Il comunista in Borghese
Si può essere un convinto fascista, aderire al regime con ardore patriottico, arruolarsi volontario nella Decima Mas, non rinnegare mai, per tutta la vita, quelle scelte e, al tempo stesso, divenire un focoso militante del PCI, un attivo collaboratore de l’Unità e del Manifesto, per poi ricevere dalle mani di Fidel Castro, primo non cubano dopo Che Guevara, la tessera del Partito Comunista di Cuba? Certo che si può. È quanto accaduto a Piero Vivarelli, bizzarro personaggio, dalla vita che pare uscita da un romanzo, o forse da uno di quei B-Movie di cui lui, tra gli anni sessanta e settanta, fu tra gli autori.
Senese di nascita, romano di adozione, la sua parabola è talmente fuori dagli schemi che nel 2019 meritò di essere raccontata in un documentario, presentato alla Biennale del Cinema di Venezia, realizzato dal nipote Nicola, dal titolo “Life As a B-Movie”. Alla Biennale del Cinema? Già, perché Vivarelli, oltre che un attivista politico, fu anche un regista, uno sceneggiatore, un paroliere: “Con 24 mila baci, felici corrono le ore, di un giorno splendido perché, ogni secondo bacio te” sono parole sue, anche se poi cantate e rese famose da Adriano Celentano.
Memento Audere Semper
Procediamo con ordine. È il 25 luglio del 1943, Piero Vivarelli è un giovanissimo italiano pieno di amor di Patria, un patriottismo, come lui stesso ebbe modo di raccontare, rinfocolato dalla lettura, sul giornale della federazione fascista, degli articoli infuocati di un altro fervente patriota, destinato poi, come lui, a passare su altre sponde: Giorgio Bocca. Quel giorno, a Roma, l’Ordine del giorno Grandi aveva, di fatto, defenestrato Benito Mussolini e il giovane Piero ne era rimasto disorientato.
Il vero grande shock arrivò però l’otto di settembre dello stesso anno: “Il pomeriggio dell’otto settembre ero andato al cinema. Quando sono uscito ho trovato la città in festa, da un’ora all’altra, i soldati che venivano abbracciati. ‘La guerra è finita! La guerra è finita!’ dicevano tutti”. Ma la guerra non era affatto finita: “Mi spinse un senso di ribrezzo per quello che era successo… misero la gente in condizioni incredibili, sia che uno la pensasse in un modo, oppure in un altro. Centinaia di migliaia di soldati italiani furono mandati allo sbaraglio. Questo lo consideravo assolutamente inaccettabile. Per me fu anche un colpo al mio orgoglio personale. Così scappai di casa e risolsi il problema. Ancora oggi lo rifarei; anche perché noi, all’epoca, non sapevamo tutto quello che si è saputo dopo. E’ chiaro che, se avessi avuto una minima idea dell’esistenza dei campi di sterminio, non ci sarebbe stato discorso”, ebbe a dire anni dopo.
Entrò volontario nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese, quello stesso Borghese che nel 1970 si rese protagonista di un ancor oggi misterioso tentativo di colpo di stato. Vivarelli era un soldato provetto, rigoroso, instancabile, attivissimo. Quell’esperienza, nel 1998 la racconterà in un documentario intitolato “Storia della X Mas”, nel quale, con occhi già a quel punto di sinistra, cercherà di ricostruire la verità storica di quei momenti convulsi e contraddittori: “Non sono un pentito. Sono un cambiato. Sono state scritte e dette tante sciocchezze sulla Decima, soprattutto dopo il Golpe Borghese. Io ho cercato di raccontare quella vicenda così come l’ho vissuta personalmente”, raccontò in un’intervista a Repubblica, poco dopo l’uscita di quel suo lavoro.
Per tutta la vita Vivarelli rivendicherà orgogliosamente la giustezza di quella scelta, sua come di tanti altri ragazzi della sua generazione, oltre a presentare una Decima quasi “frondista”, autonoma e spesso in contrasto con alcune discutibili direttive ricevute dalla Repubblica di Salò, contraria alla guerra fratricida contro altri italiani, quella guerra anti-partigiana tanto cara alle Brigate Nere e ad altri gruppi repubblichini. Che sia una verità storica o solo un suo ricordo, edulcorato dal trascorrere degli anni, non è oggi facile da capire.
Il fascista rosso: dalla Decima al PCI
Alla fine della guerra Vivarelli viene arrestato dagli Alleati. In carcere, dove rimane circa per un anno, comincia a leggere l’Unità, il Politecnico, tra lo stupore degli altri prigionieri politici della sua parte. Il suo cambiamento non è però immediato. Inizialmente, anzi, una volta libero, aderisce al neonato Movimento Sociale Italiano.
Poi, lentamente, qualcosa comincia a scattare: “Sì, la lotta antimperialista soprattutto… perché l’atteggiamento di noi repubblichini, ad esempio nei riguardi dell’imperialismo, era quasi più intransigente di quello dei vecchi comunisti. Devo dire che non è un caso se questo passaggio avvenne grazie a persone come Togliatti e Pajetta. Togliatti il 24 maggio 1947 al Teatro Adriano, a Roma, parlò molto chiaramente di chi era stato in buona fede credendo in certi ideali, come la socializzazione. Erano persone che avevano combattuto e quella fu un’intesa tra ex-combattenti. Altri non l’hanno capita, né allora, né mai; ma l’intesa ci fu e fu anche piuttosto proficua”. L’intesa di cui parla Vivarelli è quella raccontata anche in un libro di Paolo Buchignani, intitolato “Fascisti rossi”, che evidenzia come un gruppo di ex repubblichini, molti dei quali appartenenti alla Decima, passò al Partito Comunista.
Il passaggio al PCI arriverà, però, senza rinnegare la sua precedente adesione agli ideali fascisti. Come ebbe a scrivere Vivarelli nel 2001, sulle colonne de l’Unità, riferendosi al suo passato repubblichino: “Non riesco a vergognarmene anche se capisco benissimo, guardando le cose in una distante prospettiva storica, di aver combattuto dalla parte sbagliata. Se mi riporto ad allora, tuttavia, non mi sembra di aver sbagliato affatto”.
L’entrata ufficiale di Vivarelli nel Partito Comunista avverrà nel 1949: “Ho seguito il dettame del presidente Mao: ‘Cambiare è giusto’ e sono cambiato”. Da quel momento al PCI resterà sempre iscritto, fino allo scioglimento del partito, a seguito del quale seguirà gli scissionisti di Cossutta, contribuendo alla nascita di Rifondazione Comunista. Nel frattempo, grazie anche ad alcuni suoi legami con Cuba, aveva anche fatto domanda d’iscrizione al Partito Comunista di quel paese, ricevendone la tessera con la firma autografa del Lider Maximo, Fidel Castro, unico italiano della storia.
Tra rock e musicarelli
Dagli anni cinquanta, per Vivarelli comincia una nuova vita, che lo porterà a muoversi nel mondo della musica e del cinema, spesso riuscendo a fondere le due cose. Come disse negli anni novanta: “Sono sempre stato un cinefilo. A sette anni mi innamorai di Shirley Temple, ‘riccioli d’oro’, della quale sono ancora innamorato. A volte mia moglie sente dire: ‘Buonanotte amore mio, ti amo tanto!’ e crede che dica a lei, invece parlo a Shirley Temple, di cui ho la foto in cima al letto. Decisi così che, se volevo avere Shirley Temple, dovevo fare il cinema”.
Il cinema lo fece eccome. Ma prima ancora che di cinema si occupò di musica. Fu un paroliere, autore dei testi delle canzoni “24.000 baci” e “Il tuo bacio è come un rock” cantate da Adriano Celentano; scrisse per Mina “Vorrei sapere perché”; per Little Tony “Che tipo rock”; per Peppino Di Capri “Non siamo più insieme” e “Domani è un altro giorno”. Ideò il programma radiofonico “La coppa del Jazz” e fu anche il presidente della commissione selezionatrice delle canzoni del Festival di Sanremo.
Nel 1959 arriva il suo debutto alla regia con “Dai Johnny, dai!”, versione italiana di “Go, Johnny go!” con Adriano Celentano nel ruolo di se stesso e di narratore e con lo stesso Vivarelli che interpreta una parte come attore. È il momento di successo dei cosiddetti musicarelli, i film musicali, interpretati dai cantanti all’epoca più in voga. Vivarelli cerca di cavalcare l’onda sfornando titoli come: “Sanremo, la grande sfida” del 1960, “Io bacio… tu baci”, del 1961, con Mina e Umberto Orsini, ma soprattutto “Rita, la figlia americana”, del 1965, con Rita Pavone e un Totò, nelle inedite vesti di un capellone ye ye, che si esibisce sul palco coi Rokes. Come ebbe a dire la Pavone, pare che l’interesse di Vivarelli per lei fosse nato tempo prima, su suggerimento di Togliatti, che la considerava la sua cantante preferita.
Dai musicarelli ai B-Movie
Dopo avere anche scritto, nel 1966, la sceneggiatura di “Django”, lo spaghetti western che verrà molto amato da Quentin Tarantino, sul finire degli anni sessanta, l’interesse di Vivarelli passa dalla musica al mondo dei fumetti. Sarà lui a portare sul grande schermo alcuni dei personaggi delle strisce più in voga in quegli anni. Comincerà nel 1967 con “Mister X”, una sorta di ladro gentiluomo simile ad Arsenio Lupin. L’anno dopo è la volta di “Satanik”, la storia della Dottoressa Bannister, donna brutta e sfigurata che, grazie a un collega, scopre il siero per ringiovanire e, divenuta giovane e bellissima, inizierà una serie di omicidi per nascondere il suo segreto.
Proprio con “Satanik” comincia per Piero Vivarelli un avvicinamento al mondo dell’eros, che si concretizzerà nel 1970 con la realizzazione de “Il dio serpente”, storia erotica ed esotica girata ai caraibi, tra riti voodoo e passioni d’amore, in cui lavora una giovanissima Nadia Cassini, futura stella delle commedie sexy all’italiana degli anni settanta e ottanta. Nel 1972 sarà la volta de “Il Decamerone nero”, altro racconto intriso di erotismo ed esotismo, in cui Vivarelli metterà in immagini la sua smodata passione per le donne di colore, più volte dichiarata in modo piuttosto colorito nelle sue interviste, che lo porterà anche a sposare, in seconde nozze, l’attrice protagonista Beryl Cunningham.
Il periodo erotico di Vivarelli avrà un ultimo sussulto nel 1988 con “Provocazione”, storia di un professore chiamato su un’isola a dare ripetizioni a due giovani e belle ragazze, venendo da queste continuamente provocato sessualmente, film che ha per protagonista la pornostar Moana Pozzi. Ma sul finire degli anni settanta e i primi ottanta, comincia per Vivarelli anche una sorta di momento di riflessione autobiografica. Le sue opere registiche di quel periodo sono infatti “Nella misura in cui”, storia di un intellettuale di sinistra, ex repubblichino, che fugge ai Caraibi con l’amante del figlio, film in cui sono molto evidenti le diverse analogie con la reale vita del regista, oltre al documentario “L’addio a Enrico Berlinguer”.
La sua ultima opera registica sarà “La Rumbera”, del 1998, dedicata a una danzatrice cubana, in cui nuovamente Vivarelli apparirà anche come attore. Dopo aver pubblicato nel 1999 il suo primo e unico romanzo, dal titolo “Più buio che a mezzanotte non viene”, Piero Vivarelli si ritirerà in sordina dalla scena pubblica. La sua rocambolesca vita si concluderà a Roma, nel 2010, dove morirà all’età di 83 anni.