Good Bye, Giolitti!
Nonostante si votasse in ben due giorni, domenica 17 e lunedì 18 ottobre, a Roma solo il 40,68% degli aventi diritto si è recato alle urne per il ballottaggio delle elezioni amministrative 2021. Se si tiene in considerazione l’insieme della popolazione romana, la percentuale scende a circa il 28% degli abitanti della Capitale. Curiosamente è una percentuale quasi identica, nei confronti della popolazione, rispetto a quella che, oltre un secolo fa, partecipò alle prime elezioni avvenute dopo l’introduzione in Italia del suffragio universale, a seguito della riforma Giolitti del 1912: le elezioni politiche del 1913 e quelle amministrative del 1914, che elessero a Roma, come sindaco, il principe Prospero Colonna.
Eppure, la riforma Giolitti non aveva introdotto un vero e proprio suffragio universale: c’erano ancora alcune norme che, di fatto, escludevano dal voto gli analfabeti e i nullatenenti; il limite di età per votare, salvo rare eccezioni, era fissato a oltre 30 anni e, soprattutto, non erano ammesse al voto le donne. Il numero dei votanti raddoppiò nel 1946, quando, dopo la caduta del fascismo, per la prima volta furono portate a votare persone di entrambi i sessi. La percentuale di votanti in Italia rimase, da allora, tra le più alte del mondo, fino a tutto il ventesimo secolo, salvo cominciare lentamente a calare nel nuovo millennio, complice anche l’introduzione del sistema maggioritario in sostituzione di quello proporzionale, con parte della popolazione che iniziava a non sentirsi più rappresentata dai principali schieramenti e avvertiva come ormai velleitario il voto ai partiti minori.
Nonostante quel calo, mai si erano toccate percentuali così basse, come nel caso delle amministrative di quest’anno. Questo, ovviamente, non toglie nulla alla vittoria di Roberto Gualtieri. D’altronde la forza e il prestigio di un sindaco non si è mai misurata sulla base del numero di votanti.
Ho citato prima le elezioni amministrative del 1914. Guarda caso, l’ultimo dei sindaci eletti a suffragio ridotto, prima della riforma Giolitti, cioè Ernesto Nathan, ha goduto in vita e gode tutt’ora di una gloria ben maggiore di quella del primo sindaco eletto a suffragio universale, quel Prospero Colonna che visse con enorme difficoltà il proprio ruolo. Il principe Colonna, nel suo primo mandato, fu infatti costretto a dimettersi anticipatamente, poiché in dissenso proprio con Giolitti sull’ipotesi di portare a Roma i giochi olimpici (vi ricorda qualcosa? Niente di nuovo sotto il sole, a quanto pare…) e nel secondo si trovò di nuovo in difficoltà, dovendo fare fronte a una crisi mondiale come quella scatenata dallo scoppio della Grande Guerra.
Cosa ha portato i romani a snobbare in massa, stavolta, la cabina elettorale? Forse è ancora presto per fare un’analisi dettagliata del problema. C’è chi accusa di questo lo scarso appeal dei candidati in lizza, chi invece punta il dito sulla polarizzazione dello scontro politico per le amministrative, che poco ha riguardato i reali temi inerenti la gestione della città, concentrandosi, soprattutto nelle ultime settimane, su scontri ideologici di carattere generale: Green Pass sì o no, fascismo e antifascismo, ecc. Può darsi che questo abbia inciso, ma c’è anche da dire che questo meccanismo non è del tutto nuovo e che in passato non aveva provocato come conseguenza una disaffezione di massa da parte dei cittadini.
È fin dai tempi dei guelfi e dei ghibellini, infatti, che la battaglia politica nei comuni italiani non si fa su temi locali, ma su presunti scontri ideologici di natura globale. Venendo a tempi decisamente più recenti, anche la lotta fra PCI e DC degli anni settanta e ottanta, quella che portò alla stagione dei sindaci di sinistra Argan, Petroselli e Vetere, non fu combattuta su questioni meramente capitoline, ma soprattutto sui massimi sistemi, sui temi che riguardavano le visioni del mondo e della società di cui i partiti dell’epoca erano rappresentanti. Eppure, in quegli anni, nessuno disertava per questo le urne e a votare andava comunque la quasi totalità degli aventi diritto.
La rinuncia al Novecento
Proseguendo una rapida analisi storica del fenomeno, c’è da considerare che, al di là della retorica propagandistica filo-democratica dei vari partiti e schieramenti, quasi nessuno, nei fatti, ha mai amato davvero una larga partecipazione popolare al voto, quando questa larga partecipazione poteva mettere in crisi la propria parte politica. Questo è stato vero non solo durante il ventennio fascista, quando di fatto il voto popolare fu eliminato, ma anche in altre epoche storiche e da parte di schieramenti politici opposti.
Ad esempio, se la riforma Giolitti del 1912 non prese mai in considerazione la possibilità di dare il voto alle donne, ciò fu dovuto non tanto al forte maschilismo dell’epoca, quanto all’opposizione ferma del Partito Socialista Italiano, che vedeva nel voto alle donne un possibile favore concesso ai partiti clericali e conservatori, che nella popolazione femminile godevano di un largo favore.
Qualche anno prima, ai tempi del re Vittorio Emanuele II, quando a formare il governo fu la sinistra storica, di fronte a progetti di legge considerati dal sovrano troppo progressisti, una delle armi di ricatto usate dal re, se non si fossero stemperati gli aspetti troppo innovatori di alcune leggi, era proprio quella di minacciare la concessione del suffragio universale, ben sapendo che la sinistra avrebbe visto come fumo negli occhi quella ipotesi. A sinistra, infatti, si riteneva che il suffragio universale avrebbe di certo premiato le destre e si era ben felici che a scegliere i membri del parlamento fosse solo il 7% della popolazione, quella più benestante e più istruita, che solitamente preferiva i candidati progressisti.
A guardare i dati elettorali romani di oggi, quel modello politico e culturale pare essere tornato di attualità, con i Parioli che vanno a votare con la percentuale di elettori più alta di tutta Roma – premiando il centrosinistra – mentre una periferia popolare come Tor Bella Monaca disdegna le urne, con due elettori su tre che non fanno nemmeno la fatica di recarsi al seggio per tirare fuori il certificato elettorale. Una periferia popolare che, unica in città, sceglie il centrodestra.
Sembrerebbe quindi, a guardare questi esempi, che si stia tornando verso un modello politico di stampo ottocentesco, con la gestione della cosa pubblica limitata a una questione da risolvere all’interno delle élites finanziarie e culturali, senza una vera partecipazione di massa delle classi subalterne, le quali, disertando le urne, sembrano avere scelto di autoeliminarsi dal dibattito politico in modo spontaneo e volontario.
È un modello che, tutto sommato, ha funzionato bene nel corso del diciannovesimo secolo e potrebbe, dunque, essere di nuovo funzionale anche due secoli dopo. Si tratta di un modello che, al momento, mantiene ancora il titolo formale di “democrazia” – cioè governo di popolo – senza averne più, fino in fondo, le caratteristiche intrinseche. Non a caso, ai tempi di Vittorio Emanuele II, per tutti, anche a sinistra, l’aggettivo “democratico” aveva un suono inquietante e un’accezione negativa. Un po’ l’equivalente dell’attuale termine “populista”.
La ricomparsa di quel modello politico ottocentesco significa ovviamente la rinuncia a molti degli elementi innovativi comparsi nel corso del ventesimo secolo e di cui proprio Giolitti fu, in Italia, uno dei massimi artefici e dei migliori esempi. Fu lui a ricondurre nell’alveo della pacifica dinamica parlamentare i movimenti di massa cattolici e socialisti, che, fino ad allora, avevano mantenuto caratteri sovversivi. Questo gli valse l’accusa di essere una sorta di Giano bifronte, borghese e proletario, cattolico e mangiapreti, a seconda delle convenienze. Ma questo suo “cerchiobottismo”, che comunque riconosceva a tutti una dignità politica, senza più demonizzazioni dell’avversario, permise all’Italia di fare grandi passi avanti sul piano della pacificazione interna, dello sviluppo economico e del prestigio internazionale.
La fine dell’epoca giolittiana coincise invece con una ripresa dello scontro politico violento, tutto giocato al di fuori dagli schemi parlamentari. Prima quello, di piazza, fra neutralisti e interventisti della Grande Guerra. Poi, a guerra finita, quello fra socialisti, borghesi e fascisti, con l’esplosione del biennio rosso prima e delle violenze squadriste poi. L’Italia precipitò in uno dei periodi più oscuri e nefasti della propria storia.
Rinunciare a Giolitti, cento anni fa, di fatto non porto bene al paese. E oggi? Per fortuna la storia non si ripete mai perfettamente uguale a se stessa.
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