La donna che sparò a Mussolini

Violet Albina Gibson era una ricca signorina irlandese e viveva a Roma da un paio di anni. Ne aveva già cinquanta quando, il 7 aprile 1926, sparò a Mussolini sulla piazza del Campidoglio, davanti al Palazzo dei Conservatori, quello a destra del Marco Aurelio, oggi sede dei Musei Capitolini. Lo colpì di striscio sul virile nasone, pur sparando da molto vicino. Lui usciva da un convegno internazionale di chirurghi in corso all’interno del palazzo e venne dunque immediatamente medicato. Lei fu sottratta a fatica a un tentativo di linciaggio, arrestata e portata prima nel carcere delle Mantellate poi in manicomio, a Santa Maria della Pietà, dove venne tenuta in isolamento strettissimo. 

La donna accusò gli psichiatri di essere fascisti, ed essi in effetti nei loro minuziosi rapporti sottolinearono l’anormalità di questa irlandese che non era mai stata madre e aveva vissuto una sessualità libera, e certificarono che era affetta da “paranoia cronica”. 

I giornali parlarono di Violet come di un’eccentrica, fanatica, isterica, isolata. Per di più straniera.

Il 9 aprile, due giorni dopo, Mussolini partì con un vistoso cerotto sul viso per la Libia, dove l’Italia cercava in maniera rocambolesca e sanguinolenta un posto al sole nelle colonie. Da consumato manipolatore, Benito Amilcare Andrea non perse l’occasione di farsi ritrarre in numerose foto con i segni dello sparo in bella vista. Papa Pio XI scrisse al duce una lettera di congratulazioni per lo scampato pericolo.

Il 3 ottobre 1926 – giorno di un altro attentato fallito a Mussolini, quello compiuto a Bologna dal giovanissimo anarchico Anteo Zamboni – un tribunale speciale sancì che Violet Gibson non era in grado di intendere e volere nel momento in cui aveva sparato. Affermare che il suo gesto era il frutto del delirio solitario di una vecchia pazza straniera serviva al fascismo più dell’ipotesi di un’opposizione organizzata alla dittatura. 

Ancora oggi non è chiaro se quella di Gibson sia stata davvero un’azione isolata, o se invece la donna non avesse abilmente protetto dei complici.

Violet Gibson venne espulsa e spedita in Inghilterra. Alla stazione di Londra, appena scesa dal treno, due medici la presero in consegna per portarla in un altro ospedale psichiatrico. Non mostrò mai rimorso per il suo gesto, ma chiese più volte di poter lasciare il manicomio, anche scrivendo alla giovane regina Elisabetta e a Winston Churchill. Vi rimase rinchiusa per trent’anni, fino alla morte avvenuta nel 1956. 

Ricordiamo la sua storia come un primo coraggioso segnale della grande lotta al fascismo che verrà.

 

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