Perché hanno ragione Calenda & Michetti. E Gualtieri
Dal 1993 andiamo a votare per eleggere direttamente il sindaco. La possibilità di indicare chi dovrebbe guidare la città, di scegliere la persona oltre che lo schieramento, è sempre piaciuta agli elettori, e l’astensione crescente degli ultimi anni – e di queste ultime elezioni romane in particolare – non riguarda tanto il meccanismo della legge, quanto il giudizio che i cittadini danno della politica attuale.
Il sindaco ha diversi poteri, che in parte ha sottratto – grazie alla legge del ‘93 – al consiglio comunale. E ha un peso maggiore rispetto al passato nella politica nazionale.
Se la stessa legge consente agli elettori il voto disgiunto, cioè di poter scegliere contemporaneamente un candidato sindaco e un partito che fa parte di un altro schieramento, è proprio per sottolineare l’importanza della figura, della persona. Ed è proprio per questo che le critiche alle dimissioni annunciate di Carlo Calenda (che poi le ha momentaneamente congelate) ed Enrico Michetti dal consiglio comunale sono ingiuste.
Calenda, che della politica ha una idea efficientistica e manageriale che in qualche occasione abbiamo criticato, lo aveva detto da tempo: voglio diventare il primo cittadino, non un consigliere comunale. Queste elezioni, comunque, sicuramente gli hanno dato visibilità a livello nazionale. A lui e al suo partito, Azione; e hanno consentito alla sua lista per il consiglio comunale di essere la più votata.
Vedremo cosa faranno i consiglieri eletti, se si comporteranno davvero come un gruppo oppure se andranno ognuno per la propria strada, dopo l’abbandono del leader. Ma l’obiettivo di Calenda, che è anche parlamentare europeo (e non troppo presente alle sedute, a quanto pare) era chiaro: fallito quello, la sua presenza in consiglio comunale davvero sarebbe risultata inutile. E non sembra che i suoi elettori se ne lamentino più di tanto.
Forse è stato meno chiaro sulle proprie intenzioni Michetti, le cui dimissioni sembrano anche una questione di equilibri interni della destra romana: ma lasciare il Campidoglio, dove ha perso la sfida per la poltrona più alta, è un suo diritto.
Più che criticare coloro che si dimettono dopo aver perso la sfida sulla guida della città, bisognerebbe preoccuparsi piuttosto di quei sindaci che si dimettono in anticipo dal proprio incarico nella speranza di andare a fare il ministro, il premier o altro. Perché è questo soprattutto che infastidisce gli elettori. E Roma ha un precedente, in questo senso, in un apprezzato sindaco di centrosinistra: Walter Veltroni (questo, forse, è uno degli effetti perversi della legge dell’elezione diretta del sindaco,cioè creare aspettative di ascesa nazionale nei sindaci più popolari: ma la politica nazionale ha altre dinamiche).
La questione degli stipendi
Un’altra questione legata alle ultime elezioni è quella degli stipendi dei sindaci e degli assessori, e in generale del personale politico locale. Il governo Draghi ha inserito nella manovra – ma il provvedimento non è ancora scattato – un aumento sostanzioso per i sindaci (in particolare si tratta del raddoppio di stipendio per i primi cittadini delle aree metropolitane) e per gli assessori. Si parla di aumenti futuri anche per i consiglieri comunali. Qualcuno – i sostenitori dell’ex sindaca Virginia Raggi – a Roma ne ha già fatto oggetto di lotta politica per dire che sono tornati i “forchettoni”. Prendendosela con l’attuale sindaco, Roberto Gualtieri, reo di aver detto che con stipendi troppo bassi è difficile attirare persone di prestigio e capacità.
L’idea che i politici e gli amministratori locali non vadano pagati, o vadano pagati il meno possibile, che il finanziamento pubblico sia da abolire, deriva dal giudizio che “la politica fa schifo”, che “i politici sono tutti ladri” etc etc. Fino a oggi non ha prodotto grandi risultati, né di risparmio né di qualità del personale politico.
Ma è anche giusto dire che non è vero che ripristinando semplicemente il finanziamento pubblico dei partiti e stipendi più alti per incarichi elettivi diminuisce la corruzione e aumenta la trasparenza. La storia di Tangentopoli sta lì a dimostrarlo.
Invece di continuare a pensare di “ammazzare” o di “affamare” i politici, sarebbe il caso di pagare il giusto le persone che occupano posti di responsabilità e finanziare anche la politica, ma con regole, meccanismi e soprattutto controlli stringenti
Nel frattempo, dal 2013 (governo Letta) il finanziamento pubblico non esiste più, mentre si sono moltiplicati think thank, fondazioni e associazioni politiche (sono oltre 100) che fanno capo a singole personalità, o a correnti di partiti, o sono trasversali. Oppure, gruppi senza politici ufficialmente alla guida, ma di fatto legati a partiti.
Con la legge anticorruzione del primo governo Conte è arrivata più trasparenza nel settore, ma queste associazioni ora possono anche ricevere contributi dall’estero, a differenza dei partiti. E se si può sapere chi ha formalmente pagato per la propaganda online, per esempio, non possiamo invece sapere se qualcuno ha passato denaro a un prestanome per farlo.
Invece di continuare a pensare di “ammazzare” o di “affamare” i politici, sarebbe il caso di pagare il giusto le persone che occupano posti di responsabilità e finanziare anche la politica, ma con regole, meccanismi e soprattutto controlli stringenti. Si tratta di un “male necessario”, perché altrimenti la politica rischia di diventare appannaggio definitivamente di pochi ricchi (o di persone prezzolate) e di interessi poco chiari. Ma per farlo, bisogna smetterla con il populismo caciarone che va a braccetto con la politica delle élite senza controllo.