, anni dopo, che i giornali dell’epoca avevano gonfiato non poco gli accadimenti, per molti dei quali, sia Alemanno che Marino, chissà perché, non subirono condanne in sede processuale.
Nel frattempo, però, il danno d’immagine era stato fatto. Il ruolo di sindaco di Roma aveva perso la sua aura sacrale, appariva ormai come un’anatra zoppa, priva di autorevolezza e di potere. L’ascesa di Virginia Raggi, mitragliata fin da subito dal fuoco incrociato della stampa di destra e di sinistra, capace di continue gaffe, dovute anche a un’iniziale impreparazione al ruolo, confermò questa impressione.
Oggi, dunque, quello di sindaco di Roma, pare poco più che un ruolo simbolico. S’indossa un bel nastro bianco, rosso e verde, si stringe qualche mano, si saluta, s’inaugura una targa, si fa un bel viaggio a Parigi per ricordare l’antica amicizia fra la Capitale italiana e quella francese e può bastare anche così. Una roba un po’ come il Dalai Lama, un tempo alla guida del Tibet, oggi semplice autorità morale e di rappresentanza, senza più nessun territorio da governare.
E così, chi davvero guida Roma, può starsene tranquillo, senza dover passare mai per nessun giudizio elettorale. Non è certo colpa di Gualtieri, né di Virginia Raggi, o di Marino, o di Alemanno. Succede.