I tuoni di Roma
Tre ragazzi e una ragazza, la periferia romana, in una zona tra il Grande Raccordo Anulare e l’Aniene. Questi gli ingredienti base del romanzo di Tommaso Giagni, che senza una parola di troppo segue le loro vicende, in un percorso che di è scoperta e di consapevolezza. Manuel, Flaviano, Abdou e Donatella condividono un percorso di esclusione, di marginalizzazione rispetto alla “città”. Origini e talenti diversi che non soccombono, anzi. Tengono vivo il conflitto sociale. Questa intervista è stata realizzata telefonicamente.
Tommaso Giagni, come sei partito?
L’idea che avevo quando ho iniziato a scrivere questo romanzo era di raccontare una periferia nuova, che dieci anni fa non esisteva o non era delineata in questo modo. È un romanzo che contiene una dinamica narrativa che reputo interessante: quella dei quartieri residenziali accanto ai centri commerciali, che si trovano loro malgrado isolati, e di fatto in una condizione pericolosamente vicina a quella dei marginali.
Cos’è in cambiato in questi anni?
C’è da considerare che veniamo da 10 anni di una crisi economica che ha impoverito il paese e che, oltre ad aumentare le disuguaglianze, ha peggiorato le condizioni di chi ai margini già ci stava. Ha impoverito un ceto medio che non aveva grande familiarità con l’isolamento, spingendolo su un pericoloso precipizio da cui 15 anni fa era distante.
Manuel, Flaviano e Abdoul da una parte, e dall’altra c’è Donatella, la ragazza che viene ad abitare al Verde Respiro, una figlia del ceto medio. Come si caratterizzano questi due mondi?
La famiglia di Donatella proviene da un quartiere più centrale e si ritrova a vivere in una zona residenziale, il Verde Respiro, che non ha nulla del sobborgo americano che loro immaginavano, con le villette a schiera, il prato davanti e dietro: quel tipo di residenziale a Roma, e direi in generale in Italia, prende una piega diversa, un quartiere poco attrezzato, molto anestetizzato, e nato da promesse deluse.
Immaginavano un quartiere iper servito, con parchi attrezzati, negozi. E invece?
C’è poco di tutto questo.
I tre ragazzi?
Loro vengono da condizioni e origini diverse, ma in realtà stanno dalla stessa parte della barricata. Vivono ai margini, in quello che io chiamo il Quartiere, e la loro differenza non li allontana, perché sono più forti le cose che hanno in comune. Flaviano vive in una casa popolare, Manuel in un retrobottega di un negozio abusivo nel quartiere. E Abdou vive in quelle che erano le cantine-garage del Quartiere che presto sono stati dismesse e trasformate in appartamenti.
Tu lo chiami “il Quartiere”, senza dare un nome a questa periferia. Perché?
Mi sembrava riduttivo raccontare un quartiere esatto, nel senso che quelle dinamiche le abbiamo presenti in molte zone della nostra città e sono dinamiche che si trovano anche fuori da Roma. Poi naturalmente mi sono ispirato a qualcosa di esistente, ma ci tenevo a raccontare in modo universale i margini urbani di Roma e delle città italiane del 2020.
Quale rapporto hanno questi ragazzi con questa città che li ha messi da parte?
Roma sono anche loro, Roma è anche il Quartiere. Il rapporto con il Centro storico è di grande estraneità e di stupore. I ragazzi vanno a fare una gita e vanno a vedere Fontana di Trevi e addirittura uno dei tre, Manuel, non l’aveva mai vista. Pur essendo suggestionati dal Centro storico, finiscono per considerarlo poca cosa. Risulta disabitato e spettrale. Credo che sia più interessante la vita che scorre ai margini, più centrale nella socialità della città la parte periferica, che quella geograficamente al centro.
Del resto gran parte della popolazione romana non vive nel Centro storico.
Esatto, ed è questo il passaggio che andrebbe fatto nelle narrazioni sulla nostra città. Nel 2017 più di una persona su 4 abitava non fuori le mura, ma fuori del Raccordo Anulare. Significa che la città si è talmente espansa ed estesa che bisogna iniziare a rovesciare il discorso. Insomma è molto più Roma quello che c’è ai margini che quello che c’è nel mezzo. Il Centro storico, secondo me, dovrebbe essere recuperato come piazza, luogo di incontro, non come parco a tema per turisti.
Attraverso la narrazione affronti anche la gentrificazione romana, che ha espulso tante persone ai margini.
Non ne faccio un saggio, anche perché penso che letteratura debba fare la letteratura, la sociologia la sociologia, l’urbanistica l’urbanistica e così via. Il fenomeno della gentrification è tra i più potenti e violenti che avviene a livello urbano ovunque nel mondo, e tutto sta nel gestirlo, cioè nel come viene controllato o non controllato questo fenomeno. Si parla sempre della violenza delle periferie, in realtà la violenza è di chi espelle le comunità dai territori e del pubblico che dovrebbe contenere questi fenomeni.
Cosa accade?
La gentrification ha aggredito in questo romanzo il quartiere dove Donatella era vissuta e da dove la sua famiglia se n’è andata. E avviene quello che conosciamo, il quartiere storicamente popolare che diventa un quartiere alla moda, con i locali e poco altro, un quartiere svenduto all’intrattenimento, dove chi compra casa o la mette in affitto con Airbnb o la trasforma completamente per usarla al massimo come studio. Ma ecco la vita radicata del quartiere viene meno.
In Tuoni c’è anche la violenza, ed è anche inevitabile dentro lo scenario sociale che descrive…
Direi che l’inevitabilità riguarda più il conflitto che la violenza. È un romanzo molto centrato sul conflitto, che all’inizio è sotterraneo e poi emerge. Al lettore chiedo la pazienza di vedere come piano piano viene alla luce. Credo che il conflitto faccia parte della società, delle persone, anzi credo che viviamo in un’epoca in cui il conflitto è spesso sotterraneo molto più di quanto dovrebbe essere. Invece deve essere considerato e non rimosso.
Come hai lavorato?
I Tuoni ha una forma molto asciutta e precisa. Io parto dall’idea che il lettore non sia uno scemo e non vada imboccato. Con il lettore ci si può impegnare a vicenda per raccontare una storia modo complesso, senza aver paura che scappi perché è una questione troppo alta, troppo profonda, troppo difficile. Ho cercato di andare incontro al lettore senza però andare contro qualcosa che non corrispondesse alla mia sensibilità.
I tuoi autori di riferimento per questo lavoro?
Naturalmente c’era da fare i conti con chi ha raccontato e bene le periferie prima di me, e quindi Pasolini, Siti, che raccontano però una periferia che non è più così, non esiste più quella società, quelle persone. Avevo l’impressione che bisognasse fare un passo in avanti e registrare cosa succedesse. Un altro gruppo di autori importanti sono quelli che raccontano la vita nei sobborghi del ceto medio fuori dall’Italia, perché nel nostro Paese è un argomento poco esplorato. Per fare un esempio, Jeffrey Eugenides che è in esergo nel romanzo, ed ha scritto questo bellissimo romanzo che è Le vergini suicide. Così come i romanzi di Ballard, in particolare gli ultimi, che parlano apparentemente di tutt’altro, con una società iper-sorvegliata e socialmente elevata rispetto a quella del Verde Respiro nel mio romanzo, ma quel tipo di paranoia e ossessione per il decoro, per esempio, è la stessa che riscontro nei quartieri residenziali oggi intorno ai centri commerciali di Roma.
[La foto del titolo è di Mauro Monti]