Il colonialismo e la Capitale
Nata subito prima della pandemia, con un tempismo che avrebbe steso più di qualcuno, l’avventura editoriale de Le Commari ha invece resistito, grazie a una forza paziente che sarebbe forse scontato ma non sbagliato attribuire alla connotazione di genere che accompagna la casa editrice già dal nome.
Arrivate all’ottavo libro (ma altri tre sono in via di pubblicazione), e intenzionate con fermezza a far uscire solo ciò che le convince davvero, Le Commari vantano ormai un catalogo sufficiente per poter essere suddiviso in collane. Succede, per esempio, con i “Quaderni di memoria civile”, di cui questo Roma coloniale, firmato da Silvano Falocco e Carlo Boumis, è il secondo titolo, dopo La Resistenza a Roma, degli stessi autori.
È un libro piccolo e prezioso, Roma coloniale, la cui ragione fondamentale sembra stare in una parola che incontriamo alla seconda riga della premessa: rimozione.
Rimuovere la rimozione, guardare in faccia le cose per come sono, è allora l’obiettivo semplice e limpido di un quaderno che ripercorre con capitoli brevi – veloci e precise illuminazioni su zone buie del passato nazionale – “la vicenda omicida e imbecille del colonialismo italiano”.
Si tratta, come è noto ma ampiamente dimenticato, di una storia che termina con la caduta del fascismo, ma che affonda le sue radici ben prima del regime: i settant’anni di occupazione coloniale italiana partono infatti dal 1882 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia e dal 1935 – qui sì, a fascismo più che avviato – in Etiopia.
Il libro di Boumis e Falocco li indaga a livello insieme profondo e superficiale, e se da un lato lo sguardo si spinge a documentare il passato, dall’altro ne osserva e ce ne fa osservare le tracce nel presente.
Eccola qui Roma, che sta nel titolo perché capitale politica da cui quell’orrenda esperienza è partita, e prima ancora in quanto mito imperiale di riferimento. Ma anche, se non soprattutto, come luogo che è ancora zeppo di strade, viali, piazze, obelischi, statue, targhe e addirittura cinema i cui nomi sono celebrazione di un delirio predatorio, quello coloniale, che è pagina quasi del tutto strappata di una memoria collettiva incardinata alla carezza antistorica del noto “Italiani brava gente”.
A queste tracce capillari, di cui spesso si ignora l’origine, Roma coloniale riconduce già dai primi capitoli, abbinando testimonianze e rapide escursioni storiche (ma non inganni la brevità: otto pagine di bibliografia sono lì a dire l’ampiezza dei riferimenti) al loro corrispettivo nella toponomastica cittadina.
Poi si concentra su questa, squadernando un elenco puntuale e sorprendente – dalla Garbatella al Trionfale, da Trastevere a Casalbertone e, ovviamente, al quartiere Africano – di omaggi su marmo alla pratica coloniale, che ha in piazza dei Cinquecento il suo evidente capolinea.
Sbaglieremmo di grosso a pensare di schierare Roma coloniale nella squadra di chi promuove la cosiddetta “cultura della cancellazione”. Questo piccolo libro, letto il quale lo sguardo su Roma si nutre suo malgrado di elementi nuovi, vuole fare l’esatto contrario: non intende cancellare niente, chiedendo però che la memoria non venga rimossa, che le cose siano chiare, che la città conosca sé stessa e i suoi molti nomi. E possa magari, per giustizia, aggiungerne qualcuno diverso.
In questo senso il lavoro dei due autori, che per inciso al passato coloniale e alla sua rimozione legano la persistenza di un razzismo cui paghiamo ancora conti salati, è insieme ricostruzione storica, sguardo sul presente ed esercizio di cittadinanza attiva.
Si fondono, i tre elementi, in una prosa civile che si prende anche la briga di indicare una direzione. E diventa in questo senso, soprattutto, atto d’amore per la città.