Via Giulia, la santabarbara dei partigiani
Via Giulia è una delle strade più belle di Roma. Voluta da Giulio 11, da cui il nome, corre dritta tra Ponte Sisto e la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Sul liscio selciato si affacciano i giardini di Palazzo Farnese, fontane, chiesette e splendidi palazzi: uno dei quali progettato da Bramante e mai portato a termine — se ne riconosce l’intenzione in un notevole bugnato in pietra nell’angolo di un lotto — sarebbe dovuto essere il Palazzo dei Tribunali.
Proprio questa strada, insieme del resto a molte altre della parte storica di Roma, è stata scelta dai partigiani come sede clandestina di una “santabarbara”, la patrona degli artiglieri utilizzata per indicare anche i laboratori e i magazzini di armi. Qui due eroi comunisti della Resistenza, Giorgio Labò e Gianfranco Mattei, lavorarono senza tregua per confezionare armi e bombe necessarie alla resistenza armata gappista della città contro l’occupazione tedesca. Il 10 febbraio 1944, traditi da una spia fascista che ottenne in cambio cinquemila lire, verranno entrambi arrestati dalle ss e rinchiusi nelle carceri di via Tasso.
La targa che trovate sopra il civico 23/A ricorda come “eroico” il loro silenzio nonostante le indicibili torture: Mattei si diede la morte in carcere per paura di non resistere e di denunciare i compagni, Labò venne fucilato a Forte Bravetta il 7 marzo 1944, tanto esausto nel fisico quanto integro nella coscienza.
Entrambi avevano una formazione universitaria: Mattei, milanese, a 27 anni era un giovanissimo professore universitario di chimica al Politecnico di Milano, assistente del futuro premio Nobel Giulio Natta, ma interruppe la carriera accademica perché fu incaricato da Giorgio Amendola di mettere a frutto le sue conoscenze scientifiche per organizzare la “santabarbara” dei Gap romani.
Labò, genovese, aveva 24 anni ed era un promettente e appassionato studente di architettura sempre del Politecnico, dove era impegnato in ricerche inedite su Alvar Aalto e su Antonio Sant’Elia; divenne poi sergente del Genio specializzato all’uso delle mine, per passare dopo 1’8 settembre nelle file partigiane di Poggio Mirteto, in provincia di Rieti.
Il professore di chimica e l’architetto artificiere erano fatti per completarsi. Insieme, a Roma, riuscirono a costruire bombe artigianali con mezzi di fortuna ma con infinito ingegno, un ingegno partigiano e politico, distante dalla freddezza della tecnica così spesso imparziale e collusa.
Dopo l’arresto dei due, la sorella di Gianfranco, Teresa Mattei, una volta saputo erano stati portati a via Tasso, chiese per il fratello l’intercessione delle autorità vaticane. Il giovane monsignor Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, sostituto della Segreteria di Stato vaticana e amico della nonna dei Mattei, Teresita Friedmann, inviò da parte di Pio XII ai comandanti del carcere una lettera di supplica per salvare la vita a Gianfranco, la affidò a un vecchio frate tedesco, padre Pancrazio Pfeiffer. Il frate consegnò la lettera a Kappler che la strappò senza neanche aprirla. Disse solo: “Priebke farà parlare con i mezzi fisici e chimici questo comunista terribilmente silenzioso”.
Priebke non raggiunse il suo scopo. Per paura di non resistere alle torture Gianfranco Mattei il 7 febbraio 1944 si impiccò in cella. Sul retro di un assegno che gli era stato dato alcuni giorni prima dal professor Natta scrisse il suo toccante addio alla famiglia: “Carissimi genitori, per una disgraziatissima circostanza di cui si può incolpare solo il fato avverso, temo che queste saranno le mie ultime parole. Sapete quale legame di affetto ardente mi lega a voi, ai fratelli e a tutti. Siate forti sapendo che lo sono stato anch’io. Vi abbraccio”. Solo il 16 agosto 1945, dopo 18 mesi di ricerche, i genitori riuscirono a ritrovare il corpo di Gianfranco. In un registro dell’obitorio nel cimitero di Prima Porta scovarono una scheda su cui era appuntato: “Sconosciuto. Età apparente 32 anni. Proveniente da via Tasso, Comando tedesco, entrato il 4/2/44, uscito per essere inumato a Prima Porta il 19/2/44. Causa di morte: asfissia per impiccagione”. Gli erano state strappate le unghie.
Di Labò, Antonello Trombadori, capo diretto e amico, disse: “Giorgio era il capo artificiere dei Gap. Uscivano dalle sue mani e dalla sua instancabile operosità e fantasia gli strumenti che resero possibile, nelle condizioni più difficili, il combattimento contro l’oppressore”. Da partigiano e fabbricatore clandestino di bombe compì innumerevoli azioni di sabotaggio tra cui si distinguono, per importanza strategica e non solo per il rischio, sempre gravissimo, quelle a un ponte e a un treno. A via Tasso lo tennero diciotto giorni con le mani e i piedi strettamente legati. A ogni domanda rispondeva: “Non lo so e non lo dico”.
Il padre di Giorgio, Mario Labò, stimato architetto, venne a Roma a cercare il corpo del figlio, dopo essere stato avvisato da Giulio Carlo Argan – futuro sindaco di Roma – al quale Giorgio aveva destinato la sua ultima memoria, dettata al cappellano che assisteva alle esecuzioni: “Labò Giorgio di Mario, nato a Modena il 29 maggio 1919, studente in architettura. Andare dal Prof. Argan, […] pregarlo di informare la famiglia che lui è passato con la massima serenità”.
Nello splendido libricino “Un sabotatore: Giorgio Labò”, pubblicato nel 1946, dove sono raccolti i diari e le testimonianze di quei giorni e di quelli passati, Mario riporta le parole del figlio dette a un’amica, strette in una dolorosa confidenza: “Lei crederà che io sia nato per questa vita. Ma io non penso che all’architettura, non sogno che l’architettura. Eppure, quel che c’è da fare oggi, è questo che faccio”. La sua ribellione si nutriva dello sguardo modernista di giovane architetto, dentro l’esperienza del popolo in lotta e dentro la dignità del proprio mestiere, a servizio della costruzione di un mondo migliore.
DA LEGGERE:
AA.VV., “Un sabotatore: Giorgio Labò”, Milano, La Stampa Moderna, 1946.
Anthony Majanlahti e Amedeo Osti Guerrazzi, “Roma occupata 1943-1944. Itinerari, storia, immagini”, Milano, Il Saggiatore, 2010.
Pietro Boragina, “Vita di Giorgio Labò”, Torino, Aragno, 2011.
Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (a cura di), “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. 8 settembre 1943-25 aprile 1945”, Torino, Einaudi’ 2005.
[La foto del titolo, tratta dal sito Patria Indipendente, Roma, è stata scattata l’8 settembre 1943: nella zona Eur-Montagnola un’aautoblindo italiana della divisione “Piave” viene colpita da un anticarro tedesco]
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