La Roma disobbediente e ribelle

Mai vorremmo trovarci nella triste condizione di dover scegliere tra la propria vita e la libertà, eppure è quanto a volte gli eventi della Storia costringono gli esseri umani, una scelta che in tal senso è di carattere morale.
In queste circostanze, non ci sono solo gli eserciti, ma anche i civili che lasciano la loro routine quotidiana e imbracciano il fucile. Non è facile, e non tutti lo fanno, anche comprensibilmente.

In queste settimane abbiamo l’esempio del popolo ucraino. In passato Roma stessa, con la lotta partigiana, ne è stata un esempio straordinario. Una città “disobbediente e ribelle” scrivono Silvano Falocco e Carlo Boumis, in La Resistenza a Roma. Orazione civile, edito da Le Commari, che racconta con un ritmo serrato luoghi e persone che dal luglio del 1943 sino all’arrivo degli americani resero epici quei giorni. Il tempo passa e i nomi di quegli uomini e quelle donne che fecero l’impresa di combattere con tutti i mezzi nazifascisti, pur essendo segnati nei cartelli delle vie delle città, perde di consistenza.

La memoria si fa breve, per questa ragione il ritmo serrato di questo piccolo libro (poco più di 90 pagine, al costo di 10 euro), con protagonisti e avvenimenti, ci permette di ricollocare via Raffale Persichetti a Porta San Paolo, lì dove in fretta e furia, dopo l’8 settembre, i partigiani si scontrano con i tedeschi. Chi era Raffaele Persichetti? Insegna storia dell’arte al Liceo Visconti. È vicino al Partito d’Azione e capisce che non può stare a guardare. Morirà colpito da un carro armato Tigre. Sempre lì c’era Carla Capponi, gappista di 25 anni, che alla madre deve spiegare come resistere non sia una faccenda per solo uomini. E alla Montagnola, davanti alla chiesa del Gesù Buon Pastore, c’è don Pietro Occelli che dà sostegno morale e materiali ai combattenti. Muoiono in 12. Saranno i Caduti della Montagnola. Tra le altre cose, don Pietro formò la prima banda partigiana cristiana.

In quei primi di giorni cercando di difendere Roma, scrivono gli autori, persero la vita in 600. Il numero delle vittime che si sommano in quel periodo è impressionante. Dovremmo averli chiari. Più che nelle cerimonie istituzionali, dovremmo averli nel cuore. Ricordare che il mese di dicembre del ’43 per i GAP (Gruppi di Azione Patriottica formati dal Partito Comunista) e la Resistenza romana, fu un mese di fuoco e di azioni armate: “si esce di casa con l’arma in tasca, in coppia con un compagno o una compagna, si va tra la gente, si passeggia osservando le vetrine, ma quando si incrocia un fascista, un repubblichino o un nazista, si spara”.
Scegliere di resistere con la violenza senza farne un mito. Gli autori riportano la testimonianza del gappista Rosario Bentivegna: “affrontarsi uomo a uomo è duro, ed è inutile dire ‘è un tedesco’ o ‘è un fascista’; in colui che avevo davanti, anche se era il nemico, non potevo fare a meno di ritrovare parte della mia umanità, di riconoscere un uomo; per questo, ogni volta che ho dovuto sparare, è stata una pena”.

Roma in quegli anni è stata bombardata. Il 19 luglio del 1943 il quartiere di San Lorenzo, il Prenestino, il Tiburtino, il Tuscolano. Furono sganciate circa 4.000 bombe. I morti furono 3.000, 11.000 i feriti, 41.000 persone rimasero senza casa.
Dopo quel primo bombardamento ne seguirono altri 51, fino alla Liberazione. Bombe alleate. Scrivono in proposito Falocco e Boumis: “La storia è strana. Ti fa alleare con chi ti bombarda per combattere chi ti tortura. E tu lo fai. (…) Chi vola sulla tua testa non po’ preoccuparsi ora se tu stai in basso: è lì che bisogna che esplodano le bombe. Tu allora aspetti di poter volare, e magari raggiungere un’altra storia, che sia lontana dalla tua miseria”.

 

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