Stazione Marincola e altre genuflessioni

Chi ostenta stenta. Non può che cominciare così questa mia riflessione, che probabilmente urterà la sensibilità di qualcuno e farà arricciare il naso a qualcun altro. Sì, chi ostenta stenta e, in questa perla di saggezza popolare, c’è già tutta l’essenza di ciò che sto per dire in merito alla questione.

Una questione riportata alla ribalta dalle recenti polemiche sull’inginocchiamento dei giocatori della nazionale italiana all’inizio delle partite dell’europeo di calcio, in segno di adesione alle battaglie del cosiddetto “Black lives matter”. Un movimento che, chissà perché, viene chiamato rigorosamente sempre in inglese – dandogli in tal modo un’aura oscura e minacciosa – e non con un più chiaro e netto “Le vite dei neri contano”, traduzione italiana che forse gli procurerebbe maggiori simpatie nella nostra penisola.

Quando, prima dell’inizio di Italia-Galles, solo metà dei componenti della nazionale azzurra si sono inginocchiati, anziché compiacersi per quell’immagine – a mio avviso – estremamente positiva, che offrivano al mondo gli italiani, cioè quella di una nazionale e di una nazione libera di scegliere, premessa che dava anche più peso e valore al gesto di chi s’inginocchiava – facendolo per autentica convinzione e non per compiacere il governo, la federazione, o gli sponsor – subito sono scattate le polemiche politiche.

In un clima culturale in cui si avverte una crescente ostilità verso le differenze – non solo quelle etniche – verso la libertà di pensiero e d’azione e in cui l’attenzione è ormai tutta sulla forma e ben poco sulla sostanza delle cose, dal centrosinistra si è subito alzata l’esplicita richiesta di un inginocchiamento “obbligatorio” per tutti i componenti della nazionale italiana. E se dal centrodestra non è arrivata un’esplicita richiesta di segno opposto, non è per maggiore spirito liberale di quella parte politica, bensì per la semplice paura di essere poi etichettati come “razzisti”, in caso di aperto diniego alla genuflessione.

Da entrambe le parti, dunque, si sono evidenziati due modi diversi, ma ugualmente ipocriti, di ostentare un antirazzismo tutto e solo di maniera, nella speranza di vedere i giocatori allineati come un sol uomo alle proprie idee. Dimentichi del fatto che la potenza del guanto nero di Tommie Smith alle olimpiadi del 1968, fu tutta nell’individualità del gesto, inatteso e non concordato con le autorità del CIO o con la presidenza degli Stati Uniti. Così come fu per le magliette rosse, indossate a sorpresa da Panatta e Bertolucci nella finale di Coppa Davis, in segno di protesta contro il Cile di Pinochet.

Nel profluvio di contrapposte retoriche, un ulteriore paradosso a cui si è assistito in questi giorni, è stato poi quello di vedere raccontata, nelle bacheche di molti esponenti politici e simpatizzanti di sinistra – per avvalorare la tesi dell’inginocchiamento obbligatorio per tutti i giocatori della nazionale – la vicenda di Bruno Neri, calciatore degli anni trenta e futuro eroe partigiano, che, negli anni del fascismo, rifiutò di fare il saluto romano prima delle partite.

Dunque, con un inconsapevole autogol, è stato preso ad esempio, da parte di chi chiedeva d’imporre a tutti un gesto politico e simbolico uniforme, proprio colui che – giustamente – rifiutò di fare quanto era stato imposto a tutti dalla politica della sua epoca. E rifiutò, perché imporre ai giocatori un qualunque gesto “di massa”, in favore di telecamera, è solitamente una richiesta propria dei regimi e delle ideologie illiberali, come fu quella del ventennio.

Il risultato finale della polemica, cioè quello che, prima della successiva partita Italia-Austria, nessun giocatore si sia più inginocchiato e che, probabilmente, le future scelte sulla genuflessione saranno demandate alla squadra avversaria, a cui l’Italia si accoderà per rispetto, pur dichiarando di non essere d’accordo col gesto, dovrebbe fungere da efficace campanello d’allarme sui risultati concreti che provocano certe battaglie simboliche, quando vengono portate avanti in modo ottuso e propagandistico, ottenendo spesso, per reazione, l’effetto contrario a quello desiderato. Temo, però, che nessuno imparerà la lezione.

Da Amba Aradam a Giorgio Marincola

La vicenda dell’inginocchiamento della nazionale, ha proprio qui a Roma, infatti, un nobile precedente, datato estate 2020 – esattamente un anno fa – quello relativo all’intitolazione a Giorgio Marincola della futura stazione della metro C, posta in via dell’Amba Aradam e che, originariamente, doveva chiamarsi, per l’appunto: “Stazione Amba Aradam”.

In una Roma sfibrata dalla pandemia, col centro storico desertificato dall’assenza di turisti, le persone esacerbate dal lungo lockdown e alcune categorie di cittadini in forte difficoltà economica, improvvisamente, all’inizio della scorsa estate, si scoprì che quel nome “Amba Aradam” – che da oltre ottant’anni non suscitava alcuno scandalo fra i romani, accompagnandoli come una sorta di curioso scioglilingua – era un nome vergognoso, simbolo di un luogo in cui i nostri compatrioti avevano massacrato, nel corso di una guerra, numerosi etiopi.

Corretto. È pur vero che lo stesso potrebbe dirsi per nomi come via Solferino, via Goito, via Vittorio Veneto, via Isonzo, via Lepanto, tutti luoghi di sanguinosi massacri, con migliaia di austriaci, sloveni, turchi, trucidati crudelmente da mani italiche, i cui morti, nel corso di altre guerre, non è chiaro perché dovrebbero essere considerati morti di serie B rispetto ai poveri etiopi. Ma tant’è.

Altra cosa poco chiara, è il perché lo scandalo fosse solo nell’intitolazione della nuova stazione della metro C, mentre nessuno abbia proposto di modificare anche il nome di via dell’Amba Aradam.
Se quel nome “Amba Aradam” è da considerarsi scandaloso, forse andrebbe cancellato ovunque, non un po’ sì e un po’ no. Ma la logica e la coerenza, quando interviene l’ostentazione dell’antirazzismo di maniera, spesso scompaiono e così, il nome della via, per ragioni misteriose, ha ottenuto una sorta di “salvacondotto”.

Tutti gli strali, dunque, si sono concentrati contro la futura fermata della metropolitana, etichettata – a differenza dell’omonima strada – come “razzista”. Una volta identificato il presunto “mostro” – la stazione Amba Aradam – e sbattuto quel mostro in prima pagina, nel bel mezzo dell’infuocata polemica estiva, ci ha pensato, a quel punto, l’intellighenzia radical-chic a trovare una soluzione apparentemente perfetta – se guardata con uno sguardo superficiale – atta a risolvere la questione.

Il giornalista Massimiliano Coccia, firma de l’Unità, de l’Espresso, di TPI e collaboratore di Radio Radicale, uno che a Roma ci è nato ma non ci vive più da molti anni, in un radicalchicchissimo afflato di chi propone soluzioni ben calate dall’alto, per luoghi e cose che non sperimenta più nella quotidianità, ha proposto d’intitolare quella fermata a Giorgio Marincola, partigiano di colore. Subito gli ha fatto eco un altro intellettuale che con la Capitale ha scarsissimi legami – nel suo caso nemmeno di nascita e affettivi – come Roberto Saviano.

A quel punto, per paura di vedersi affibbiare l’etichetta di “fascista” e di “razzista”, cosa che nessuno vuole sulla propria testa, ecco che sono scattati applausi quasi unanimi per la proposta. Unica voce fuori dal coro, quella di Monica Lozzi, ex M5S, oggi candidata sindaca alla guida di una lista civica, guarda caso una che a Roma ci vive, ci lavora e i cui problemi, nel suo ruolo di presidente del VII Municipio, è costretta ad affrontarli nel concreto, non solo in teoria.

“L’intitolazione della fermata a Giorgio Marincola – provò a dire Monica Lozzi – rimuovendo il nome di Amba Aradam, non ha nessuna congruità con la toponomastica del luogo. Se noi scriviamo sulla Metro fermata Marincola, senza dare nessuna indicazione sul luogo dove si va a scendere, le persone che vengono da fuori possono essere tratte in inganno. Non c’è nessuna opposizione sul nome di Marincola. Nessuno nel Municipio VII è fascista, siamo antifascisti e lo rivendichiamo nei fatti. Però poniamo un problema pratico”.

Ovviamente, è bastata questa obiezione, che – a mio avviso – appare decisamente sensata, per far subito dipingere, da parte di alcuni media, una Monica Lozzi col fez e in camicia nera, pronta a lanciare il suo Municipio VII alla conquista dell’Africa Orientale. Da quel momento, guarda caso, quasi nessuno ha osato più proferire parola contro l’intitolazione della stazione al partigiano somalo, evitando così d’incorrere negli stessi strali.

È in questa fase che la sindaca Virginia Raggi – in un momento politico in cui si rincorrevano anche le voci su possibili alleanze giallorosse e dunque lei era bisognosa di ampie strizzatine d’occhio a sinistra, approfittando, nel contempo, per dare una stoccata alla sua ex alleata di partito Monica Lozzi, futura competitor in Campidoglio – pensò bene di fare sua la battaglia pro Marincola e di far votare una mozione per intitolare la fermata Amba Aradam al partigiano di colore. Ad agosto 2020, con 27 voti a favore, 3 contrari e 4 astenuti, l’assemblea capitolina approva.

Tra gli astenuti, c’è però anche un pezzo da novanta del Movimento 5 Stelle romano, tale Enrico Stefàno, che nelle sue dichiarazioni a caldo, dopo quel voto, fa eco ai dubbi mossi in precedenza da Monica Lozzi: “Marincola merita un’attenzione significativa, ma la risposta non può essere intestargli una stazione della metropolitana, cosa che segue da sempre regole diverse e cioè la toponomastica”.

Chi era Giorgio Marincola

Che quella di Giorgio Marincola sia una figura bellissima ed eroica, quasi un Goffredo Mameli del novecento, meritevole perciò di essere ricordato, onorato e di fungere da esempio alle future generazioni, è fuori di dubbio. Non è questo, infatti, il punto della questione.
Di lui abbiamo già parlato, in un nostro articolo, pubblicato per la prima volta un anno e mezzo fa, in occasione della Festa della Liberazione, dunque in tempi non sospetti, precedenti alle polemiche sull’intitolazione della stazione Amba Aradam, articolo poi riproposto quest’anno per la stessa occasione.

Nato in Somalia – all’epoca colonia italiana – da padre italiano e madre somala, Marincola si trasferì giovanissimo a Pizzo Calabro e successivamente a Roma, nella zona di Casal Bertone. Nella Città Eterna trascorse gli anni degli studi, fino a iscriversi a medicina, prima che la guerra lo portasse lontano dalla Capitale, per entrare nei gruppi partigiani, con i quali partecipò a diversi combattimenti, in varie zone d’Italia, trovando infine la morte in Trentino, a Stramenizzo, per mano dei nazisti, a soli ventidue anni.

I nomi e i luoghi di una città

In un altro nostro vecchio articolo, anch’esso scritto in tempi non sospetti, abbiamo già sottolineato l’importanza di mantenere un forte legame fra il nome delle vie, delle piazze – dunque anche delle stazioni – con il luogo in cui quel nome compare. Le vie che raccontano la storia di un quartiere, il suo passato, contribuiscono ad accrescere l’amore degli abitanti per la propria zona, per la propria città.
Calare dall’alto dediche che nulla hanno a che fare con quei luoghi, è invece un modo, forse inconsapevole, per svilire l’anima di quei luoghi e, nel complesso, dell’intera città di Roma.

Chi vive in centro può raccontare con orgoglio il perché e il percome la strada in cui lui abita si chiami così. C’è tutto un mondo di storie, di leggende, di vicende umane, di emozioni, dietro nomi come via dei Banchi Vecchi, via dei Fienaroli, piazza Navona, piazza dell’Orologio, via delle Zoccolette. Storie legate fortemente al luogo.
E allora perché non fornire qualcosa di analogo anche a chi abita in periferia, facendogli sentire, fin dalla toponomastica, l’orgoglio di fare parte di una comunità, spesso ricca di un passato denso di storia e di umanità?

Dunque perché non intitolare una piazza, un parco, o anche erigere un monumento a Giorgio Marincola, nel quartiere di Casal Bertone, quello in cui lui è vissuto? In tal modo si racconterebbe agli attuali abitanti della zona, che quell’area di Roma, spesso considerata poco “nobile”, ha invece avuto illustri abitanti di cui andare fieri: persone illustri come Marincola.

Si permetterebbe così ai ventenni di oggi, di colore e non, che vivono a Casal Bertone, d’identificarsi con un ventenne di ieri, con quell’eroico “enfant du pays”, un ragazzo da poter sentire come “uno di noi“, uno che guardava gli stessi nostri panorami, che aveva le nostre stesse difficoltà e, al tempo stesso, un “fratello” da prendere come punto di riferimento. Finendo per essere fieri di vivere nello stesso posto in cui è vissuto un uomo così.

È questo un modo più reale, concreto, autentico, profondo, di rendere un partigiano di colore un vero esempio positivo per chi viene dopo di lui, contribuendo in tal modo ad avvicinarcelo, creando un clima culturare diffuso che non faccia differenze in base al colore della pelle, e che non faccia sentire a nessuno come un “estraneo” quel ragazzo somalo, morto quasi ottanta anni fa.

Ben altra cosa è dedicargli invece una stazione in via dell’Amba Aradam, una zona di Roma dove lui non è mai vissuto, che non frequentava abitualmente, creando non solo i problemi pratici evidenziati da Monica Lozzi e da Enrico Stefàno, ma anche un nuovo scollamento fra la toponomastica e i luoghi della città, fra gli abitanti di un quartiere e gli amministratori pubblici, fra le teorie formalmente antirazziste e i concreti effetti pratici.

Nell’ansia di apparire a tutti i costi politicamente corretti, di tutto ciò non si è tenuto in alcun conto.
Amba Aradam, tra l’altro, è un luogo che a molti romani fa venire in mente un personaggio universalmente amato come Alberto Sordi. In quella strada c’è la villa in cui l’attore ha vissuto per decenni e che molti vorrebbero trasformare in museo. Perché non dedicarla a lui la stazione, se proprio le si doveva cambiare nome? Perché non assegnarla ad Albertone, che un legame con quel luogo ce l’ha? Perché Marincola?

È chiaro che Marincola sia stato scelto solo in nome dell’esaltazione di un’ideologia della cattiva coscienza colonialista, la quale, pensando di emendarsi e redimersi dagli antichi peccati, ha deciso di auto infliggersi una sorta di legge del contrappasso: se via dell’Amba Aradam è dedicata a un luogo del Corno d’Africa in cui è avvenuta una strage di etiopi, allora, per liberarci da quel passato macchiato di sangue, dedichiamo la stazione, che sorgerà lì, a un eroe di origini africane. Che poi, a voler essere pignoli, la Somalia di Marincola non è esattamente l’Etiopia di Amba Aradam, ma va bene lo stesso, basta il pensiero.

Però non è certo battendosi il petto a posteriori che si riscrive la storia. L’importante, semmai, è non ripetere gli errori, analizzando e tenendo sempre presenti quelli del passato, senza cancellarli per far finta di non averne mai commessi. Ogni nazione al mondo ha una sua vicenda fatta di meraviglie e di nefandezze, incluse le stesse Somalia ed Etiopia, nazioni che, insieme all’Eritrea, si sono scannate per decenni – in tempi anche recenti – una volta ottenuta l’indipendenza, in guerre fratricide, dense anche di massacri etnici, perpetrati dalle vittime di un tempo.

Come detto prima, non si capisce inoltre il perché, ad esempio, via Goito, luogo in cui morirono molti austriaci, con analogo metodo e per identiche ragioni, non venga subito intitolata al vecchio Maresciallo Radetzky, via Isonzo all’imperatore Francesco Giuseppe e via Lepanto a Solimano il Magnifico. Forse perché i morti di quelle altre battaglie erano nordici e non di colore?

Perlomeno nel caso degli ottomani sconfitti a Lepanto, questo ragionamento etnico vale fino a un certo punto, visto che la maggior parte di quei morti furono asiatici e africani. E, sempre nel caso di Lepanto, quella guerra fu fatta per pure ragioni coloniali, esattamente come quella di Etiopia. Però la stazione Lepanto del metrò sta sempre lì, indisturbata. E a nessuno è venuto in mente di cambiarle il nome.
Probabilmente i turchi non vanno molto di moda e difenderli non porta molti voti, né titoli di giornale.

È proprio questo uso, piuttosto evidente, di diversi pesi e misure, nelle varie situazioni, che toglie credibilità e forza alle recenti esibizioni di antirazzismo. Si tratta, infatti, di un antirazzismo parziale, arbitrario, non si sa quanto realmente sentito nel profondo, però ostentato in direzione del pubblico e dei media, gridato ai quattro venti.
Troppo gridato.

Chi ostenta stenta, lo dicevamo all’inizio, anche quando ci s’inginocchia su un campo di calcio, o si dedicano stazioni a eroi di colore. Soprattutto se lo si fa per pulirsi la coscienza e fare bella figura, senza però preoccuparsi dei reali effetti del proprio gesto, ma solo di ciò che l’indomani verrà scritto sui titoli dei giornali.
Titoli che a volte, per reazione, finiscono per provocare un effetto esattamente opposto a quello dichiarato come obiettivo da raggiungere e per far rinascere, anziché cancellare, rigurgiti di razzismo.

 

 

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